La vita di ogni avanguardia è breve.
Deve esserlo.
Specie se mira all’imminenza del futuro.
Erroneamente si crede che il futuro abbia a che fare con il tempo; invece è solo una questione di… spazio.
Ancora erroneamente si crede che il Futuro abbia a che fare con la Velocità e la Tecnologia (gli strumenti e i mezzi sempre più perfezionati e sofisticati. Il 3D. Lo HD. Il WiFi) ma è invece solo una questione di…cura dell’istante (questa è la vera utopia: fare le cose per bene al momento giusto!).
Quando Filippo Tommaso Marinetti, fondatore e principale teorico del Futurismo, pubblicò il suo famoso manifesto su “Le Figaro” (20 Febbraio 1909), probabilmente già sapeva che nell’arco di dieci anni quella rivoluzione si sarebbe di fatto conclusa e, come lui stesso ebbe a dire, <<…si sarebbe dovuto gettare tutto nel cestino…come cose inutili…Noi lo desideriamo!>>.
Cosa direbbe oggi il povero Marinetti nel vederle, quel milione di automobili ruggenti che sembrano correre sulle mitraglie e quelle grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere e dalla sommossa; nel constatare insomma i risultati di quella “Civiltà delle Macchine” esaltata e mitizzata anche da poeti-ingegneri?
E cosa direbbe nel vedere l’accanimento terapeutico sul suo Futurismo per tenerlo in vita grazie alle macchine, al web a quel neo-dedalo digitale che ormai necessita di una sua Arianna per entrarvi e non lasciarsi irretire?
E’ in questo nuovo spazio, virtuale e senza dimensioni, che oggi è finito il Futuro!
Che il Futuro sia una questione di spazio è evidente per il fatto che mai ci fu più futuro di quando Cristoforo Colombo si imbarcò per colmare la distanza che separava l’Europa dalle Indie. E mai c’è stato più futuro di quando la grande epopea astronautica ha portato l’uomo sulla Luna.
Il Futuro come il Passato è né più e né meno che una proprietà del tempo presente: ci sono presenti che hanno più futuro di altri, proprio come un materiale può essere più elastico di un altro.
La macchina (e la velocità) è sempre stata la vera ossessione dei Futuristi, il loro mito, e come tale veniva (e viene ancora da taluni) celebrata per la sua capacità di liberare l’uomo dalle catene dello spazio e del tempo anzi, è una “metafora concreta” di potenza massima, funzionalità, ordine, precisione, garanzia di asetticità emotiva. La macchina è stata il motore della rivoluzione futurista della produzione industriale dell’emancipazione dell’uomo per alleggerire quello che la Weil definiva “la danza macabra” dell’uomo : il lavoro.
Ma la vera domanda, allora come oggi, è chiedere cosa quelle macchine avrebbero e hanno fatto di noi. Come quel futuro rincorso, immaginato, raggiunto e già archiviato ci avrebbe e ci ha trasformati.
Il “futurismo contemporaneo” non è credibile e non “funziona”: è solo un ossimoro.
Non può funzionare primo perché non esiste più…uno spazio convenzionale, secondo perché nel frattempo c’è stato un uomo che ha fatto corrispondere i limiti del mondo (quello individuale e quello dell’umanità) con quelli del linguaggio ( anche quello di un futurista) e oggi il linguaggio si è ridotto ad un cinguettìo, ad una nota di wikipedia o al “brum” di un motore di ricerca. Troppo poco futuro per un presente cosi poco spazioso e così tanto rumoroso.
Il vero problema, come anche i Futuristi sanno, non è dato dalla imperfezione dei mezzi: questi si possono migliorare sempre; ma dall’ambiguità dei fini: scoprire l’America? Andare sulla Luna? Costruire una nuova arma? Sconfiggere il cancro? Tagliare i costi o investire? Pace? …Guerra?
Il Futuro, le macchine ci hanno trasformati: noi, uomini tanto evoluti ed intelligenti da crearle e perfezionarle, ci siamo ritrovati ad essere analfabeti di sogni con un cuore sempre più ignorante.
E così Chuang Tzu aveva ragione : anche i moti dello spirito si conformano alla macchina.
Il futuro è passato e i futuristi con le loro macchine, alla loro straordinaria velocità di pensiero, parola e azione sono ancora lì a rincorrerlo con l’armamentario vecchio di parole libere dalla prigione del periodo, di parole che ormai sono solo un cinguettìo; soddisfatti e tronfi delle loro auto- autobiografie, dei loro profili digitali e delle loro facce tale e quali; incuranti del fatto che in quel cestino, sul loro i-pad in basso sullo schermo, c’è ancora tanto spazio per soddisfare l'ultimo desiderio di Marinetti.
venerdì 5 dicembre 2014
giovedì 30 ottobre 2014
La formula dell'acqua
“Se avessimo alzato le vele e fossimo andate anche noi per mare chi sarebbe restato a dondolare la culla chi ti avrebbe aspettato. Chi mai avrebbe acceso il fuoco e preparato da mangiare o solo catturato e spazzato via tutti gli incubi. Chi mai lo avrebbe fatto? Caro Odisseo. Dimmi, chi mai si sarebbe preso cura delle cose se anche noi donne fossimo andate via? Tua Penelope”
Ho voluto parafrasare le ultime tre quartine della Lettera da un paese lontano di Gillian Clarke per agevolare “l’immersione” in questa Odissea in miniatura di soli 407 versi ( contro i dodicimilacentodieci del poema omerico). Ci immergiamo-è proprio il caso di dire-perchè tra le Ricette per l’acqua [1] (raffinato volumetto per i tipi de Il Ponte del Sale, nelle fedele traduzione di Giorgia Sensi) questa Lettera mi appare il bacino di raccolta della fonte, della sorgente miracolosa ed inesauribile da cui la Bardo gallese attinge.
Prima di tutto è utile ribadire il fatto che esiste una corrispondenza unica tra acqua e poesia, tra i loro rispettivi stati fisici, vapore, liquido e ghiaccio: si, anche la poesia può assumere fisicità sotto i differenti stati della materia di cui è composta (parole-molecole più o meno legate tra loro). Inoltre, come l’acqua, anche la poesia ha una sua ciclicità un suo ritmo, legati evidentemente alla memoria [2]; ma questa di Gillian Clarke è una memoria del...futuro.
Cari mariti, padri, antenati,
questa è la mia apologia,
la mia lettera a casa dal futuro,
la mia bottiglia nel mare che potrebbe
metterci una generazione ad arrivare.
Odisseo impiega 10 anni per tornare a Itaca. Questa lettera è già arrivata prima di partire perché non è una profezia che si autoavvera (come quella fatta a Odisseo da Tiresia o a Macbeth da Ecate) ma una verità che si è fatta profezia: gli Uomini, e tra questi sempre più donne, da sempre hanno assediato città, dispiegato flotte, soldati ed armi, hanno occupato luoghi di potere ( a cominciare dai loro cuori); le Donne, e tra queste, pochi uomini, si sono “accontentate” di preservare o mettere ordine laddove tutto è messo a ferro e fuoco.
Se l’Odissea è un poema epico che racconta di Nessuno, Lettera da un paese lontano è un poemetto altrettanto epico, una Odissea di genere, dove Nessuno diventa Tutte le Donne. La Lettera, a differenza dell’Odissea, è “...breve come la formula dell’acqua e del sale” [3] e per questo così tanto penetrante, ravvivante e di un gusto semplice e raffinato.
Il segreto dell’acqua -e della poesia quindi- è la sua ...semplicità: le molecole
di acqua sono dipolari, cioè divise in una parte positiva e in una negativa, consentendo così di attrarsi reciprocamente. Questa attrazione, particolarmente intensa, spiega molte proprietà dell’acqua e, in metafora, della poesia. E’ per questa semplicità che
la casa [...] dolce come un favo
fa sentire il profumo del miele e richiama allo spirito dello sciame a quel calore che si può trovare in una di quelle vecchie case di pietra e legno come si vedono a Bryn Isaf, nel Galles, o così frequentemente, nelle campagne d’Europa.
E’ per la presenza di questo legame semplice nella molecola dell’acqua che si possono spiegare i valori alti del punto di fusione e di ebollizione: il ghiaccio deve fondersi lentamente e nella giusta quantità così come il mare o il fiume non possono scappare, velocemente e in modo disordinato, in aria per poi riprecipitare con violenza a terra.
E Gillian infatti ci ricorda quale è il ciclo naturale delle cose:
Il canto si perde in linfe e infiltrazioni,
amplificato da alberi cavi,
coppe di foglie e vento tra i rami.
Tutte le vecchie conversazioni
.... serbate
per sempre come voci in un pozzo.
L’acqua presente sul nostro pianeta è sempre la stessa da milioni di anni. Quando la terra ha cominciato ad avere un’atmosfera stabile e prolifica per la vita , l’acqua è stata il primo elemento ad ospitarla : così come la vita è ospitata nelle parole di Gillian. Tecnicamente l’acqua non può esaurirsi ma può essere messa... a ferro e fuoco da un dio irrequieto, invidioso, arrogante che ha facoltà di cambiarne il ciclo o di perderne, irrimediabilmente, il controllo.
Odisseo, l’uomo solo, è in balia di questo ciclo dell’acqua: viene sbattuto ripetutamente sulle coste, quasi completamente annientato dall’impazzimento di un ciclo diventato innaturale e inspiegabile. Perché la guerra. Perché Eolo. Perché Poseidone.
C’è sempre una ragione ben presente all’epica dell’uomo. Come c’è un motivo ben presente ad ogni sua impresa : la futura memoria, la vanità, la gloria.
Per le Donne, invece?
Nella Piccola Odissea della Clarke, le Donne sono le creatrici di questo ciclo perché loro sono avvinte alla luna, alle maree e alle stagioni. Lo sono attraverso un ritmo naturale che è misura intrinseca della memoria passata e di quella futura,”...di una catena temporale di sforzi coordinati necessari a porre ordine...” [4]
E’ sempre stata una questione
di liste. Non facciamo che contare,
noi, piegare, misurare, fare,
amorevolmente lavare stoffa
dacché siamo donne.
Le onde di un bianco candido, vengono
meticolosamente piegate. Poi sono fatte rotolare
e devono essere ripiegate.
In questa Piccola Odissea dove le giornate sono preservate tutte intere in bottiglia non c’è spazio per domande maschili (Dove sono...le vostre grandi opere?) perché la donna è intrisa d’acqua e il suo tempo è regolato sull’orologio del campanile marino... [e] ...la luna ne decide il suo equinozio.
In questa Odissea femminile dove non c’è Nessuno a combattere e a dibattersi per la sua gloria futura, Gillian Clarke glorifica il futuro di tutti perché se le imprese degli uomini nascono espressamente per la memoria, quelle delle donne si fanno grazie alla memoria.
Oggi questa lettera non è firmata,
non è finita, non è impostata.
Quando sarà finita
la imposterò da un paese lontano.
[1] Gillian Clarke “Una ricetta per l’acqua. Poesie scelte 1982-2009” nella traduzione di Giorgia Sensi, Il Ponte del Sale (maggio 2014);
[2] G. Ferrara “Buon sangue. Non Mente” (questo blog, 8 maggio 2014);
[3] Leonardo Sinisgalli. Poeta al servizio di due Muse a cura di Silvio Ramat Poesia, anno XIV ( febbraio 2001);
[4] G. Ungaretti, lettera scritta a Leonardo Sinisgalli per il primo numero di Civiltà delle Macchine (Gennaio 1953).
domenica 7 settembre 2014
Le impronte lasciate sui sassi
In quali occasioni camminiamo scalzi?
Quando andiamo al mare, per esempio; a molti di noi piace farlo a casa magari su un bel parquet che restituisce il calore e la spinta della pianta del piede; ma soprattutto lo abbiamo fatto quando eravamo bambini, quando “...s'andava scalzi per i fossi...[e]...si misurava l'ardore/ del sole dalle impronte lasciate sui sassi.”[1]; nei tempi in cui si saliva a piedi nudi sul mandorlo e si scendeva.
Ecco cosa è, nella sua apparente semplicità, un haiku: un'impronta lasciata sui sassi. Nei suoi tre versi, rispettivamente di cinque, sette e cinque sillabe, molto emerge dal poco e comunque, a misura del suo ardore, l'essenziale appare nella sua assenza.
E' “l'acuta presenza” di qualcosa che è appena passata o che deve ancora -fisicamente- apparire come quelle emozioni mosse da una musica che non è presente realmente ma che si ricorda e risuona nella nostra testa: un “niente” quindi che produce qualcosa di fisico che si manifesta in un nostro cambiamento d'umore, un sorriso, una lacrima. Una mutazione. Valerio Magrelli scrive a questo proposito[2]in un suo breve trafiletto (haiku in prosa?) che “...spesso proprio l'assenza di suoni può provocare un nuovo desiderio di ascoltarli, cioè una loro più “acuta presenza”- immagine questa tratta da Attilio Bertolucci-; il silenzio , il vuoto, l'assenza, dunque rappresenta “una paradossale forma di nutrimento”. Per crescere “...ogni cosa ha bisogno dell'humus dell'assenza”.
Qui, in queste poche parole, è racchiuso lo spirito degli haiku. Queste poesie di 17 sillabe sembrano facili e sembrano quindi suggerire che si possa diventare poeti, fare poesia, con grande semplicità. E' così ma in un senso diverso. Più si è semplici-più si torna ad esserlo-più virtù si posseggono e si recuperano: il lavoro a queste “semplici poesie” ha senso solo se coincide con la edificazione, con la ristrutturazione di sé. Ciò equivale a fare della Vita la posta in gioco e, insieme, la pietra di paragone dell'opera.
L'haiku è una forma di riappropriazione spirituale della Natura alla quale lo stesso poeta appartiene. E' una specie di lucchetto-sentite scattare il sette tra i due cinque?-che ci assicura ad alberi molto vecchi, alle maestre silenziose, le montagne, alle onde del mare e alle stelle del cielo. E' fuor di dubbio che l'haiku è un evento naturale: il cinque e il sette infatti esprimo ritmo e armonia del mondo. Nel pensiero orientale 5 sono le stagioni (le quattro fondamentali più il Nuovo Anno), 5 sono le Attività, gli Elementi, le Note ed è superfluo ricordare quanta risonanza produca il 7 anche nella nostra cultura occidentale: le Opere di Misericordia, i Vizi capitali, i Colori dell'Arcobaleno, le Note,...
Il ritmo naturale, l'avvicendarsi cioè delle cose, il recupero dell'armonia: questi sono il mezzo e il fine dell'haiku e chi scrive viene risucchiato all'interno di questo paradosso nel quale una presenza emerge dall'assenza che la circonda: il poeta emerge dall'haiku se l'haiku “svanisce” e l'haiku emerge dal poeta se questi si fa da parte.
Supponiamo di irritarci per qualcosa [3]: esprimiamo subito in diciassette sillabe la nostra irritazione così facendo essa si è trasformata in qualche altra cosa.
Piangiamo.
Proviamo a trasformare queste lacrime in diciassette sillabe e subito ci rassereniamo: composte in diciassette sillabe le lacrime di sofferenza si sono allontanate da noi ed è rimasta la gioia di essere uomini che sanno piangere.
Pur nella sua brevità l'haiku impone una sorta di codice necessario ad evitare ogni descrizione superflua. Innanzitutto ogni haiku deve iscriversi in una delle cinque stagioni. Il poeta può usare e può essere usato da una parola che rimanda alla stagione: a tutti gli effetti lui stesso si fa stagione e la rappresenta così la luna piena non potrà che essere la luna d'autunno e la sua malinconica dolcezza, così come la luna brumosa altro non è che la primavera e la sua rinascita. Questo è il cosiddetto kigo, l'indicazione temporale che permette di collegare il poeta alla stagione e viceversa: è per così dire il sasso gettato nello stagno, la sua inclinazione ne decreterà la traiettoria e la sorte; potrà rimbalzare più volte sul pelo dell'acqua (non più dei tre versi dell'haiku) e finirà nel fondo dello stagno. Dopo il kigo, fa parte del codice non scritto dell'haiku il kireji, una sorta di interiezione poetica come i nostri “oh!” e “ah!” che aiutano a costruire la struttura 5-7-5 ma informano anche sullo stato d'animo del poeta: in modo molto discreto , attraverso il kireji, il poeta lega il suo stato d'animo -ammirazione, stupore, dubbio, gioia, rassegnazione- a ciò che lo circonda, riflesso probabile di quello che vede intorno; desiderio di trasferire quello che prova a ciò che lo circonda: il sasso è lanciato ma è anche raccolto ; lo stagno è colpito ma allo stesso tempo colpisce.
Questa delicata presenza dell'io, destinata a sfumare nel corso di sole 17 sillabe fino alla sua totale scomparsa/fusione, è la caratteristica dello spirito zen: la fusione armonica con la Natura avviene se l'Uomo perde di vista il suo ego.
Quale è il modo migliore per perdere di vista il proprio ego se non quello di ritornare “...scalzi per fossi” come facevamo da bambini o quello di riprendere quella musica che abbiamo realmente ascoltato e che ci risuona nella testa(?), tornare a quell'istante e quel posto e a quell'emozione rotonda, piena e sensuale che abbiamo assaporato del/dal mondo FISICO?
La vera pena dell'uomo è di non vivere in un mondo FISICO -quanto è più vero oggi se pensiamo all'altro mondo del web-come invece si faceva da bambini, quando salivamo su un albero a raccogliere mandorle o ciliege, quando soppesavamo con cura la pietra da lanciare sul pelo dell'acqua, quando per accendere il fuoco raccoglievamo le foglie che in autunno il vento ci portava in dono [4]. L'haiku cerca di restituirci questo paradiso e lo fa mostrandoci, senza fronzoli e senza giri di parole, che ogni dolore, ogni delusione, ogni disperazione così come ogni suprema gioia sono sopportabili, cioè noi, per Natura, siamo fatti per sopportare tutto questo. Ciò che non possiamo assolutamente sopportare è il male di vivere in un mondo non più FISICO [5], un mondo senza ritmi, senza stagioni: questo è contro natura e da questo veniamo sopraffatti ed annientati.
Questa è la ragione per la quale siamo sempre alla ricerca di quell'ardore iniziale col suo corredo di immagini primitive e antiche che ancora ci dominano. In un haiku la Natura ci accoglie nelle sue meravigliose semplici esibizioni di luci, nuvole, temporali, tra i rami di un mandorlo, sotto un manto di rugiada, nei suoi fiocchi di neve, in mezzo alla lava incandescente, nel fondo di uno stagno.
Impronte, impronte lasciate sui sassi.
Tre brevi versi sulla Pagina.
Poiché è-inutile dirlo- difficile vivere in un mondo da cui non si può evadere, si deve tentare, per quanto possibile, di renderlo FISICAMENTE accogliente, anche se per breve tempo, quello di una vita o quello di piccole diciassette sillabe. Questa è la vocazione del poeta di haiku: qui la Natura assegna all'Arte la sua missione, quella di restituire armonia al mondo e arricchire il cuore degli uomini.
Cielo terso d'autunno
e un antico boschetto
come siepe.
Cielo chiaro d'autunno
tutti questi passeri-
frullare d'ali.
Dolce ricordo:
pettinature di bimbi-
le viole fiorite.
Ah! L'usignolo-
ma solo pochi tra noi
se ne accorgono.
Giungendo batto
ritornando busso
la notte intera.
Passate di qui
cercando di evitare
i ricci caduti.
Al chiar di luna
le creste di gallo
sbocciate ovunque.
Ormai l'amore per me
è afferrabile quanto
zucca o lumaca.[6]
Riferimenti
[1]-L. Sinisgalli da Vidi le Muse, Mondadori ,1943;
[2] V. Magrelli Quella musica imposta che impedisce di essere, da Repubblica del 24 Agosto 2014;
[3] Natsume Soseki Guanciale d'erba Neri Pozza 2001;
[4]Philippe Forest Sarinagara Alet 2008;
[5]Wallace Stevens Aurore d'autunno, Adelphi 2014;
[6] Nota Bene: nella traduzione dal giapponese all'italiano viene evidentemente persa la ripartizione sillabica 5-7-5 dei versi che compongono l'haiku. Ryokan Novantanove haiku, La Vita Felice, 2011.
Quando andiamo al mare, per esempio; a molti di noi piace farlo a casa magari su un bel parquet che restituisce il calore e la spinta della pianta del piede; ma soprattutto lo abbiamo fatto quando eravamo bambini, quando “...s'andava scalzi per i fossi...[e]...si misurava l'ardore/ del sole dalle impronte lasciate sui sassi.”[1]; nei tempi in cui si saliva a piedi nudi sul mandorlo e si scendeva.
Ecco cosa è, nella sua apparente semplicità, un haiku: un'impronta lasciata sui sassi. Nei suoi tre versi, rispettivamente di cinque, sette e cinque sillabe, molto emerge dal poco e comunque, a misura del suo ardore, l'essenziale appare nella sua assenza.
E' “l'acuta presenza” di qualcosa che è appena passata o che deve ancora -fisicamente- apparire come quelle emozioni mosse da una musica che non è presente realmente ma che si ricorda e risuona nella nostra testa: un “niente” quindi che produce qualcosa di fisico che si manifesta in un nostro cambiamento d'umore, un sorriso, una lacrima. Una mutazione. Valerio Magrelli scrive a questo proposito[2]in un suo breve trafiletto (haiku in prosa?) che “...spesso proprio l'assenza di suoni può provocare un nuovo desiderio di ascoltarli, cioè una loro più “acuta presenza”- immagine questa tratta da Attilio Bertolucci-; il silenzio , il vuoto, l'assenza, dunque rappresenta “una paradossale forma di nutrimento”. Per crescere “...ogni cosa ha bisogno dell'humus dell'assenza”.
Qui, in queste poche parole, è racchiuso lo spirito degli haiku. Queste poesie di 17 sillabe sembrano facili e sembrano quindi suggerire che si possa diventare poeti, fare poesia, con grande semplicità. E' così ma in un senso diverso. Più si è semplici-più si torna ad esserlo-più virtù si posseggono e si recuperano: il lavoro a queste “semplici poesie” ha senso solo se coincide con la edificazione, con la ristrutturazione di sé. Ciò equivale a fare della Vita la posta in gioco e, insieme, la pietra di paragone dell'opera.
L'haiku è una forma di riappropriazione spirituale della Natura alla quale lo stesso poeta appartiene. E' una specie di lucchetto-sentite scattare il sette tra i due cinque?-che ci assicura ad alberi molto vecchi, alle maestre silenziose, le montagne, alle onde del mare e alle stelle del cielo. E' fuor di dubbio che l'haiku è un evento naturale: il cinque e il sette infatti esprimo ritmo e armonia del mondo. Nel pensiero orientale 5 sono le stagioni (le quattro fondamentali più il Nuovo Anno), 5 sono le Attività, gli Elementi, le Note ed è superfluo ricordare quanta risonanza produca il 7 anche nella nostra cultura occidentale: le Opere di Misericordia, i Vizi capitali, i Colori dell'Arcobaleno, le Note,...
Il ritmo naturale, l'avvicendarsi cioè delle cose, il recupero dell'armonia: questi sono il mezzo e il fine dell'haiku e chi scrive viene risucchiato all'interno di questo paradosso nel quale una presenza emerge dall'assenza che la circonda: il poeta emerge dall'haiku se l'haiku “svanisce” e l'haiku emerge dal poeta se questi si fa da parte.
Supponiamo di irritarci per qualcosa [3]: esprimiamo subito in diciassette sillabe la nostra irritazione così facendo essa si è trasformata in qualche altra cosa.
Piangiamo.
Proviamo a trasformare queste lacrime in diciassette sillabe e subito ci rassereniamo: composte in diciassette sillabe le lacrime di sofferenza si sono allontanate da noi ed è rimasta la gioia di essere uomini che sanno piangere.
Pur nella sua brevità l'haiku impone una sorta di codice necessario ad evitare ogni descrizione superflua. Innanzitutto ogni haiku deve iscriversi in una delle cinque stagioni. Il poeta può usare e può essere usato da una parola che rimanda alla stagione: a tutti gli effetti lui stesso si fa stagione e la rappresenta così la luna piena non potrà che essere la luna d'autunno e la sua malinconica dolcezza, così come la luna brumosa altro non è che la primavera e la sua rinascita. Questo è il cosiddetto kigo, l'indicazione temporale che permette di collegare il poeta alla stagione e viceversa: è per così dire il sasso gettato nello stagno, la sua inclinazione ne decreterà la traiettoria e la sorte; potrà rimbalzare più volte sul pelo dell'acqua (non più dei tre versi dell'haiku) e finirà nel fondo dello stagno. Dopo il kigo, fa parte del codice non scritto dell'haiku il kireji, una sorta di interiezione poetica come i nostri “oh!” e “ah!” che aiutano a costruire la struttura 5-7-5 ma informano anche sullo stato d'animo del poeta: in modo molto discreto , attraverso il kireji, il poeta lega il suo stato d'animo -ammirazione, stupore, dubbio, gioia, rassegnazione- a ciò che lo circonda, riflesso probabile di quello che vede intorno; desiderio di trasferire quello che prova a ciò che lo circonda: il sasso è lanciato ma è anche raccolto ; lo stagno è colpito ma allo stesso tempo colpisce.
Questa delicata presenza dell'io, destinata a sfumare nel corso di sole 17 sillabe fino alla sua totale scomparsa/fusione, è la caratteristica dello spirito zen: la fusione armonica con la Natura avviene se l'Uomo perde di vista il suo ego.
Quale è il modo migliore per perdere di vista il proprio ego se non quello di ritornare “...scalzi per fossi” come facevamo da bambini o quello di riprendere quella musica che abbiamo realmente ascoltato e che ci risuona nella testa(?), tornare a quell'istante e quel posto e a quell'emozione rotonda, piena e sensuale che abbiamo assaporato del/dal mondo FISICO?
La vera pena dell'uomo è di non vivere in un mondo FISICO -quanto è più vero oggi se pensiamo all'altro mondo del web-come invece si faceva da bambini, quando salivamo su un albero a raccogliere mandorle o ciliege, quando soppesavamo con cura la pietra da lanciare sul pelo dell'acqua, quando per accendere il fuoco raccoglievamo le foglie che in autunno il vento ci portava in dono [4]. L'haiku cerca di restituirci questo paradiso e lo fa mostrandoci, senza fronzoli e senza giri di parole, che ogni dolore, ogni delusione, ogni disperazione così come ogni suprema gioia sono sopportabili, cioè noi, per Natura, siamo fatti per sopportare tutto questo. Ciò che non possiamo assolutamente sopportare è il male di vivere in un mondo non più FISICO [5], un mondo senza ritmi, senza stagioni: questo è contro natura e da questo veniamo sopraffatti ed annientati.
Questa è la ragione per la quale siamo sempre alla ricerca di quell'ardore iniziale col suo corredo di immagini primitive e antiche che ancora ci dominano. In un haiku la Natura ci accoglie nelle sue meravigliose semplici esibizioni di luci, nuvole, temporali, tra i rami di un mandorlo, sotto un manto di rugiada, nei suoi fiocchi di neve, in mezzo alla lava incandescente, nel fondo di uno stagno.
Impronte, impronte lasciate sui sassi.
Tre brevi versi sulla Pagina.
Poiché è-inutile dirlo- difficile vivere in un mondo da cui non si può evadere, si deve tentare, per quanto possibile, di renderlo FISICAMENTE accogliente, anche se per breve tempo, quello di una vita o quello di piccole diciassette sillabe. Questa è la vocazione del poeta di haiku: qui la Natura assegna all'Arte la sua missione, quella di restituire armonia al mondo e arricchire il cuore degli uomini.
Cielo terso d'autunno
e un antico boschetto
come siepe.
Cielo chiaro d'autunno
tutti questi passeri-
frullare d'ali.
Dolce ricordo:
pettinature di bimbi-
le viole fiorite.
Ah! L'usignolo-
ma solo pochi tra noi
se ne accorgono.
Giungendo batto
ritornando busso
la notte intera.
Passate di qui
cercando di evitare
i ricci caduti.
Al chiar di luna
le creste di gallo
sbocciate ovunque.
Ormai l'amore per me
è afferrabile quanto
zucca o lumaca.[6]
Riferimenti
[1]-L. Sinisgalli da Vidi le Muse, Mondadori ,1943;
[2] V. Magrelli Quella musica imposta che impedisce di essere, da Repubblica del 24 Agosto 2014;
[3] Natsume Soseki Guanciale d'erba Neri Pozza 2001;
[4]Philippe Forest Sarinagara Alet 2008;
[5]Wallace Stevens Aurore d'autunno, Adelphi 2014;
[6] Nota Bene: nella traduzione dal giapponese all'italiano viene evidentemente persa la ripartizione sillabica 5-7-5 dei versi che compongono l'haiku. Ryokan Novantanove haiku, La Vita Felice, 2011.
lunedì 14 luglio 2014
La persistenza dell'Origine
La cosa più sorprendente in Natura è l’esistenza del mondo. La cosa più interessante nel mondo è la nascita di un nuovo mondo nel cuore di quello vecchio. Ma la cosa veramente più intrigante di tutte è l’istante iniziale di questa nascita cioè la comparsa di una superficie che separa qualcosa di vecchio da qualcosa che si sta formando ex novo, apparentemente dal niente: una superficie che sembra cedere e contemporaneamente resistere a qualcosa.
Questo fenomeno, che viene indicato, a seconda dell’ambito, con i termini scientifici di nucleazione, gemmazione, segmentazione, è un vero e proprio miracolo perchè l’embrione, per così dire, del nuovo mondo-la nuova vita, quindi- per raggiungere una dimensione critica e continuare la sua crescita, deve necessariamente opporsi a una legge di Natura, la seconda legge della termodinamica.
Tale legge stabilisce che tutti i fenomeni naturali avvengono in un verso ben preciso e, di conseguenza, intrinsecamente irreversibile.
Detto in altri termini è poco probabile che si verifichi spontaneamente una combinazioni di fenomeni in grado di ripristinare lo stato iniziale, l’origine: una goccia di caffè in un bicchiere di latte formerà spontaneamente un caffe-latte di colore beige, ma non capiterà mai di vedere spuntare- spontaneamente- da un caffe-latte beige, una singola goccia di caffè nero...e ,ammesso che ciò accadesse, nulla si potrebbe dire sulla caffettiera che ha prodotto quel caffè! L’orologio implica un orologiaio ma non sempre dall’orologio si può risalire all’orologiaio.
Da questo punto di vista ogni atto creativo, inteso come “fenomeno naturale”, è una rappresentazione di un processo di nucleazione con un suo inesorabile corollario alla seconda legge della termodinamica: è naturale e, allo stesso tempo, complicato, ripercorrere un ...processo a ritroso fino a raggiungere, osservare e conoscerne l’Origine.
E’ noto che Walter Benjamin ha paragonato l’Origine ad una spirale, a un vortice [1]:
“...l’Origine sta nel flusso del divenire come un vortice e trascina dentro il proprio ritmo il materiale della provenienza...[e poichè] non emerge dalla sfera dei fatti ma si riferisce alla loro pre- e post-storia, l’origine non appartiene ad una categoria logica, ma storica...” se non addirittura mitica e poetica.
Ora probabilmente chi segue il Post delle Fragole sa che il suo intento è quello di arrivare alla radura, laddove si possa raccogliere il frutto primaverile, per questo il blog vorrebbe, e spera di, animarsi della piacevole sensazione del ritorno delle cose, del presentimento di una certa persistenza delle origini. Il mito, l’analogia e l’arte sembrano essere gli strumenti più adatti per raggiungere/mancare l’obiettivo, per arrivare/abbandonare sul/il Posto.
Molto più adatti della matematica, della logica e della scienza che permettono solo una delle due possibilità.
Proviamo allora a prendere sul serio l’immagine dell’origine come un vortice. Se c’è una forma che sembra ben rappresentare una superficie che cede e ubiquamente resiste alla disfatta del vecchio mondo sul nuovo e del vecchio sul nuovo; se c’è una figura che rappresenta contemporaneamente un movimento e la sua origine, un movimento dalla sua origine, questa forma è la spirale. Si pensi al riccio che si forma sulla cresta di un’onda o alle foglie che si dispongono ad elica sui rami degli alberi e ancora alle collisioni tra particelle elementari che lasciano tracce a forma di spirale o alle macromolecole, alle conchiglie, alle galassie : tutto è spiraleggiante, tutta la natura in movimento ha nel movimento la sua natura e la spirale sembra esserne la forma[2].
Se, come diceva Paul Klee[3]: “...l’opera d’arte non è una mera forma”, potremmo chiosare dicendo che la Natura, invece, si: e questa forma è la spirale “...figura conveniente e a portata di mano per rappresentare le piante, gli animali , la terra e la sua storia, le stelle e per interpretare al meglio i loro rapporti nell’Universo...”
La spirale possiede quella caratteristica naturale di separare un mondo vecchio da quello nuovo infatti è una forma che emerge e si separa da un flusso di cui faceva parte per continuare a parteciparvi in un modo diverso. In un mondo diverso. Per così dire è la forma eccellente a preservare una persistenza della sua origine: è sintomatico il fatto che se si lascia cadere in un gorgo (magnetico, gassoso, fluido, stellare ma anche di note, di colori, di parole, di pensieri) un oggetto esso manterrà, nel suo costante ruotare, la stessa direzione puntando, per così dire, verso il nord ( si, proprio come l’ago di una bussola) rappresentato dal vertice o dall’origine del gorgo.
Così il centro da cui tutto pare dipartirsi è anche il luogo dove tutto sembra precipitare: un “buco nero” in cui agisce una forza di attrazione infinita, tanto da catturare anche la luce, e da esercitare una pressione negativa, anch’essa infinita.
Non la Linea non il Circolo come voleva Platone ma la Spirale, dunque, sembra essere la forma in grado di rappresentare l’origine e il destino delle cose. E cosa è un verso poetico su una pagina se non la superficie che separa il vuoto della pagina dal pieno della parola, il segno dal significato? Cosa è il susseguirsi delle parole se non un piccolo Big Bang dove il verso si contrae e dilata come se andasse incontro all’infinito della pagina o come se tornasse indietro alla sua origine con il suo ritmo e le sue rime. Verso ossia volgere, girare; così che andare lungo un direzione vuol dire anche tornare alle radici.
Detto con le parole di G. Ritsos [4]:
Quando dovrai chinarti
per trovare la tua radice
perché il circolo si chiuda?
Non si chiude.
E non circolo.
Spirale
La poesia avanza a spirale, guardando indietro come fa l’Angelo di Klee come fa la Micol di Bassani. E’ la poesia che permette di riconoscere nell’origine un destino e nel destino un punto di partenza e non di arrivo, la superficie che separa quello che è stato da ciò che sta per nascere. Tanto l’origine che la fine sono superfici “bifronte”, sono solo forme che emergono da un flusso continuo di parole versate in versi che girano, vortici che si avvicinano/allontanano contemporaneamente al/dal l’uomo che scrive/legge.
Solo la poesia può abbracciare contemporaneamente la catastrofe e l’apocalisse : la caduta nel vortice è anche un ritorno; la fuga centrifuga è anche un(a) fine.
La spirale è dunque la plastica rappresentazione della Poesia intesa come oggetto e come essenza, nel suo farsi verso (poiein) e nel suo evocarsi.
Le spirali! Le spirali! Vecchio Volto di Pietra guarda:
Non si possono più pensare le cose cui troppo a lungo si è pensato.
Che la bellezza muore di bellezza e il merito di merito,
E le antiche fattezze si cancellano.
Irrazionali correnti di sangue macchiano la terra;
Empedocle ha sconvolto ogni cosa;
Ettore è morto e v’è un chiarore a Troia;
Noi spettatori ridiamo di tragica gioia.
(W.B.Yeats,[5])
E’ in questo movimento della mano che scorre su un foglio, dello sguardo che volge al verso, dello spirito e della memoria che si rinnovellano giro dopo giro, è qui che avvertiamo la persistenza dell’ origine. In questo vortice ci viene indicato che la morte di un uomo è anche il momento preciso dello splendore della Vita e che se la bellezza muore, muore di bellezza.
Lì al confine tra il vecchio mondo che muore c’è qualcosa di nuovo che spunta, nuclea e cresce, perchè questo fa la poesia, crea superfici tra chi scrive e chi legge; crea il braccio di una spirale che genera due forme, una aperta ai quattro venti, centrifuga nella sua avanzata ed entropicamente tesa a Divenire e l’altra che si guarda indietro fiera e immobile, con lo sguardo rivolto al centro dell’Essere.
Riferimenti
[1] W. Benjamin Angelus Novus ,Einaudi
[2] G. Agamben Il fuoco e il racconto ,Figure Nottetempo
[3] P. Klee Analisi come concetto in Teoria e Forma della figurazione Vol.I
[4] G. Ritsos Erotica, Crocetti
[5] W.B. Yeats Spirali da Quaranta Poesie, Einaudi
Questo fenomeno, che viene indicato, a seconda dell’ambito, con i termini scientifici di nucleazione, gemmazione, segmentazione, è un vero e proprio miracolo perchè l’embrione, per così dire, del nuovo mondo-la nuova vita, quindi- per raggiungere una dimensione critica e continuare la sua crescita, deve necessariamente opporsi a una legge di Natura, la seconda legge della termodinamica.
Tale legge stabilisce che tutti i fenomeni naturali avvengono in un verso ben preciso e, di conseguenza, intrinsecamente irreversibile.
Detto in altri termini è poco probabile che si verifichi spontaneamente una combinazioni di fenomeni in grado di ripristinare lo stato iniziale, l’origine: una goccia di caffè in un bicchiere di latte formerà spontaneamente un caffe-latte di colore beige, ma non capiterà mai di vedere spuntare- spontaneamente- da un caffe-latte beige, una singola goccia di caffè nero...e ,ammesso che ciò accadesse, nulla si potrebbe dire sulla caffettiera che ha prodotto quel caffè! L’orologio implica un orologiaio ma non sempre dall’orologio si può risalire all’orologiaio.
Da questo punto di vista ogni atto creativo, inteso come “fenomeno naturale”, è una rappresentazione di un processo di nucleazione con un suo inesorabile corollario alla seconda legge della termodinamica: è naturale e, allo stesso tempo, complicato, ripercorrere un ...processo a ritroso fino a raggiungere, osservare e conoscerne l’Origine.
E’ noto che Walter Benjamin ha paragonato l’Origine ad una spirale, a un vortice [1]:
“...l’Origine sta nel flusso del divenire come un vortice e trascina dentro il proprio ritmo il materiale della provenienza...[e poichè] non emerge dalla sfera dei fatti ma si riferisce alla loro pre- e post-storia, l’origine non appartiene ad una categoria logica, ma storica...” se non addirittura mitica e poetica.
Ora probabilmente chi segue il Post delle Fragole sa che il suo intento è quello di arrivare alla radura, laddove si possa raccogliere il frutto primaverile, per questo il blog vorrebbe, e spera di, animarsi della piacevole sensazione del ritorno delle cose, del presentimento di una certa persistenza delle origini. Il mito, l’analogia e l’arte sembrano essere gli strumenti più adatti per raggiungere/mancare l’obiettivo, per arrivare/abbandonare sul/il Posto.
Molto più adatti della matematica, della logica e della scienza che permettono solo una delle due possibilità.
Proviamo allora a prendere sul serio l’immagine dell’origine come un vortice. Se c’è una forma che sembra ben rappresentare una superficie che cede e ubiquamente resiste alla disfatta del vecchio mondo sul nuovo e del vecchio sul nuovo; se c’è una figura che rappresenta contemporaneamente un movimento e la sua origine, un movimento dalla sua origine, questa forma è la spirale. Si pensi al riccio che si forma sulla cresta di un’onda o alle foglie che si dispongono ad elica sui rami degli alberi e ancora alle collisioni tra particelle elementari che lasciano tracce a forma di spirale o alle macromolecole, alle conchiglie, alle galassie : tutto è spiraleggiante, tutta la natura in movimento ha nel movimento la sua natura e la spirale sembra esserne la forma[2].
Se, come diceva Paul Klee[3]: “...l’opera d’arte non è una mera forma”, potremmo chiosare dicendo che la Natura, invece, si: e questa forma è la spirale “...figura conveniente e a portata di mano per rappresentare le piante, gli animali , la terra e la sua storia, le stelle e per interpretare al meglio i loro rapporti nell’Universo...”
La spirale possiede quella caratteristica naturale di separare un mondo vecchio da quello nuovo infatti è una forma che emerge e si separa da un flusso di cui faceva parte per continuare a parteciparvi in un modo diverso. In un mondo diverso. Per così dire è la forma eccellente a preservare una persistenza della sua origine: è sintomatico il fatto che se si lascia cadere in un gorgo (magnetico, gassoso, fluido, stellare ma anche di note, di colori, di parole, di pensieri) un oggetto esso manterrà, nel suo costante ruotare, la stessa direzione puntando, per così dire, verso il nord ( si, proprio come l’ago di una bussola) rappresentato dal vertice o dall’origine del gorgo.
Così il centro da cui tutto pare dipartirsi è anche il luogo dove tutto sembra precipitare: un “buco nero” in cui agisce una forza di attrazione infinita, tanto da catturare anche la luce, e da esercitare una pressione negativa, anch’essa infinita.
Non la Linea non il Circolo come voleva Platone ma la Spirale, dunque, sembra essere la forma in grado di rappresentare l’origine e il destino delle cose. E cosa è un verso poetico su una pagina se non la superficie che separa il vuoto della pagina dal pieno della parola, il segno dal significato? Cosa è il susseguirsi delle parole se non un piccolo Big Bang dove il verso si contrae e dilata come se andasse incontro all’infinito della pagina o come se tornasse indietro alla sua origine con il suo ritmo e le sue rime. Verso ossia volgere, girare; così che andare lungo un direzione vuol dire anche tornare alle radici.
Detto con le parole di G. Ritsos [4]:
Quando dovrai chinarti
per trovare la tua radice
perché il circolo si chiuda?
Non si chiude.
E non circolo.
Spirale
La poesia avanza a spirale, guardando indietro come fa l’Angelo di Klee come fa la Micol di Bassani. E’ la poesia che permette di riconoscere nell’origine un destino e nel destino un punto di partenza e non di arrivo, la superficie che separa quello che è stato da ciò che sta per nascere. Tanto l’origine che la fine sono superfici “bifronte”, sono solo forme che emergono da un flusso continuo di parole versate in versi che girano, vortici che si avvicinano/allontanano contemporaneamente al/dal l’uomo che scrive/legge.
Solo la poesia può abbracciare contemporaneamente la catastrofe e l’apocalisse : la caduta nel vortice è anche un ritorno; la fuga centrifuga è anche un(a) fine.
La spirale è dunque la plastica rappresentazione della Poesia intesa come oggetto e come essenza, nel suo farsi verso (poiein) e nel suo evocarsi.
Le spirali! Le spirali! Vecchio Volto di Pietra guarda:
Non si possono più pensare le cose cui troppo a lungo si è pensato.
Che la bellezza muore di bellezza e il merito di merito,
E le antiche fattezze si cancellano.
Irrazionali correnti di sangue macchiano la terra;
Empedocle ha sconvolto ogni cosa;
Ettore è morto e v’è un chiarore a Troia;
Noi spettatori ridiamo di tragica gioia.
(W.B.Yeats,[5])
E’ in questo movimento della mano che scorre su un foglio, dello sguardo che volge al verso, dello spirito e della memoria che si rinnovellano giro dopo giro, è qui che avvertiamo la persistenza dell’ origine. In questo vortice ci viene indicato che la morte di un uomo è anche il momento preciso dello splendore della Vita e che se la bellezza muore, muore di bellezza.
Lì al confine tra il vecchio mondo che muore c’è qualcosa di nuovo che spunta, nuclea e cresce, perchè questo fa la poesia, crea superfici tra chi scrive e chi legge; crea il braccio di una spirale che genera due forme, una aperta ai quattro venti, centrifuga nella sua avanzata ed entropicamente tesa a Divenire e l’altra che si guarda indietro fiera e immobile, con lo sguardo rivolto al centro dell’Essere.
Riferimenti
[1] W. Benjamin Angelus Novus ,Einaudi
[2] G. Agamben Il fuoco e il racconto ,Figure Nottetempo
[3] P. Klee Analisi come concetto in Teoria e Forma della figurazione Vol.I
[4] G. Ritsos Erotica, Crocetti
[5] W.B. Yeats Spirali da Quaranta Poesie, Einaudi
sabato 14 giugno 2014
Tra Matematica e Poesia ovvero dell'Infinito e della Polvere
1. Il metodo matematico. Il metodo poetico.
Vi è una finalità comune alla Poesia e alla Matematica tanto cosciente in quest’ultima quanto latente nella prima.
Questa “finalità” è suscitare una visione unitaria e coerente di un tema liberandolo da contraddizioni e ambiguità attraverso il passaggio da una semplice intuizione (il caso?) ad un’idea ( l’atto) passando per una serie di concetti (movimento).
Entrambe queste attività umane – con i linguaggi e i modi propri – rispondono pertanto all’innata esigenza di dare una forma ed una sostanza - un ordine tout court - alle nostre esperienze, ovvero di soddisfare quella che i greci chiamavano historìa, la sete di sapere; la voglia di comprendere.
Il modo matematico, per fare questo, è soffermarsi una volta in più degli altri sulla stessa cosa grazie ad un meticoloso processo di definizione e riduzione, che spogli, per così dire, la comprensione della cosa dalle contingenze superflue che la circondano, a partire da quelle derivanti dal significato delle parole ( ecco perché si fa uso di simboli universali e univoci).
Il modo poetico invece è quello di guardare la stessa cosa una sola volta con un grande sguardo da una prospettiva personale e diversa dal luogo comune, rivestendo, per così dire, questa epifania con parole, ritmi, strofe e metafore in un processo opposto a quello precedente.
Si capisce che nel “modo” rientra anche il linguaggio che si usa : un linguaggio, come si sa, è sia una mappa del mondo sia un mondo in sé con le proprie zone d’ombra e i propri orridi quei luoghi cioè al confine di regole, affermazioni significati e percezioni.
E’ in attività umane come la matematica e la poesia che incontriamo uno degli attributi più importanti dello Spirito e della Natura umani : la capacità di concepire cose che in senso stretto non potrebbero essere concepite da esseri limitati quali siamo o che, viceversa, potrebbero essere comprese solo in …contenitori molto capaci.
Sia la Matematica che la Poesia consentono di concepire e trattare “l’Infinito”:
“I will love you forever and a day” (Ti amerò per sempre e un giorno)
“Esiste sempre un numero intero maggiore di tutti gli altri”
Attraverso la percezione che la parola “sempre” induce, o attraverso il movimento provocato da concetti (p.es., uniformità e continuità) fino ad arrivare all’atto di aggiungere qualcosa - un 1 (uno) ad esempio - a qualcos’altro precedentemente accumulato e già grandissimo, attraverso tutte queste cose, dunque, l’Infinito assume il ruolo di massima astrazione, massima confusione e massima profondità che l’umano sia in grado di ”raggiungere”.
Ma come si arriva all’Infinito?
Dalla Polvere.
E qui lo dimostreremo.
2. L’Apeìron
Tra il movimento e l’atto,
tra l’idea e la realtà
cade l’ombra
[T.S. Eliot]
…Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura…
[G. Leopardi]
Chiunque conservi anche il più vago ricordo degli studi classici e del greco in particolare non avrà dimenticato che la matematica e la poesia sono due invenzioni o scoperte – a seconda se le riteniamo appartenere più allo Spirito o più alla Natura – della civiltà greca.
Allora diamo qualche fatto attico tanto per cominciare.
Prima di tutto la Matematica greca non era effettivamente astratta ma affondava le proprie radici nella prassi babilonese-egizia. Così anche la Poesia greca, nei suoi esempi più noti, quali l’Iliade e l’Odissea, assumeva a volte il carattere di medium per imparare , memorizzare e tramandare leggi, regole ed istruzioni pratiche.
Per i greci non vi era una reale differenza tra entità aritmetiche, figure geometriche e un verso poetico, per esempio tra il numero “6”, un esagono ed un esametro.
In secondo luogo per i greci non esisteva una netta demarcazione tra matematica, metafisica e religione : per molti versi, anzi, erano tutte e tre la stessa cosa.
E, infine, per loro, sarebbe apparsa incomprensibile l’odierna avversione per il “limite” anzi, essi sfuggivano l’esatto contrario : provavano avversione e temevano l’assenza di forme e contorni certi e precisi, in una parola, temevano l’Infinito.
Il termine greco apeìron introdotto da Anassimandro, nel dialetto di Mileto, significa senza limite, indefinibile, complesso al di là di ogni ragionevolezza. Noi rendiamo l’apeiron greco con “Senza fine. Infinito”.
Pare che il termine derivi dalla tragedia greca ed indicava un costume teatrale molto ingombrante che aveva lo scopo di imprigionare e di impedire all’attore di muoversi agevolmente sulla scena.
L’apeiron, nella sua accezione più nota, fa riferimento anche al caos illimitato e privo di natura che precedeva la creazione. Praticamente si trattava di una specie di Vuoto o di Nulla senza alcun confine, distinzione, senza una qualità specifica e, come detto, inconcepibile per la mentalità greca perché avrebbe prodotto un Essere senza Forma (“L’essenza dell’Infinito è la privazione, non la perfezione ma l’assenza del limite” [Aristotele]).
“Infinito” quindi stava ad indicare caos e bruttezza : in questo risiede l’essenziale estetismo dell’intelletto greco.
Se c’è qualcuno che ha incarnato in modo esemplare - ed altrettanto crudele - tale intelletto, questi è Zenone d’Elea (ca. 490-435 a.C.) ; è Paul Valéry ad apostrofarlo crudele nella sua “Il Cimitero marino”
Zenone! Crudel Zenone! Zenone l’eleate
Con quella freccia alata m’hai trafitto
Che vibra vola e non si muove affatto
Il suon mi crea, m’uccide il dardo invece
Ah il sole la lenta ombra del lento carapace
Che pare ferma al senso d’Achille piè veloce.*
_____________________
*traduzione dell’autore
Si, vi ricordate? Qui si parla proprio di quei paradossi lì : il volo della freccia e la gara tra Achille e la tartaruga.
Poiché la metafisica di Zenone ha la sua base in un principio statico, i suoi paradossi sono conseguentemente diretti contro la realtà del movimento: la freccia che, seppur scoccata, non vola; il piè veloce Achille che non raggiunge la lenta tartaruga.
La modalità con la quale Zenone intende dimostrare la sua tesi è la cosiddetta dicotomia che funziona pressappoco così.
Ci troviamo alla sfilata del palio di Ferrara, intruppati con gli altri figuranti della nostra contrada. Il cerimoniere, alla Casa del Boia, indica che tocca a noi e iniziamo la nostra “salita” verso il castello Estense, cercando di percorrere Ercole I d’Este. “Cercando di” perché prima di arrivare al castello, dovremmo naturalmente arrivare a metà strada, diciamo al Palazzo dei Diamanti. E prima di arrivare a metà strada, dovremmo arrivare a metà strada rispetto alla metà (diciamo più o meno dalle parti della Certosa). E così via.
Per metterla in un modo più matematico, il paradosso è che il figurante non può spostarsi dalla Casa del Boia (diciamo il punto A) al Castello Estense (diciamo il punto B) senza attraversare tutti i semi-intervalli successivi di AB, vale a dire AB/2, AB/2/2= AB/2^2, AB/2/2/2=AB/2^3….AB/2/2/2…./2…= AB/2^n e così via continuando con i numeri interi perché, come si è già detto,
“Esiste sempre un numero intero maggiore di tutti gli altri”
Per essere ancora meno poetici e più matematici, l’intero n che compare nella espressione AB/2^n può assumere i valori 1,2,3,4,…e i puntini stanno a significare che la sequenza non ha un limite.
Oddio! Un orrido! Un Senza Fine!
Si tratta della temutissima regressus ad infinitum, la regressione all’infinito. Una catastrofe, letteralmente, la fine del mondo (per inciso : era proprio per scongiurare la caduta dell’astro che i templi greci venivano orientati nella direzione Est-Ovest : gli dei esigevano la nascita del nuovo giorno, di ogni nuovo giorno per n=1,2,3….).
Quello che rende orrida tale regressione è il fatto che viene richiesto di completare un numero infinito di azioni per raggiungere l’obiettivo ed essendo queste azioni infinite, per definizione, non è possibile completarle tutte : la freccia non vola, Achille non raggiunge la tartaruga e noi, figuranti della contrada, non riusciremo a rendere omaggio al Duca d’Este!
Ma come sa chiunque abbia passeggiato per Ercole I d’Este e non ha solo immaginato di farlo, ci deve essere qualcosa che non va nell’argomentazione del crudele Zenone.
Il problema è che la somma di infiniti sotto intervalli non è detto che sia infinita. Vogliamo dimostrarlo? Seguitemi.
Abbiamo diviso il percorso AB in tanti sotto intervalli del tipo AB/2^n, mettiamo insieme tutto e sommiamoli tra loro : iniziamo con i primi due tratti
AB/2 + AB/2 = AB
Ogni AB quindi può essere rimpiazzato da (AB/2+AB/2) e deve essere a sua volta diviso per due cioè
(AB/2+AB/2)/2 + (AB/2+AB/2)/2 =AB/4+AB/4 + AB/4 + AB/4 = AB
E così via, continuando, si avrà sempre più netta la convinzione che la somma, per quanto costituita da infiniti tratti, darà come risultato finale – e non poteva essere altrimenti – un numero finito, l’intero tratto AB : noi ci inchineremo davanti al Duca e Achille raggiungerà la tartaruga non fosse altro per vendicarsi di questa secolare presa per i fondelli (“Cantami o Diva del pelide Achille l’ira funesta contro una tartaruga di lui più lesta”).
La dicotomia quindi è in realtà solo un insidioso problema verbale e non un paradosso. Solo che questa risposta accontenta e probabilmente gratifica la logica, la nostra necessità di comprendere ma non esaurisce l’historìa : per fare questo abbiamo bisogno di qualcosa che è l’esatto contrario dell’infinito: lo zero.
3. La Polvere
Concetti molto
“diversi” hanno
la stessa radice
[J. L. Borges]
Ritorniamo per un attimo alla dicotomia.
Il modo standard di schematizzarla è il seguente :
1) Per attraversare l’intervallo AB dobbiamo prima attraversare tutti i sotto intervalli AB/2^n con n=1,2,3,….(ORRIDO!).
2) Vi è un numero sempre più numeroso di questi intervalli che, man mano si procede nella frammentazione, diventano punti.
3) E’ impossibile attraversare un numero infinito di punti in una quantità di tempo finita.
4) Ne discende, da un punto di vista logico, che è impossibile attraversare AB.
Come la cenere è ciò che resta dopo l’estinzione del fuoco, così i punti sono ciò che resta dal processo di frammentazione dell’intervallo AB. E tra i punti : nulla. Zero.
Così utilizzando l’apeiron, il senza limite, procedendo attraverso una ripetitiva frammentazione, il regressus ad infinitum, si perviene allo zero, un altro orrido della cultura greca.
Per i greci così come non era concepibile l’Infinito, altrettanto accadeva per lo Zero : un Senza Limite è un Senza Forma, quindi, Nulla.
Ricordiamo che lo zero fu “inventato” per puri scopi pratici ed attuariali intorno al 300 a.C. dai babilonesi cioè circa 200 anni dopo i fatti che abbiamo fin qui raccontato.
Si potrebbe quindi dire che i greci non disponevano della strumentazione concettuale per comprendere la convergenza, i limiti, l’Infinito ed il suo inverso, lo Zero.
L’orrido che essi provavano con questi concetti era quello scarto tra l’esistenza - percepita senza limiti e quindi in-comprensibile- e la propria identità - percepita come un granello di polvere e per questo altrettanto in-comprensibile-.
L’orrido è il simbolo della disperata ricerca di un senso che valga a saldare, in una visione coerente e confortante, la nostra umanità finita all’infinito orizzonte di potenziali esperienze; la vita con la morte.
In questa ricerca anche ciò che appare un’identità vuota e perduta, un misero agglomerato d’argilla, un granello di polvere, può essere l’occasione per una creazione o una resurrezione. E viceversa quello che appare una immensità ricca e disponibile, un Universo, può essere anche l’occasione per ricordarci il fango e la polvere di cui siamo fatti.
Una cosa è certa : l’Infinito è fatto di Polvere.
E non solo. L’Infinito viene dalla Polvere.
Nel libro di Giobbe polvere è tutto ciò da cui si sia ritirato il soffio divino e nei Salmi la polvere è sinonimo e figura della disperazione, della mancanza d’ispirazione, della disperante frantumazione, dispersione, molteplicità che sta all’opposto della Parola.
La Parola quindi ci viene in soccorso per sfuggire agli orridi! E c’è una parola che merita un’attenzione particolare e il significato che a questa le è stato attribuito.
Apeiron potrebbe significare, come abbiamo fin qui sostenuto, Senza Limite; questo se attribuiamo alla parola una provenienza attica.
Ma questa ipotesi non è la sola in campo.
Apeiron potrebbe derivare dal semitico àpar derivato a sua volta dall’accadico eperu e dal biblico àfar.
Afar nella Bibbia significa Fango. Argilla. Polvere.
Ora un oggetto qualunque come ad esempio un semplice segmento (o un pensiero) può essere creato o distrutto; in esso, cioè, sono contenuti sia Infinito che Polvere.
In tutti i casi, sia che si parli di sostanza o forma, di significato o significante, àpeiron dice e mostra Caos e Confusione.
Attraverso la matematica - il suo modo e il suo linguaggio - abbiamo sanato una contraddizione, un’ambiguità per la quale non sarebbe stato possibile sommare in un tempo finito, infiniti …granelli di polvere ( questi erano diventati i sotto intervalli nel processo di frammentazione proposto da Zenone).
L’escamotage matematico filosofico, però, sana solo apparentemente la catastrofe della regressione all’infinito e della comparsa del Nulla: in un certo qual modo soddisfa per così dire la logica. Ma noi siamo anche Spirito e Natura e proviamo paura, soccombiamo dinnanzi al “prima di tutto”, all’Infinito, e al “dopo tutto”, alla Polvere.
Solo la Poesia con il suo modo e il suo linguaggio, permette di rimettere a posto le cose, in modo da restituire lo splendore regnante - “le rose di luce”- ricomponendo senso e suono, contenuto e forma. Infinito e Polvere.
Solo la Poesia può sanare quegli orridi che nascono dalla durata di una riflessione e dall’acutezza di un pensiero analitico e ricomporre lo scarto tra l’essere e il conoscere.
Possono bastare poche strofe di Carla Baroni :
“Dall’argilla sei nato ed all’argilla
ritorni sempre con variate forme
per volontà divina nell’eterno”
E ancora
“Seduto al primo mare dell’ignoto
l’uomo non è che pianta col suo ciclo”
O può bastare un verso di Paul Valéry
“Il dono della vita è andato ai fiori”
O solo una parola e la vita/morte, infinito/polvere, che è in essa :
àpeiron.
Esiste un posto dove Infinito e Polvere coesistono e questo spiega perché è il “luogo” più cantato, più descritto e più studiato dall’umanità, dall’inizio dei tempi.
Nel cielo stellato, tra la polvere spruzzata nella volta celeste notturna, c’è l’archetipo del “prima di tutto” e del “dopo tutto”, è un grumo di atomi che viaggia per l’infinito spazio e l’infinito tempo.
Potrà essere ellittico, parabolico o iperbolico il suo viaggio, ma, puntuale, il suo ritorno, arriva.
Bibliografia
P. Valéry, Il Cimitero marino, Oscar Mondadori (1995)
J.L.Borges L’Invenzione della poesia.Lezioni Americane , Mondadori (2004)
D.F. Wallace Everything and More. A Compact History of ∞, W.W. Norton& Co. Inc NY (2003)
H. Melville, Clarel, Adelphi (1993)
G. Semerano, L’Infinito: un equivoco millenario, Bruno Mondadori (2005)
C. Baroni, Rose di Luce, Bastogi (2011)
giovedì 29 maggio 2014
Nanotecnologia della parola: la ciotola e il silenzio
Non vi pare che nei cristalli
La natura si esprime in versi?
L. Sinisgalli[1]
La Natura produce i suoi oggetti formando legami (Buber[2] avrebbe detto Relazioni; oggi noi diciamo Link) tra costituenti di base: fa così con gli atomi che formano le molecole e con le molecole che formeranno macromolecole e materiali organici ed inorganici che formeranno stelle e esseri viventi.
Gli scienziati e gli intellettuali ci dicono tutto su questo modo di procedere, di come nell’arco di un secondo dalla singolarità del big bang, l’Energia Infinita iniziale si sia trasformata in un brodo di quarks ed elettroni che legandosi hanno formato i primi atomi ed elementi leggeri come l’idrogeno e l’elio attraverso la nucleosintesi. In questo sconfinato processo di espansione successivo al Grande Botto vi erano alcune discontinuità fatte di Vuoto (e quindi di Silenzio) che hanno poi reso possibile la formazione di galassie e delle stelle che in un secondo processo di nucleosintesi hanno prodotto gli elementi di cui siamo costituiti.
Ma STOP.
Non voglio andare avanti con questo film che, fotogramma per fotogramma, racconta la nostra Evoluzione attraverso la Storia della Ragione (o viceversa). Mi preme solo sottolineare la particolarità di questa indagine che la Natura svolge su se stessa attraverso l’Uomo: un’attività autoreferenziale che sembra avere a che fare solo con gli strumenti con cui si porta avanti l’indagine e non con un fine chiaro e preciso.
La Natura quindi ci ha messo nelle condizione di studiarla e noi tentiamo di imitarla principalmente per sfruttarla e dominarla: una gran parte della nostra attività è volta a costruire oggetti di complessità sempre più stupefacente, a creare macchine capaci di funzioni avanzatissime addirittura in grado di vivere e pensare. Oggi con le nanotecnologie vediamo e controlliamo l’atomo nel senso che possiamo afferrarlo con le dita e depositarlo su un foglio allo stesso modo come si deposita una... parola sulla carta: tutto questo è stupefacente se pensiamo (crediamo) che ha origine dal Vuoto e quindi dal Silenzio.
Chi può descrivere e spiegare meglio questa situazione se non un filosofo (magari Kierkegaard[3] con la sua maschera di Johannes de Silentio, o Ludwig [4] con la sua Settima). Ma sono proprio loro che ci hanno infilato in questo circolo vizioso secondo il quale l’esperienza della Fede è quella di vivere nel paradosso come quella della Scienza è di vivere nella tautologia: per questi motivi tanto la Fede che la Scienza devono contemplare una sospensione dell’etica! Tacere quindi.
Ma c’è qualcuno che piuttosto che descrivere e spiegare, piuttosto che tacere ci mostra, per così dire dall’esterno, la natura di tutto questo.
Se un poeta scrive [5]:
Persuasi di esplorare
navighiamo in realtà le stesse rotte,
e in circoli viziosi
rimestiamo ore ferme e senza tempo
nel silenzio del canto
messo a tacere dal chiasso degli echi.
qui si avverte che stiamo davvero cercando l’Anima tra le cose usando le parole come dita.
Questo processo non ha nulla da invidiare alla più sofisticata delle nanotecnologie che assembla le cose dal basso come fa la Natura. Grazie al poeta quindi entriamo in un mondo che è precedente a qualsiasi nanomondo perchè qui non stiamo parlando degli strumenti necessari a capire, a imitare, a costruire.
Qui non stiamo imitando la Natura ma i suoi procedimenti.
Qui non siamo alle prese con il perfezionamento incessante degli strumenti che consentirebbero la realizzazione dei fini ( il perfezionamento è quasi sempre funzione dell’ambiguità dei fini) no qui si prende atto del modo stesso di procedere della Natura, e probabilmente si corrisponde allo stesso fine, quello di immaginare e di creare.
Ma di notte si sogna,
e qualche sguardo s’allunga nel cielo
perdendosi in vertigini,
e va lontano, più lontano ancora
della luce che vaga
portando stelle e un modo per andarci,
poichè il mondo è un abisso
e l’anima quel colpo d’ala pronta,
a staccarci dal centro,
dall’idea fatta una volta per tutte.
Le parole come gli atomi sono cose, cose con un significato e così come tra un atomo e l’altro c’è del vuoto e quindi silenzio, lo stesso vale per le parole.
Assemblare dal basso gli atomi per farne materiali, per farne oggetti vuol dire manipolare il....vuoto. Il silenzio.
Allo scopo di difendere la caratteristica della parola poetica dalla distruzione del significato i poeti accentuano il lato materico del linguaggio, assemblando atomo dopo atomo i versi come farebbe un cristallo. Per questo Sinisgalli [1] si chiede: non vi pare che nei cristalli la natura si esprime in versi?
Quando le linee sfumano in distanze inesatte e i confini si sfarinano...i suoni raggiungono le lontananze del silenzio...all’alba il mondo si ridisegna...[e] …così a noi tra le mani rimane la friabilità di un sentimento…
La nanotecnologia della parola di cui si serve Andreotti è il processo di manipolazione del silenzio, l’assemblaggio corretto di ciò che vi era un secondo dopo il Grande Botto che ha collegato i quarks per formare elettroni, protoni e neutroni a loro volta in grado di immaginare una materia con dei battiti, dei ritmi propri che potessero tradursi in cristalli e in pensieri emersi da un brodo di silenzio e salire in superficie per entrare nella realtà delle emozioni.
Modulando il silenzio e il vuoto la natura emerge su se stessa e il poeta che opera così è quindi Natura in azione.
Oggi che a spaventarci non sono più i sani Timore e Tremore per l’horror vacui ma quelli per l’invadente horror pleni [6] dovremmo affidarci alla Natura che ha trovato la soluzione a questa moltiplicazione inarrestabile di oggetti , di informazioni, di parole; ha trovato chi provvede a tenere la ciotola vuota per poterla riempire; chi rimette insieme pezzi di vuoto e silenzio nascosti
…tra nuvole veloci e sguardi fermi…usando parole come dita
La Natura ha trovato poeti come Angelo Andreotti che non la imitano ma la creano.
Come uno sguardo in silenzio s’abbassa,
così il cielo si consegna,
e luci nere illuminano
lo spostamento dell’asse del mondo
su cui le anime passano
equilibrandosi l’una con l’altra.
Scende dal buio
l’enigma
e segue il passo dei sogni a venire,
cerca luce
trova terra
e tutto un alternarsi di confini,
un sovrapporsi esausto di orizzonti.
Venendo dalla schiuma della luna
gettata come un’onda sulla riva
gli angeli si avvicinano alla strada,
ai crocevia raggiungono i passanti
pronunciando nella notte
quel silenzio che mancava
all’imperfetta evidenza dell’ombra.
Riferimenti
[1] L. Sinisgalli Furor Mathematicus, Mondadori Milano 1950;
[2] M. Buber Il Principio Dialogico e altri saggi, S. Paolo Edizioni 2012;
[3] S. Kierkegaard Timore e Tremore Mondadori 2003;
[4] L.J. Wittgenstein Tractatus Logico-Philosophicus, Piccola Biblioteca Einaudi 2009;
[5] L’opera poetica di Angelo Andreotti costituisce un unicum e quindi si rimanda alla bibliografia completa aggiornata nel suo ultimo Dell’ombra la luce, L’arcolaio 2014;
[6] G. Dorfles Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore, Castelvecchi 2008
La natura si esprime in versi?
L. Sinisgalli[1]
La Natura produce i suoi oggetti formando legami (Buber[2] avrebbe detto Relazioni; oggi noi diciamo Link) tra costituenti di base: fa così con gli atomi che formano le molecole e con le molecole che formeranno macromolecole e materiali organici ed inorganici che formeranno stelle e esseri viventi.
Gli scienziati e gli intellettuali ci dicono tutto su questo modo di procedere, di come nell’arco di un secondo dalla singolarità del big bang, l’Energia Infinita iniziale si sia trasformata in un brodo di quarks ed elettroni che legandosi hanno formato i primi atomi ed elementi leggeri come l’idrogeno e l’elio attraverso la nucleosintesi. In questo sconfinato processo di espansione successivo al Grande Botto vi erano alcune discontinuità fatte di Vuoto (e quindi di Silenzio) che hanno poi reso possibile la formazione di galassie e delle stelle che in un secondo processo di nucleosintesi hanno prodotto gli elementi di cui siamo costituiti.
Ma STOP.
Non voglio andare avanti con questo film che, fotogramma per fotogramma, racconta la nostra Evoluzione attraverso la Storia della Ragione (o viceversa). Mi preme solo sottolineare la particolarità di questa indagine che la Natura svolge su se stessa attraverso l’Uomo: un’attività autoreferenziale che sembra avere a che fare solo con gli strumenti con cui si porta avanti l’indagine e non con un fine chiaro e preciso.
La Natura quindi ci ha messo nelle condizione di studiarla e noi tentiamo di imitarla principalmente per sfruttarla e dominarla: una gran parte della nostra attività è volta a costruire oggetti di complessità sempre più stupefacente, a creare macchine capaci di funzioni avanzatissime addirittura in grado di vivere e pensare. Oggi con le nanotecnologie vediamo e controlliamo l’atomo nel senso che possiamo afferrarlo con le dita e depositarlo su un foglio allo stesso modo come si deposita una... parola sulla carta: tutto questo è stupefacente se pensiamo (crediamo) che ha origine dal Vuoto e quindi dal Silenzio.
Chi può descrivere e spiegare meglio questa situazione se non un filosofo (magari Kierkegaard[3] con la sua maschera di Johannes de Silentio, o Ludwig [4] con la sua Settima). Ma sono proprio loro che ci hanno infilato in questo circolo vizioso secondo il quale l’esperienza della Fede è quella di vivere nel paradosso come quella della Scienza è di vivere nella tautologia: per questi motivi tanto la Fede che la Scienza devono contemplare una sospensione dell’etica! Tacere quindi.
Ma c’è qualcuno che piuttosto che descrivere e spiegare, piuttosto che tacere ci mostra, per così dire dall’esterno, la natura di tutto questo.
Se un poeta scrive [5]:
Persuasi di esplorare
navighiamo in realtà le stesse rotte,
e in circoli viziosi
rimestiamo ore ferme e senza tempo
nel silenzio del canto
messo a tacere dal chiasso degli echi.
qui si avverte che stiamo davvero cercando l’Anima tra le cose usando le parole come dita.
Questo processo non ha nulla da invidiare alla più sofisticata delle nanotecnologie che assembla le cose dal basso come fa la Natura. Grazie al poeta quindi entriamo in un mondo che è precedente a qualsiasi nanomondo perchè qui non stiamo parlando degli strumenti necessari a capire, a imitare, a costruire.
Qui non stiamo imitando la Natura ma i suoi procedimenti.
Qui non siamo alle prese con il perfezionamento incessante degli strumenti che consentirebbero la realizzazione dei fini ( il perfezionamento è quasi sempre funzione dell’ambiguità dei fini) no qui si prende atto del modo stesso di procedere della Natura, e probabilmente si corrisponde allo stesso fine, quello di immaginare e di creare.
Ma di notte si sogna,
e qualche sguardo s’allunga nel cielo
perdendosi in vertigini,
e va lontano, più lontano ancora
della luce che vaga
portando stelle e un modo per andarci,
poichè il mondo è un abisso
e l’anima quel colpo d’ala pronta,
a staccarci dal centro,
dall’idea fatta una volta per tutte.
Le parole come gli atomi sono cose, cose con un significato e così come tra un atomo e l’altro c’è del vuoto e quindi silenzio, lo stesso vale per le parole.
Assemblare dal basso gli atomi per farne materiali, per farne oggetti vuol dire manipolare il....vuoto. Il silenzio.
Allo scopo di difendere la caratteristica della parola poetica dalla distruzione del significato i poeti accentuano il lato materico del linguaggio, assemblando atomo dopo atomo i versi come farebbe un cristallo. Per questo Sinisgalli [1] si chiede: non vi pare che nei cristalli la natura si esprime in versi?
Quando le linee sfumano in distanze inesatte e i confini si sfarinano...i suoni raggiungono le lontananze del silenzio...all’alba il mondo si ridisegna...[e] …così a noi tra le mani rimane la friabilità di un sentimento…
La nanotecnologia della parola di cui si serve Andreotti è il processo di manipolazione del silenzio, l’assemblaggio corretto di ciò che vi era un secondo dopo il Grande Botto che ha collegato i quarks per formare elettroni, protoni e neutroni a loro volta in grado di immaginare una materia con dei battiti, dei ritmi propri che potessero tradursi in cristalli e in pensieri emersi da un brodo di silenzio e salire in superficie per entrare nella realtà delle emozioni.
Modulando il silenzio e il vuoto la natura emerge su se stessa e il poeta che opera così è quindi Natura in azione.
Oggi che a spaventarci non sono più i sani Timore e Tremore per l’horror vacui ma quelli per l’invadente horror pleni [6] dovremmo affidarci alla Natura che ha trovato la soluzione a questa moltiplicazione inarrestabile di oggetti , di informazioni, di parole; ha trovato chi provvede a tenere la ciotola vuota per poterla riempire; chi rimette insieme pezzi di vuoto e silenzio nascosti
…tra nuvole veloci e sguardi fermi…usando parole come dita
La Natura ha trovato poeti come Angelo Andreotti che non la imitano ma la creano.
Come uno sguardo in silenzio s’abbassa,
così il cielo si consegna,
e luci nere illuminano
lo spostamento dell’asse del mondo
su cui le anime passano
equilibrandosi l’una con l’altra.
Scende dal buio
l’enigma
e segue il passo dei sogni a venire,
cerca luce
trova terra
e tutto un alternarsi di confini,
un sovrapporsi esausto di orizzonti.
Venendo dalla schiuma della luna
gettata come un’onda sulla riva
gli angeli si avvicinano alla strada,
ai crocevia raggiungono i passanti
pronunciando nella notte
quel silenzio che mancava
all’imperfetta evidenza dell’ombra.
Riferimenti
[1] L. Sinisgalli Furor Mathematicus, Mondadori Milano 1950;
[2] M. Buber Il Principio Dialogico e altri saggi, S. Paolo Edizioni 2012;
[3] S. Kierkegaard Timore e Tremore Mondadori 2003;
[4] L.J. Wittgenstein Tractatus Logico-Philosophicus, Piccola Biblioteca Einaudi 2009;
[5] L’opera poetica di Angelo Andreotti costituisce un unicum e quindi si rimanda alla bibliografia completa aggiornata nel suo ultimo Dell’ombra la luce, L’arcolaio 2014;
[6] G. Dorfles Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore, Castelvecchi 2008
domenica 25 maggio 2014
La Follia di dire No
-Lei sa quale è stata la prima poesia?-
-No-
-Esatto!-
Dire No è facile e per alcuni bambini è la prima parola che si pronuncia e di sicuro quella che più frequentemente si ascolta e si vede rappresentare: - Questo non si fa- e via a muovere il ditino o a scuotere la testa a destra e sinistra.
Per via di questo semplice atto linguistico l’Uomo lascia, per così dire, il mondo ed entra nella realtà.
Il silenzio di Socrate, la disubbidienza di Thoreau che genererà l’approccio non violento di Gandhi e di Martin Luther King ma anche i dieci -Preferirei di no- dello scrivano di Melville o il gusto della disobbedienza di Emily Dickinson e, per finire, le rinunce di Francesco e Chiara di Assisi. Tutti questi sono esempi di come un semplice No possa trasformare un dato mondo in qualcosa di diverso.
Sono No lontanissimi da ogni forma di nichilismo, fuga o di malattia ma rientrano nella categoria della resistenza ad una condizione di ingiustizia, di rifiuto alle convenzioni, di difesa della propria libertà.
Per emergere dal mondo e per conoscere se stesso l’Uomo deve denudarsi e liberarsi della maschera della sua…persona (persona viene dal greco e vuol dire maschera).
Il No lo aiuta in questa operazione di smascheramento. Attraverso l’uso del linguaggio, delle metafore e del ritmo ( che , come ho detto in un altro post è fine e mezzo dell’arte) il poeta trasforma il mondo nel quale noi tutti respiriamo, mangiamo, ci riproduciamo in una realtà: il mondo non è costituito solo da stati di cose che sussistono, come per esempio il sole che splende o il vento che muove i pioppi cipressini, ma anche di stati di cose che non sussistono. E’ questa la differenza tra mondo e realtà: mentre nel primo ci sono solo fatti positivi, effettivamente sussistenti e sui quali tutti possiamo essere d’accordo (il sole splende), nella seconda “ci sono” anche i fatti non effettivamente sussistenti (potrebbe annuvolarsi). Un fatto positivo apre alla possibilità logica a qualcosa che al momento non è un fatto. Questo significa anche che solo se può presentarsi il pensiero del “cielo nuvoloso” posso desiderare il sole! Se Emily Dickinson scrive quindi [1]
Così mi sfilo le calze
Sguazzando nell’acqua
Per il gusto di disobbedire
Il ragazzo che visse per “Dovere”
Andò in cielo forse da morto
E forse non ci andò
Mosè non fu trattato bene
Anania nemmeno.
in effetti ci svela il segreto del poeta e della poesia che è il gusto di disobbedire e di andare contro le convenzioni a cominciare da quello dell’uso delle parole: esse non servono solo a descrivere un “Dovere”, un attenersi a leggi naturali e regole ma anche a mostrare quello che potrebbe non sussistere (andare in cielo da morti o da vivi? Tenere le calze o sfilarle?).
Qui nel tipico procedimento della Dickens viene mescolato profano e sacro quasi a volerci indicare che la disobbedienza, la negazione ci apre la porta a qualcosa che è più del mondo”animale”, la realtà, ma anche più di questa. Nelle due citazioni bibliche la Dickens sembra volerci suggerire : -In qualsiasi modo ti comporti il risultato è sempre lo stesso, tanto vale lasciare lo spazio al gusto di dire no!-. Ma questo No non è il bieco e mancato rispetto delle regole per un proprio tornaconto ma una scelta coraggiosa e rivoluzionaria: è una disobbedienza che impone di seguire più che le convenzioni e il mondo, la propria coscienza e una realtà di valori alti e universali.
Francesco d’Assisi compose il suo Cantico in volgare in un mondo in cui era imposto il latino: la prima opera poetica della letteratura italiana è conseguenza dei No di Giovanni di Bernardone a suo padre, a una chiesa votata al potere e a una lingua. Il messaggio di straordinaria modernità di Francesco e di tutti quelli che pronunciano un No autentico sta proprio in questa ribellione pacifica. In questi No vi è racchiusa una bellezza che bisogna definire poetica e spirituale perché apre a parole, atteggiamenti e comportamenti necessari ed indispensabili per riacciuffare un’umanità alienata da se stessa, irretita da un mondo evanescente, virtuale in cui è palpabile la solitudine e il Male sembra trionfare come unico stato sussistente di cose. Come dice Brodskij [2] “…se si considera l’ampiezza e l’intensità con cui [il Male] si manifesta nel mondo…” attraverso i suoi multiformi travestimenti di ingiustizia, iniquità, sfruttamento, razzismo e violenza, “…oggi possiamo dire che esso è un fenomeno fisico più che una categoria etica…”
Qui allora è necessario levare un No assoluto per riportare alla realtà della vita l’uomo di oggi, per ridare uno strumento operativo ai nostri giovani e sentite come procede il poeta, come “agisce” la poesia per fare questo:
“…Le mie parole hanno semplicemente lo scopo di suggerirvi una forma di resistenza che un giorno può esservi utile, che può aiutarvi…”
a trasformare il mondo nel quale siamo tutti immersi in una realtà
“…e a uscire dal vostro incontro [fisico, ormai fisico] con il Male meno sudici di quelli che vi hanno preceduto. Quello a cui che sto pensando, come avrete capito, è la famosa faccenda dell’altra guancia…Immagino che vi sia familiare il concetto di resistenza passiva o non violenta, che ha come cardine il principio di rendere bene per male, di non ripagare con la stessa moneta…Ma [a ben pensare] l’offerta dell’altra guancia equivale ad una manipolazione del senso di colpa dell’aggressore: in fondo la vittoria morale in sé potrebbe non essere tanto morale primo perché la sofferenza ha un suo aspetto narcisistico e secondo perché conferisce alla vittima una superiorità sul suo nemico, cioè la rende migliore di lui. Ora per quanto malvagio sia il nostro nemico, resta il fatto fondamentale che è umano; e noi, benché incapaci di amare il prossimo nostro come noi stessi, sappiamo nondimeno che il male mette radici quando un uomo comincia a pensare di essere migliore di un altro…”.
Quello che Brodskij vuol dire è che a volte dire No può anche non bastare per trasformare il mondo in una realtà. Allora per essere convincenti sull’autenticità di questo No e della nostra volontà di trasformazione, direi meglio di conversione, bisogna ribattere decisamente sul No. E infatti così viene fatto nel Discorso della Montagna del quale ricordiamo solo la faccenda dell’altra guancia e dimentichiamo, come hanno fatto Tolstoj, Thoreau, Gandhi, che dopo il versetto [3]:
“…ma se uno ti percuote sulla guancia destra porgi a lui anche l’altra”
il testo, senza alcuna pausa, continua con:
“e se uno vuole chiamarti in giudizio e toglierti la tunica, cedigli anche il tuo mantello. E se uno ti forza a fare un miglio, va con lui per due miglia.”
Citati per esteso questi versetti hanno ben poco a che fare con un semplice no alla violenza: in questi versetti vi è implicita l’idea che il male può essere reso assurdo per eccesso, vi è implicito il suggerimento di rendere assurdo lo stato sussistente di cose sminuendone le pretese ed esponendo al ridicolo la sua intrinseca insensatezza. E’ un effetto che conosciamo molto bene perché è legato ad ogni forma di produzione di massa. E quale attività umana può produrre un numero così cospicuo di No, una produzione pressoché illimitata da ridisegnare il mondo in una realtà?
La Poesia.
Come questa del poeta francese Michel Deguy nella traduzione di Mario Benedetti [4]:
Non uccidere
Non ucciderai affatto
Né i tuoi compagni di classe, né i tuoi professori
Né i vicini non ucciderai affatto né
A Srebenica né a Tel Aviv né a Jenin
Né perché Dio ti aspetta bevendo sotto la pergola
Né per la patria né per le tue idee
Non ucciderai affatto
– “affatto” vuol dire
Non ucciderai in nessun modo
Non ucciderai il prefetto Erignac
Sotto alcun pretesto nemmeno quello della gloria dimenticata di Paoli
Né perché Dio ti ha dato una parte
All’indomani della Genesi
Né perché Maometto e il suo asino
Hanno lasciato la terrazza sotto le ali dell’angelo
Non ucciderai per l’incasso della panettiera
Né per il fischio dell’acceleratore a 3,5 grammi di alcol
Né per la spiaggia dei protettori ritiratisi ai tropici
Non ucciderai né per godere
Né per vendicarti
Né perché “tu vali”
Come cantilena L’Oréal
Con i tuoi 300 000 anni non hai più l’età per fare il furbo
Né perché gli odori del vicino attraversano il pianerottolo
O perché il dio dirimpettaio suona la tromba
Non ucciderai
Non perché fu scritto sulle tavole della legge
Ma perché sei tu stesso a dirtelo
Spesso in pieno petto
E perché ti si dice: è meglio non uccidere,
Credici
Non ucciderai nemmeno il riccio che passa lento
E neanche il piccione di Saint-Sulpice e
Tanto meno la foca pelosa o il rinoceronte erotico
Né l’elefante che occupa tutto lo spazio
Né lo zibetto gastronomico
Non ucciderai affatto perché quelli che ti urlano di uccidere
Sono più cretini di quelli che ti dicono di non farlo
Hai l’età della ragione per capirlo
L’età della disobbedienza secondo Arendt
Agirai secondo coscienza e niente di buono
Te lo ordina
Perché non ci sono subumani
E non ce ne sono mai stati
Perché non c’è più la Voce che viene dall’alto
Né un piatto della bilancia per la vita eterna
Perché i morti non gridano vendetta
E d’altronde non gridano niente perché non esistono più
Perché non ne hai bisogno per “fare il lavoro del lutto”
(questo cliché opprimente di freudiana memoria tivù)
Perché non ci si rifà una vita
Perché tu non sei un altro perché “non degnarti di vedere”
Niente tranne il vortice delle nebulose
Perché questo è il primo e l’ultimo
E il solo comandamento.
Ora sappiamo quale è stata la prima poesia?
-No-
Esatto.
Riferimenti [1] E. Dickinson su www.emilydickinson.it [2] J- Brodskij “Il Canto del Pendolo” Adelphi 2a edizione (2011) [3] Il Vangelo Secondo Matteo [4] M. Deguy Arresti frequenti, Poesie scelte 1965-2006 Luca Sossella editore (2007)
-No-
-Esatto!-
Dire No è facile e per alcuni bambini è la prima parola che si pronuncia e di sicuro quella che più frequentemente si ascolta e si vede rappresentare: - Questo non si fa- e via a muovere il ditino o a scuotere la testa a destra e sinistra.
Per via di questo semplice atto linguistico l’Uomo lascia, per così dire, il mondo ed entra nella realtà.
Il silenzio di Socrate, la disubbidienza di Thoreau che genererà l’approccio non violento di Gandhi e di Martin Luther King ma anche i dieci -Preferirei di no- dello scrivano di Melville o il gusto della disobbedienza di Emily Dickinson e, per finire, le rinunce di Francesco e Chiara di Assisi. Tutti questi sono esempi di come un semplice No possa trasformare un dato mondo in qualcosa di diverso.
Sono No lontanissimi da ogni forma di nichilismo, fuga o di malattia ma rientrano nella categoria della resistenza ad una condizione di ingiustizia, di rifiuto alle convenzioni, di difesa della propria libertà.
Per emergere dal mondo e per conoscere se stesso l’Uomo deve denudarsi e liberarsi della maschera della sua…persona (persona viene dal greco e vuol dire maschera).
Il No lo aiuta in questa operazione di smascheramento. Attraverso l’uso del linguaggio, delle metafore e del ritmo ( che , come ho detto in un altro post è fine e mezzo dell’arte) il poeta trasforma il mondo nel quale noi tutti respiriamo, mangiamo, ci riproduciamo in una realtà: il mondo non è costituito solo da stati di cose che sussistono, come per esempio il sole che splende o il vento che muove i pioppi cipressini, ma anche di stati di cose che non sussistono. E’ questa la differenza tra mondo e realtà: mentre nel primo ci sono solo fatti positivi, effettivamente sussistenti e sui quali tutti possiamo essere d’accordo (il sole splende), nella seconda “ci sono” anche i fatti non effettivamente sussistenti (potrebbe annuvolarsi). Un fatto positivo apre alla possibilità logica a qualcosa che al momento non è un fatto. Questo significa anche che solo se può presentarsi il pensiero del “cielo nuvoloso” posso desiderare il sole! Se Emily Dickinson scrive quindi [1]
Così mi sfilo le calze
Sguazzando nell’acqua
Per il gusto di disobbedire
Il ragazzo che visse per “Dovere”
Andò in cielo forse da morto
E forse non ci andò
Mosè non fu trattato bene
Anania nemmeno.
in effetti ci svela il segreto del poeta e della poesia che è il gusto di disobbedire e di andare contro le convenzioni a cominciare da quello dell’uso delle parole: esse non servono solo a descrivere un “Dovere”, un attenersi a leggi naturali e regole ma anche a mostrare quello che potrebbe non sussistere (andare in cielo da morti o da vivi? Tenere le calze o sfilarle?).
Qui nel tipico procedimento della Dickens viene mescolato profano e sacro quasi a volerci indicare che la disobbedienza, la negazione ci apre la porta a qualcosa che è più del mondo”animale”, la realtà, ma anche più di questa. Nelle due citazioni bibliche la Dickens sembra volerci suggerire : -In qualsiasi modo ti comporti il risultato è sempre lo stesso, tanto vale lasciare lo spazio al gusto di dire no!-. Ma questo No non è il bieco e mancato rispetto delle regole per un proprio tornaconto ma una scelta coraggiosa e rivoluzionaria: è una disobbedienza che impone di seguire più che le convenzioni e il mondo, la propria coscienza e una realtà di valori alti e universali.
Francesco d’Assisi compose il suo Cantico in volgare in un mondo in cui era imposto il latino: la prima opera poetica della letteratura italiana è conseguenza dei No di Giovanni di Bernardone a suo padre, a una chiesa votata al potere e a una lingua. Il messaggio di straordinaria modernità di Francesco e di tutti quelli che pronunciano un No autentico sta proprio in questa ribellione pacifica. In questi No vi è racchiusa una bellezza che bisogna definire poetica e spirituale perché apre a parole, atteggiamenti e comportamenti necessari ed indispensabili per riacciuffare un’umanità alienata da se stessa, irretita da un mondo evanescente, virtuale in cui è palpabile la solitudine e il Male sembra trionfare come unico stato sussistente di cose. Come dice Brodskij [2] “…se si considera l’ampiezza e l’intensità con cui [il Male] si manifesta nel mondo…” attraverso i suoi multiformi travestimenti di ingiustizia, iniquità, sfruttamento, razzismo e violenza, “…oggi possiamo dire che esso è un fenomeno fisico più che una categoria etica…”
Qui allora è necessario levare un No assoluto per riportare alla realtà della vita l’uomo di oggi, per ridare uno strumento operativo ai nostri giovani e sentite come procede il poeta, come “agisce” la poesia per fare questo:
“…Le mie parole hanno semplicemente lo scopo di suggerirvi una forma di resistenza che un giorno può esservi utile, che può aiutarvi…”
a trasformare il mondo nel quale siamo tutti immersi in una realtà
“…e a uscire dal vostro incontro [fisico, ormai fisico] con il Male meno sudici di quelli che vi hanno preceduto. Quello a cui che sto pensando, come avrete capito, è la famosa faccenda dell’altra guancia…Immagino che vi sia familiare il concetto di resistenza passiva o non violenta, che ha come cardine il principio di rendere bene per male, di non ripagare con la stessa moneta…Ma [a ben pensare] l’offerta dell’altra guancia equivale ad una manipolazione del senso di colpa dell’aggressore: in fondo la vittoria morale in sé potrebbe non essere tanto morale primo perché la sofferenza ha un suo aspetto narcisistico e secondo perché conferisce alla vittima una superiorità sul suo nemico, cioè la rende migliore di lui. Ora per quanto malvagio sia il nostro nemico, resta il fatto fondamentale che è umano; e noi, benché incapaci di amare il prossimo nostro come noi stessi, sappiamo nondimeno che il male mette radici quando un uomo comincia a pensare di essere migliore di un altro…”.
Quello che Brodskij vuol dire è che a volte dire No può anche non bastare per trasformare il mondo in una realtà. Allora per essere convincenti sull’autenticità di questo No e della nostra volontà di trasformazione, direi meglio di conversione, bisogna ribattere decisamente sul No. E infatti così viene fatto nel Discorso della Montagna del quale ricordiamo solo la faccenda dell’altra guancia e dimentichiamo, come hanno fatto Tolstoj, Thoreau, Gandhi, che dopo il versetto [3]:
“…ma se uno ti percuote sulla guancia destra porgi a lui anche l’altra”
il testo, senza alcuna pausa, continua con:
“e se uno vuole chiamarti in giudizio e toglierti la tunica, cedigli anche il tuo mantello. E se uno ti forza a fare un miglio, va con lui per due miglia.”
Citati per esteso questi versetti hanno ben poco a che fare con un semplice no alla violenza: in questi versetti vi è implicita l’idea che il male può essere reso assurdo per eccesso, vi è implicito il suggerimento di rendere assurdo lo stato sussistente di cose sminuendone le pretese ed esponendo al ridicolo la sua intrinseca insensatezza. E’ un effetto che conosciamo molto bene perché è legato ad ogni forma di produzione di massa. E quale attività umana può produrre un numero così cospicuo di No, una produzione pressoché illimitata da ridisegnare il mondo in una realtà?
La Poesia.
Come questa del poeta francese Michel Deguy nella traduzione di Mario Benedetti [4]:
Non uccidere
Non ucciderai affatto
Né i tuoi compagni di classe, né i tuoi professori
Né i vicini non ucciderai affatto né
A Srebenica né a Tel Aviv né a Jenin
Né perché Dio ti aspetta bevendo sotto la pergola
Né per la patria né per le tue idee
Non ucciderai affatto
– “affatto” vuol dire
Non ucciderai in nessun modo
Non ucciderai il prefetto Erignac
Sotto alcun pretesto nemmeno quello della gloria dimenticata di Paoli
Né perché Dio ti ha dato una parte
All’indomani della Genesi
Né perché Maometto e il suo asino
Hanno lasciato la terrazza sotto le ali dell’angelo
Non ucciderai per l’incasso della panettiera
Né per il fischio dell’acceleratore a 3,5 grammi di alcol
Né per la spiaggia dei protettori ritiratisi ai tropici
Non ucciderai né per godere
Né per vendicarti
Né perché “tu vali”
Come cantilena L’Oréal
Con i tuoi 300 000 anni non hai più l’età per fare il furbo
Né perché gli odori del vicino attraversano il pianerottolo
O perché il dio dirimpettaio suona la tromba
Non ucciderai
Non perché fu scritto sulle tavole della legge
Ma perché sei tu stesso a dirtelo
Spesso in pieno petto
E perché ti si dice: è meglio non uccidere,
Credici
Non ucciderai nemmeno il riccio che passa lento
E neanche il piccione di Saint-Sulpice e
Tanto meno la foca pelosa o il rinoceronte erotico
Né l’elefante che occupa tutto lo spazio
Né lo zibetto gastronomico
Non ucciderai affatto perché quelli che ti urlano di uccidere
Sono più cretini di quelli che ti dicono di non farlo
Hai l’età della ragione per capirlo
L’età della disobbedienza secondo Arendt
Agirai secondo coscienza e niente di buono
Te lo ordina
Perché non ci sono subumani
E non ce ne sono mai stati
Perché non c’è più la Voce che viene dall’alto
Né un piatto della bilancia per la vita eterna
Perché i morti non gridano vendetta
E d’altronde non gridano niente perché non esistono più
Perché non ne hai bisogno per “fare il lavoro del lutto”
(questo cliché opprimente di freudiana memoria tivù)
Perché non ci si rifà una vita
Perché tu non sei un altro perché “non degnarti di vedere”
Niente tranne il vortice delle nebulose
Perché questo è il primo e l’ultimo
E il solo comandamento.
Ora sappiamo quale è stata la prima poesia?
-No-
Esatto.
Riferimenti [1] E. Dickinson su www.emilydickinson.it [2] J- Brodskij “Il Canto del Pendolo” Adelphi 2a edizione (2011) [3] Il Vangelo Secondo Matteo [4] M. Deguy Arresti frequenti, Poesie scelte 1965-2006 Luca Sossella editore (2007)
martedì 13 maggio 2014
La verità, vi prego, sull'amore
Sono
un po’ restio a credere che esistano poeti giovani (ovvero vecchi
poeti) primo perché non credo che esista una poesia giovane,
contrapposta a una poesia vecchia e secondo perché la poesia non ha
a che fare con Il Tempo, l’Età e le Stagioni.
La
poesia è qualcos’altro.Il giovane poeta è contemporaneo a quello vecchio perché la poesia non nasce e vive, la poesia non muore: la poesia inspira e spira contemporaneamente, si muove tra mare e sabbia, duna e onda; più salda di lei pare la fune di un funambolo, più sicura la caduta e il volo: tutto ciò è terribile, lo so, tutto è però meraviglioso.
Da sempre la poesia si cimenta con l’amore gli chiede “cos’é” , ne tenta una definizione e da sempre l’amore le risponde:
“Dicono alcuni che amore è un bambino/e alcuni che è un uccello,/alcuni che manda avanti il mondo/e alcuni che è un’assurdità...” [W.H. Auden]
Un’assurdità
come la morte di una persona cara, un’amica.
Alessio
Casalicchio a Matteo Bianchi non sono giovani poeti nel senso che pur
essendo giovani hanno LA risposta antica dei poeti : l’amore è
qualcos’altro e ne sono a tal punto convinti da intitolare così
questa bellissima raccolta poetica a due voci “L’amore
è qualcos’altro”
( Empiria Poesia-2013).
Anche
qui, anche questa volta non sapremo la verità sull’amore e di
conseguenza sulla vita e la morte anche se è proprio nella rinuncia
a sapere– è proprio nell’assenza di parole adatte a definire e a
circoscrivere amore, amicizia, dolore e morte- che la verità si
mostra (leggere per credere Gli
anni di viaggio di Wilhelm Meister,
o i Rinuncianti
di J. Wolfgang Goethe).
Come
dice Giancarlo Pontiggia nella nota “...la forza di questo libro
sta proprio nella diversità di due voci che non si
oppongono,...dialogano a distanza [con ] la sensazione che ogni
poesia sia una risposta a un'altra...[e] che tutte insieme rispondano
a un'intimazione più forte e più remota...”
Quello
che subito colpisce di questo dialogo poetico “di
quaranta poesie in camere separate”
è, per così dire, l’arredamento di ogni camera se non proprio la
camera in sé : lo studio/camera da letto di Alessio e il soggiorno
con angolo cottura di Matteo.Sono tutte quelle cose che non mostrandosi ci parlano della giovane età dei due poeti.
Riusciamo ad immaginare il primo intento ad osservare dalla finestra dello studio, oltre la sua immagine riflessa, il suo giardino dove “...non esistono più specchi/né le pozzanghere per raccogliere l'acqua piovana...”.
L’altro lo vediamo in cucina “sedotto” dall’ennesimo “caffè bruciato” ad osservare le cose che lo osservano e che gli parlano di quella volta che...
Ci pare di sentire in sottofondo anche delle musiche provenire da quelle camere, quel mix di Debussy, Bill Evans e Pink Floyd da quella di Alessio e i folk singers, cantautori italiani e il pop inglese da quella di Matteo. E’ vero, un poeta si riconosce come gli uccelli dal canto ma anche da cosa ascolta!
E’ una camera del sogno quindi quella di Alessio nella quale gli sembra di aver “perfino posseduta” l’amata su quel letto di fianco al comodino che accoglie Leopardi, Corazzini, Govoni, Sinisgalli, i poeti maledetti e Rilke.
E’ invece una camera dove i sensi si esaltano, quella di Matteo: i colori degli accessori, le mensole con i libri delle ricette e forse qualche intruso della beatitude generation, Corso, Kaufmann, Ferlinghetti e l’Omero delle Antille più ovviamente Ungaretti, Montale e una goccia di Brodskij (tutta gente che tra l’altro insegna i segreti per “levare dal piatto...” la puzza del pesce “...col limone”).
A questo punto diciamo che i due giovani autori – speriamo incoscientemente- rappresentano nelle loro camere così arredate il dialogo dei dialoghi quello che si parla dalla notte dei tempi tra ciò che è immanifesto (Thanatos) e quello che lo è (Eros) tra quello che ci aspetta (e per alcuni ci ha anche preceduto) e quello che resta.
Con il loro personale <<gusto dell’arredo e del design>>, Alessio e Matteo ci raccontano quasi seguendo le fasi canoniche di un rito, la commedia tragica della Seduzione-Amore-Abbandono che dai Lirici Greci fino alla storia di Don Giovanni è stata rappresentata per schegge, motivi , singoli quadri istantanei senza la preoccupazione di montare il film intero : lo sguardo dell’amata, l’approccio galante, le parole vecchie-sempre le stesse- versate in cuori giovani, il gesto invisibile e delicato dello scrivere la poesia all’amata (tutti, tutti lo hanno fatto!), i sogni e il desiderio- anche del sogno- le cene e gli amplessi a lei “sacrificati” ( come in un rito) e , infine, la disperazione e il pianto per un abbandono. Per l’Abbandono.
Questo è il modello di quanto è avvenuto da sempre ed avverrà altre innumerevoli volte nei vicoli, nelle piazze, nelle sale, nei bar, nei caffè di tutto il mondo. A dispetto del Tempo, dell’Età, delle Stagioni. Vivere, amare, morire.
Questo avviene, incomprensibile e senza fine, in una camera da letto, in una cucina e – fino a poco tempo fa impensabile- tra le maglie di una ragnatela digitale.
Ecco perché non può esistere una verità, sull’amore ( come sulla morte).
L’amore è qualcos’altro perché contrariamente a quello che si crede noi possiamo definire solo qualcosa di cui non sappiamo nulla e Alessio Casalicchio e Matteo Bianchi (rinuncianti!) questo lo sanno bene.
Loro sanno che potrebbero continuare a versare parole su Erica che è andata via, ma hanno preferito cantare insieme perché lei è vissuta. Loro sanno che potrebbero chiudere gli occhi nelle “camere separate” e immaginare la presenza dell’amica, ma hanno preferito tenere gli occhi aperti e mostrare ad Erica quello che lei ha visto.
I
giovani Alessio Casalicchio e Matteo Bianchi avrebbero potuto
ricordare il loro
amore, la loro amicizia e l’affetto per Erica ma hanno preferito...qualcos’altro.
Hanno
preferito mostrare a tutti noi l’Amore, la Vita e la Morte.
E’
quello che i Poeti sanno fare.“Riunito è tutto ciò che vedemmo,/ a prendere congedo da te e da me:/il mare, che scagliò notti alla nostra spiaggia,/la sabbia, che con noi l’attraversò di volo,/l’erica rugginosa lassù,/tra cui ci accadde il mondo.” [P. Celan]
giovedì 8 maggio 2014
Buon sangue.Non Mente
Dopo aver "attraversato" l'ultimo libro di Valerio Magrelli (Il sangue amaro, Einaudi 2014) sono arrivato qua.
Oggi noi chiamiamo
tecnica,
quella che i Greci chiamavano arte
e riteniamo che essa identifichi l’insieme degli strumenti utili a
svolgere una data attività. Ma è un errore: questa è la
tecnologia. La tecnica è, secondo una felice intuizione di
G. Ungaretti [1]
“...un’impresa
sorta dalla memoria [...] ...il risultato di una catena temporale di
sforzi coordinati... necessari a porre ordine in una materia caotica.
La tecnica è cioè un metro, una misura intrinseca alla memoria; è
un ritmo...”
una regolarità in
grado di marcare, preservare e tramandare una Identità.
Quando diventa necessario marcare una
identità e salvaguardare una memoria si ricorre al ritmo.
La téchne,
quindi l’arte, nasce dalla
memoria.
Come non essere d’accordo con
questa ispirata intuizione!
La tecnica astronomica nasce
dalla memoria del cielo, dalla regolarità del moto dei pianeti e dei
cerchi intorno alla stella polare. E dalle stagioni che si succedono
a un ritmo prestabilito nasce la tecnica agricola che è memoria
della terra. La tecnica sportiva e ogni danza rituale, emerge dalla
ripetizione del gesto, dalla recita dei passi. La tecnica poetica
nasce dallo scorrere regolare (in greco reo,
da cui ritmo e rima) delle parole che è memoria in sé.
Allo stesso tempo
però la tecnica è sempre stata vista come un artificio, un trucco e
quindi come tale una potenziale minaccia per l’ Identità. Tale
cosa vien ben espressa da questo brano di Chuang-tzu [2]:
“...Se uno
utilizza macchine, allora compie macchinalmente tutti i suoi atti;
chi compie macchinalmente tutti i suoi atti, ha alla fine un cuore di
macchina; ma se uno ha un cuore di macchina nel petto, perde la pura
semplicità; uno che abbia perso la pura semplicità, diviene incerto
nei moti del suo spirito...”,
diventa incerto
della sua identità.
E infatti Ungaretti [1] espande la sua precedente intuizione
fino a farne una profezia: la tecnica seppure sorta dalla memoria:
“... è allo
stesso tempo in antinomia” con essa.
La tecnica quale
artificio (la tecnologia),
è minaccia per
la memoria.
Non è
un caso infatti che la tecnica venga percepita anche come prodromo
della distruzione e della scomparsa di un mondo precedente, cioè di
una identità e una memoria. E’ stato così con la televisione che
doveva uccidere la radio e il cinema; con il web che a sua volta
avrebbe dovuto uccidere la televisione e che dire dell’ e-book
bibliofago sterminatore della carta stampata e del subdolo blog,
dell’insinuante cinguettio killers designati della frase fatta e
compiuta.
Lo stesso passaggio
dalla parola orale a quella scritta è stato visto come una minaccia
alla memoria e all’identità perché impresa che nasce per
la memoria e non da
essa. Basta rileggere il seguente brano dal Fedro di Platone [3]:
“[...]
Socrate – Ho
sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dèi
del paese, il dio...di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei
numeri, [d]
del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del
gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere
dell’alfabeto. Re dell’intiero paese era a quel tempo Thamus, che
abitava nella grande città dell’Alto Egitto che i Greci chiamano
Tebe egiziana e il cui dio è Ammone. Theuth venne presso il re, gli
rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano esser diffuse presso
tutti gli Egiziani. Il re di ciascuna gli chiedeva quale utilità
comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che
gli sembrava [e]
negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte,
dice la storia, Thamus aveva molti argomenti da dire a Theuth sia
contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli. Quando giunsero
all’alfabeto: “Questa scienza, o re – disse Theuth – renderà
gli Egiziani piú sapienti e arricchirà la loro memoria perché
questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria”. E il
re rispose: “O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza
creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno
e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E cosí ora
tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei [275 a]
inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché
esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi
cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto
richiameranno le cose alla mente non piú dall’interno di se
stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai
trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla
mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo
l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di
molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi,
mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà [b]
una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che
sapienti...”.
In questo passaggio
dalla parola orale a quella scritta -da una tecnica ad un’altra, da
un’ Età all’altra- come nel passaggio da un padre a un figlio e
da una Identità ad un’altra, diventa importante costruire e
contare sulla struttura di un buon ponte. Un ponte fisico, genetico,
culturale, spirituale che ci permetta di tenere unite due sponde e
poter trasportare quello che abbiamo ammassato (anche in modo
frammentario e disordinato) su una sponda – l’arte, la scienza,
la memoria, l’identità e gli altri pezzi del puzzle...di
un mondo organico, vivente...-
sull’altra sponda.
Quale p o n t
e può aiutarci nell’attraversamento? E chi sarà così attento da
predisporre le giuste pile
per reggere saldamente un’anima piena
fino ai reni dell’arco
e alle spalle
sull’argine? Chi ne sarà il collaudatore che certificherà e
garantirà l’accesso agevole e sicuro all’altra sponda per tutti
noi?
Il p o e t a più di
tutti gli uomini, come il p o n t e più di tutte le costruzioni “...
è il tenutario, lo spettatore del
teatro di un io contingente...” [4],
è quello che sorregge le identità
effimere, le biografie che passano da una sponda ad un’altra.
“...tutti i poeti sono erranti...“
come tutti i ponti non sono abitabili se non da ....erranti!
Queste considerazioni di Maria Calandrone si riferiscono a un
poeta/ponte e alla sua ultima raccolta/costruzione: Il
sangue amaro di Valerio Magrelli [5] .
La Calandrone dice
espressamente che sta parlando di un poeta/ponte [4] :
“...quando
abbiamo ormai attraversato l’intero libro.... a un passo dalla
chiusa...” o, potremmo dire,
dall’altra parte del ponte, “...Magrelli
si scaglia contro l’Io...” cioè
quell’ansiosa identità di “....bradi
animali umani che circolano continuamente tra dentro e fuori...”
.
Ci pare di vederli
gli erranti dell’Età dell’Ansia in cerca di un guado o magari
di un ponte nuovo, un piccolo ponte con pile
binate- che sono da preferire per
estetica e trasparenza agli altri tipi di pile- con un appoggio
razionale sotto le anime.
(Indifferentemente si potrebbe parlare di pile binate dei versi per
via della loro estetica e trasparenza così come anche dell’appoggio
razionale su cui le anime dei versi s’ergono e si reggono!)
Il Poeta/Ponte
Magrelli si
costruisce in questa raccolta per
trasportarci sull’altra sponda e consegnarci alla nostra nuova
Identità di uomini sfiniti dall' estenuante e interminabile Età
dell’Ansia, disillusi dall’Età della Tecnica e
smemorati/smarriti di fronte all’Età della Tecnologia.
Natale, credo,
scada il bollino blu/del motorino, il canone URAR TV,/poi l’ICI e
in più il secondo/acconto IRPEF-o era INRI?
Nessuna arte
potrà mai nascere da questo rumore di
acronimi moderni fatti per
la memoria; meri artifizi che impongono una sorta di carpe
diem allo scadenzario delle ansietà
moderne. Come diventa evocativo e ritmico quell’INRI
posto alla fine della prima quartina! ( Alla fine di una
crocefissione?)
La password, il
codice utente, PIN e PUK /sono le nostre dolcissime metastasi./Ciò è
bene, perché io amo i contributi,/l’anestesia, l’anagrafe
telematica,/
Senza renderci conto
veniamo invasi, minacciati da tutto ciò che dovrebbe aiutare la
nostra identificazione: i pin, i puk, le userid, le password, le
loro scadenze e successive riproposizioni, diventano i nostri codici
a sbarre
per definirci per ricordare e ricordarci.
Italo Calvino sostiene [6]
che due
“...sono le
condizioni necessarie dell’identità: [la] prima [e’] che io sia
in grado di ripetere un’esperienza, sapendo di ripeterla, per
esempio riconoscermi guardandomi allo specchio; [la] seconda [è]
che gli altri siano in grado di capire, da una volta all’altra, che
io sono sempre io...”
Oggi più che
specchiarci ci
guardiamo e vogliamo essere guardati; su uno schermo, quello di uno
smartphone, quello di un notebook. Lì su quella “bacheca”, su
quello specchio cinematografico, lasciamo da una volta all’altra,
da un istante all’altro (senza più nessuna attenzione al ritmo e a
una regola/ regolarità) il nostro cambiamento.
Per svolgere le nostre attività non
abbiamo più bisogno di ritmo ma di istante,
non di tecnica ma dell’uso veloce di strumenti, di tecnologia
dunque. La tecnica è stata arte perché impresa sorta dalla
memoria ma l’artificio per
la memoria -la tecnologia- è lì per sostituire al ritmo l’istante
con la conseguente perdita di identità:
ma sento che
qualcosa è andato perso/e insieme che il dolore mi è rimasto/mentre
mi prende acuta nostalgia/per una forma di vita estinta: la mia.
Magrelli con sangue
amaro porta a termine questo viaggio
verso l’ Identità dell’Uomo dell’Età post- tecnologica e lo
fa dopo due tappe importanti nelle quali ha seguito ( ha osservato)
l’evoluzione dell’Identità che , prima, nei Disturbi
del sistema binario [7], cerca di
emergere tra coppie concettuali ed emotive dialettiche e contrapposte
( a volte irriducibili come la famosa anatra-lepre di Wittgenstein);
successivamente, nella Geologia di un
padre [8] viene ricercata, l'identità,
scientificamente, scavando nel profondo, quasi si trattasse di
un’impronta fossile, un segno indelebile che ci precede e ci
segue per definirci in ogni istante intermedio.
Il sangue amaro
è la fine di questo processo analitico e psicoanalitico, di questa
impresa sorta dalla memoria collettiva ed individuale che
(ri)-conduce ad un identità primitiva: l’Uomo ama rievocare se
stesso e la propria origine perché sente la mancanza di sé.
Cosa è quella
cicatrice della figlia [5]
...che una sua
compagna/tracciò sopra la guancia...
se non una
rievocazione?
Perché la
guardo? Solo per ripetermi che il Tempo/lì è trascorso, affidando
il saluto ad un’unghiata.
Quel segno fortuito
è il contraltare dei “tatuaggi” di Facebook, dei “piercing”
di Twitter di quei segni per la memoria che le tecnologie impongono
quale affermazione di una Identità: un segno dalla
vita contro i segni per
la vita.
Non è primitivismo questo?
Come è importante
che il Tempo trascorra con un suo ritmo! E invece, oggi, l’ansia e
la tecnica erodono e demoliscono tutto ciò che precede e segue.
Hanno creato aritmie temporali, linguistiche, emotive per concentrare
tutto nell'/sull'/all’istante senza più riguardo per il passato e
futuro. Come dice Jonathan Franzen [9]:
“...siamo ormai
abitanti di un epoca che ha perso la propensione a essere
posterità...i tecnici hanno demolito il ponte e il futuro è ciò
che segue automaticamente....ci troviamo a passare la maggior parte
del nostro tempo a mandare SMS, e-mail, tweet ...Ci dicono che per
rimanere competitivi [in tutti i sensi] dobbiamo dimenticare le
discipline umanistiche e insegnare ai nostri figli “la passione”
per le tecnologie digitali ...ma [non abbiamo capito] che se due più
due fa davvero quattro, questo è dovuto al fatto che Goethe ha
scritto la poesia Bonaccia....”
E Magrelli nel
recupero di un' Identità psicoanalizzata e nanotecnologica non
trova di meglio che rintracciare nel primitivismo [5] questo
possibile ennesimo approdo di sé.
Ponti/poeti
I ponti! Quanti
ponti nella storia, ancora in costruzione o già in rovina!/Davanti
al loro gesto connettivo, davanti al loro amore pontificale,/ripenso
ai tanti riti celebrati in tanti luoghi di passaggio e guado./Per
Ellade, nel ponte a Finisterre, fu sepolto un bambino, mentre Pont
d’Os,/situato nella Loira, sorgerebbe sui resti di invasori
sconfitti/e trasformati in fondamenta. Tali efferate pratiche
miravano/a fare delle vittime anticorpi, segreti spiriti protettori
dell’opera./Vennero poi liturgie meno brutali, per addomesticare
questa pena./Così, ad esempio, nell’antica Roma, prima di
fabbricare un nuovo ponte,/le vergini Vestali gettavano nell’acqua
bamboline di giunco/(si tratta del medesimo sistema che Eliade scorse
nel brahmanesimo,/con l’impiego di effigi o figure di pane, invece
di creature sacrificali).
Nella sua impresa
autoreferenziale di
farsi ponte per rievocarsi ed attraversarsi, Magrelli è consapevole
che a scrivere, a costruire il ponte, è lui in quanto esemplare di
uno sciame di [6]
“...bianchi
eurocentrici consumisti petrolifagi e alfabetiferi...”
con le fondamenta
delle identità ben piantate in una colonia di cromosomi affini
che abitano le nostre cellule e che sentono una solidarietà e
comunanza tra loro mentre un rapporto di aggressività esiste tra
cromosomi avversi.
L’Età dell’Ansia è congenita
La nostra
individualità è attraversata da una continuità genetica che si
frantuma e miscela incessantemente secondo stratificazioni
“geologiche” che hanno radici sia nella casalinga
nascita di un nuovo individuo che nel profondo big-bang spazio
temporale. L’Età della Tecnica è congenita.
E allora per non
scoraggiarci nella vana ricerca di un nuovo IO non possiamo che fare
questo passaggio a un neoprimitivismo post-tecnologico : nella Età
della Tecnologia dove qualunque ritmo è minacciato dalla presenza
dell’istante l’unica sponda
raggiungibile è la Natura, vale a dire recuperare il
sentire di una popolazione dell’Alto
Volta che nella persona umana distingue nove componenti [6] :
“...1) il corpo
che si riceve dalla madre, 2) il sangue [amaro?],
che si riceve dal padre, 3) l’ombra che il corpo proietta, 4)
calore e sudore, 5) il respiro, 6) la vita, o meglio una particela
della vita, che è un’entità in cui tutti gli esseri viventi sono
immersi, 7) il pensiero, suddiviso in intendimento e coscienza, 8) il
doppio, che è la parte immortale , che può compiere e subire le
stregonerie ( si stacca dal corpo ogni notte per vagare nei sogni, e
poi definitivamente qualche anno prima della morte per andare nel
villaggio dei morti dove avrà altre due vite e altre due morti da
morto e finalmente si incarnerà in un albero), 9) il destino
individuale...”
Se
Tutto si tiene è perché i poeti, come i ponti, tengono le sponde:
erti sulle loro pile reggono l’anima, riempiono il vuoto e
alleviano il passaggio.
Se tutto dovesse
andar bene,
ma veramente bene, senza incidenti o crolli,
infine arriverà la tremarella.
Vedo amici più anziani che
vibrano
il mento scosso, le mani inarrestabili.
Parliamo allora di questo movimento,
un vento che soffia da
dentro
per scuotere le foglie delle dita
e non si ferma più.
E’ questo stormire
neurologico
di fronde che dunque mi attende
se tutto, proprio tutto, dovesse andare bene.
E mi tramuterò in una betulla
o in
un cipresso sul bordo del fiume,
con quel tremore di luci
alzate dalla brezza.
Mi farò soffio, mi farò
soffiare,
panno lasciato al sole ad asciugare.
Riferimenti
[1]-G. Ungaretti,
lettera scritta a Leonardo Sinisgalli per il primo numero di Civiltà
delle Macchine, Gennaio 1953;
[2]-Chuang-tzu, Zhuang-zi,
Biblioteca Adelphi 1982, 5ª ediz.;
[3]-Platone, Fedro
Piccola Biblioteca Einaudi-Classici 2011;
[4]-M. Calandrone,
Poesia
Aprile 2014 N° 292;
[5]-V. Magrelli,
Il sangue amaro, Einaudi 2014;
[6]- I. Calvino, Civiltà
delle macchine, XXV, 1977;
[7]-V. Magrelli, Disturbi
del sistema binario, Einaudi, 2006;
[8]-V. Magrelli, Geologia
di un padre Einaudi,2013;
[9]-J.Franzen, Internazionale,
n°1022, 2013 ;
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