Forse è il colore verde acido della costa, che tra le altre spicca sullo scaffale, a farci scegliere un libro: o, forse, è il titolo: quello delle raccolte poetiche, ad esempio, dice molto; richiama e incanta quasi fosse un canto omerico di sirene.
E il caso, poi, dove lo mettiamo il caso nella cosiddetta scelta? Magari il libro è poggiato lì sullo scaffale perchè il libraio non lo ha ancora opportunamente posizionato o intende , per qualche suo motivo, promuoverlo in questo modo o, addirittura, potrebbe trattarsi di un libro abbandonato, da qualche sconosciuto, lì su un prato, tra l’erba verde mossa dal vento. Potrebbe essere solo un libro fuori posto ma che in quel preciso momento, al nostro passaggio, si trova nel posto giusto.
Come vedete quindi sono tanti i modi “oggettivi” attraverso i quali i libri oppongono alla nostra, la scelta che loro fanno di noi lettori.
Poi vi è un modo, indiscutibilmente valido perchè “soggettivo” che è sceglire in base all’autore: il suo nome e quello che evoca in noi. E’ vero, noi vediamo, ascoltiamo e scegliamo per conoscere ma è altrettanto vero che noi vediamo ascoltiamo e scegliamo ciò che conosciamo, cioè quello che abbiamo imparato o quello che “già” sapevamo e abbiamo dimenticato. E in questo “già” c’è l’Anima.
Dopo questa breve inroduzione posso passare all’ argomento del post: l’IO e il doposcuola psicoanalitico di Walt Whitman: il termine scuola sarebbe stato pretenzioso e lo stesso poeta lo avrebbe disdegnato.
Tutto quello che ci accade giorno e notte-come ad esempio, imbatterci in un libro dalla costa color verde acido - non costituisce il nostro IO.
In disparte da quanto ci sollecita e ci urge sta ciò che noi veramente siamo e se ne sta divertito, compiacente, compassionevole, inerte, unitario a guardare all’ingiù volgendo di lato la faccia, incuriosito da quello che accadrà, partecipe ma fuori dal gioco; osserva e stupisce.
Ecco cosa fa il nostro amato Whitman[1], invita ad ascoltare noi stessi come se fossimo al di qua, ovvero, al di là di una porta, ad origliare dunque per entrare in contatto (percepire chiaramente!) una dimensione inattesa e differente da quella che sperimentiamo giorno e notte grazie ai nostri sensi e alla nostra “cultura” che è spirito del tempo; perché l’ ”io” secondo Whitman è diviso in tre parti [2] : il mio io, il vero io e la mia anima. Tale mappa psichica è del tutto originale ed irriducibile al modello d’inconscio freudiano o a qualunque altra mappa della mente.
Whitman inizia il suo Il Canto di me stesso [1] con un incontro tra il suo io e la sua anima come se fossero due amici: uno dei due amici (l’anima) appare all’altro come un’enigma, meglio, come una persistenza pre-esistente e che persisterà anche dopo l’ esistenza dell’io. Potremmo definire “carattere” questo enigma, in contrapposizione alla “personalità” propria dell’io.
Nel Canto di me stesso l’Io, la personalità (maschera= prosópon=persona) poetica dell’autore, si rivolge al vero Io ma qui accade che l’autore dia la chiara impressione di conoscere perfettamente sia la propria maschera poetica, sia il vero io ma di non conoscere quella che chiama anima mia perché l’anima non si può conoscere; all’anima si può solo credere.
L’anima quindi resta un rebus malgrado questo abbraccio armonioso e questo trasporto tra lei e l’io.
Leggendo Whitman scopriamo che il vero io è la parte migliore di noi, precedente alla Creazione, e che è questa parte a fare i conti e a intrattenere una relazione con l’io e l’anima che a questo punto si rivelano essere lo Spirito (non inteso in termini religiosi , quanto il combinato disposto weiliano di comprensione e percezione; di Ragione ed Emozione ) e la Natura: l’uno e l’altra devono rispettarsi e mai soccombere l’uno all’altra!
Credo in te, anima mia, e l’altro che io sono non dovrà mai umiliarsi a te,/come tu non dovrai umiliarti all’altro.
Il racconto poetico di questo abbraccio tra l’io, la persona Walt Whitman, e l’anima è una delle ragioni per cui leggere dovrebbe essere ritenuto un DOVERE. Leggere infatti serve a fortificare l’io e non è importante se si tratti dell’ ”io” che si trova da questa o dall’altra parte della porta. Non è importante sapere se abbiamo scelto quel libro per la sua copertina verde acido o per il titolo o perché ci è piovuto tra le braccia dallo scomparto in alto a destra dello scaffale o perché lo abbiamo casualmente trovato in mezzo a un prato: quel libro va letto perché leggerlo ci aiuterà a diventare più forti a dare più fiducia a noi stessi e, di conseguenza, donarla a quelli che incontriamo, a coloro che amiamo. Il libro serve ad avere fiducia e fede, e a dare fiducia e fede in quello che sarà.
Leggere, e in particolare leggere Walt Whitman, vuol dire “solo” dare più ascolto e più voce alla Vita: di qua e di la dalla porta.
Il canto di me stesso è costituito da 52 “pagine” di un diario ; pagine, quindi, scritte in gran segreto e destinate ad essere custodite in un cassetto se non fosse che chi le ha scritte, appunto, non è un “chi”, non è un io, non è una persona, ma un noi che attraverso il vero io riesce a tradurre ciò che l’Anima tace.
Di seguito riporto tolo le prime 6 “pagine” di questo diario abbandonato su un fazzoletto del Signore e sfogliato dal vento. Fogli d’erba sempre verde, a tutte le stagioni dell’io, alle non-stagioni del vero io; al dovunque-sempre dell’Anima.
1
Io celebro me stesso, canto me stesso, /E ciò che io suppongo devi anche tu supporlo /Perché ogni atomo che mi appartiene è come appartenesse anche a te.
Ozioso m’attardo e invito l’ anima mia,/Ozioso m’attardo a mio agio e mi curvo ad osservare un filo
d'erba estiva.
La mia lingua, ogni atomo del mio sangue, prodotto da questa terra, da quest’aria,/Qui nato, da genitori nati qui, i loro padri e i padri dei padri nati anche loro qui,/lo, a trentasettenne e in perfetta salute, incomincio,/Sperando di non cessare che alla morte.
Credi e scuole in sospensiva,/Un poco indietro ritrattomi, contento di ciò che essi sono, /ma non scordandoli ,/Accolgo il bene e il male, lascio parlare a caso,/La Natura senza freno e con la nativa energia.
2
Case e stanze son tutte profumate, gli scaffali gremiti di profumi/ Io stesso inalo la fragranza, e la conosco e l’amo,/La sublimazione potrebbe inebriare anche me, ma io non lo permetto./L'atmosfera non è un profumo, non ha la fragranza della sublimazione, è inodore,/E’ destinata per sempre alla mia bocca e io ne sono innamorato,/Andrò sulla scarpata presso il bosco, per mascherarmi, per denudarmi,/Sono pazzo dal sesiderio di venirne in contatto.
Il vapore del mio fiato,/Echi, increspature, soffocati sussurri, radice d'amore, filo di seta, biforcazioni, viticci,/ La mia respirazione e inspirazione, il pulsare del mio cuore, il transito del sangue e dell’aria per i miei polmoni,/L’odore delle foglie verdi e delle foglie secche, e della spiaggia, e delle brune rocce marine, e del fieno nel fienile,/Il suono delle parole vomitate, della mia voce affidata ai refoli del vento,/Pochi labili baci, una stretta, qualche braccio proteso,/Gioco di luci e d’ombre sugli alberi, quando oscillano i flessili rami,/La delizia di trovarsi solo, o tra la folla per strada, o nei campi, o sui fianchi d’una collina,/La sensazione di salute , il trillo del pieno meriggio, il canto di me che mi levo al mattino e vado incontro al sole.
Credevi che mille acri fossero molto? Credevi che la terra fosse molto?/Ti sei esercitato tanto per imparare a leggere?/Ti sei sentito così superbo perché intendevi il senso delle poesie?
Fermati oggi con me, fermati questa notte, e tu capirai l’origine di tutte le poesie,/Possederai il bene della terra e del sole (sono rimasti ancora milioni di soli,)/Non riceverai più le cose di seconda, terza mano, non dovrai più guardare attraverso gli occhi dei morti, né nutrirti di spettri nei libri,/Non dovrai guardare attraverso gli occhi miei, né ricevere sensazioni per mezzo mio,/Percepirai d’ogni parte suoni e li filtrerai attraverso te stesso.
3
Ho udito ciò che dicevano gli oratori che parlavano del principio e della fine,/Ma io non discuto né di principio né di fine.
Non vi fu mai più inizio di quanto vi sia ora,/Ne più gioventù o vecchiaia di quanta vi sia ora,/Non vi sarà mai perfezione maggiore di quanta vi sia ora,/Ne più cielo o più inferno di quanto vi sia ora./
Impulso, impulso, impulso,/Ognora il procreante impulso del mondo,/Dalla vaga lontananza eguali opposti avanzano, sempre so stanza e aumento, sempre sesso,/Sempre un intreccio d’identità, sempre distinzioni, creazioni di vita.
Elaborare a nulla giova, sapienti e ignoranti sentono che è così.
Sicuri come le cose più sicure, a fil di piombo i pilastri saldi i tiranti, rafforzare le travi,/ Forti come cavalli, affezionati, alteri, elettrici, /Io e questo mistero qui sorgiamo./
Chiara e dolce l’ anima mia, chiaro e dolce tutto ciò che non è l’anima mia.
Se manca uno, mancano entrambi, e l’invisibile è provato dal visibile,/Fino quando questo diventa invisibile e, a sua volta, viene provato.
A mostrare il meglio e a separarlo dal peggio un secolo dopo l’altro s’affatica,/Conoscendo l’assoluta giustezza, l’equanimità delle cose,/mentre quelli discutono io taccio e vado a bagnarmi e ad ammirarmi.
Benvenuto ogni organo e ogni mio attributo, e quello d’ogni uomo schietto e puro,/Non un pollice, né un frammento di pollice è vile, e nessuno deve essere meno familiare del resto.
Sono soddisfatto- io vedo, danzo, rido, canto,/Quando chi ha condiviso il mio letto e mi ha abbracciato e ha dormito al mio fianco, sul fare del giorno dilegua con passo furtivo,/Lasciandomi cesti coperti di bianche tovaglie, d’abbondanza m’impinguano la casa,/Devo posporre l’accettazione, la mia presa di possesso e urlare ai miei occhi che si volgano dal seguire chi si ritrae giù per la strada,/E subito stimino, e mi riferiscano, fino al centesimo,/Il preciso valore di uno, e il preciso valore di due, e quello che vale di più?
4
Gente che trama tranelli e pone domande mi attornia,/Gente che incontro, gli effetti su di me dell’infanzia, o del quartiere della città dove vivo, o il paese,/Gli ultimi avvenimenti, scoperte, invenzioni, società, autori vecchi e nuovi,/Il pranzo, il vestito, i compagni, l’aspetto, i complimenti, i canoni,/La effettiva o immaginaria indifferenza di qualche uomo o di qualche donna che amo,/La malattia di qualcuno della mia famiglia, o mia, o cattive azioni, o perdita o mancanza di soldi, o depressioni o esaltazioni,/Lotte, gli orrori della guerra fratricida, la febbre di dubbie notizie, eventi incerti,/Tutto questo m’accade giorno e notte e da me si allontana,/Ma non costituisce il mio io.
In disparte da quanto mi sollecita e m’urge sta ciò che io sono,/Se ne sta divertito, compiacente , compassionevole, inerte, unitario,/Guarda all’ingiù, si aderge, piega il braccio sopra un impalpabile ma sicuro sostegno,/Guarda volgendo di lato la faccia, curioso di ciò che accadrà,/Partecipe e fuori del gioco, osserva e stupisce.
Volgendomi indietro vedo i miei giorni, quando anch’io m’affannavo nella nebbia, con persone loquaci e inclini alle dispute,/Io non derido né discuto, ma osservo e attendo.
5
Credo in te, anima mia, e l'altro che io sono non dovrà mai umiliarsi a te,/Come tu non dovrai mai umiliarti all’altro.
Ozia con me sopra l'erba, libera la tua gola da ciò che l’impediva,/Non parole né musica né rime ti chiedo, né convenzioni né conferenze, sian pure le migliori,/Già mi soddisfa la cantilena, il cupo gorgoglìo della tua voce velata.
Ricordo di come una volta si giacque, un trasparente mattino d’estate,/Il capo tu mi posasti di sbieco sull’anca, e dolcemente su me ti volgesti,/Mi apristi la camicia sullo sterno, dardeggiando la lingua sino al cuore nudo,/Poi ti stendesti fino a sentire la mia barba, fino a tenermi i piedi.
Rapida sorse in me, e per me si diffuse la pace e la scienza, che superano ogni terrestre argomento,/E so che la mano di Dio è la promessa della mia,/E so che lo spirito di Dio è fratello del mio./E che tutti gli uomini ovunque nati sono anche miei fratelli, tutte le donne mie sorelle e amanti,/E che la controchiglia della creazione è l’amore/E che infine sono le foglie aderte o avvizzite nei campi,/E le formiche brune nelle piccole tane sotto esse,/E le muschiose incrostazioni delle staccionate tortuose, e i mucchi di pietre, il sambuco, il verbasco e la morella in grappoli.
6
Un bimbo mi chiese Che cosa è l’erba? Recandone a me piene mani,/Come rispondere al bimbo? Non ne so più di lui.
Penso debba essere l’emblema della mia inclinazione, tessuto della verde stoffa della speranza.
O penso sia il fazzoletto del Signore,/Un dono aulente, un ricordo, lasciato cadere apposta/Che reca il nome del proprietario in qualche angolo, onde possiamo vederlo e notarlo e chiederci Di chi sarà mai?
O penso che l’erba sia un bimbo, il bimbo nato dalla vegetazione.
O ritengo sia un geroglifico uniforme,/ Che significa, crescendo al pari nelle terre vaste come in quelle anguste/Crescendo tra i neri così come tra i bianchi,/Canaco, Mangiatuberi, Deputato o Moro a tutti dono ugualmente e ugualmente li accolgo.
E ora mi appare la bella capigliatura intonsa delle tombe.
Ti tratterò dolcemente, erba ricciuta,/Può darsi tu fiorisca dal petto di giovani uomini,/Che, avessi conosciuto, forse avrei amato,/Può darsi tu emerga da vecchi, o da bimbi anzitempo rapiti al grembo materno.
Quest’erba è troppo scura per spuntare dal capo canuto di madri anziane,/E’ ben più scura della sbiadita barba dei vecchi,/E’ scura per spuntare dal roseo palato delle bocche.
Vorrei poter tradurre gli accenni ai giovani morti, alle giovani morte,/E gli accenni ai vecchi, le madri, i bimbi anzitempo rapiti ai grembi loro.
Che cosa credi siano divenuti i giovani e i vecchi?/Che cosa credi siano divenute le donne e i bambini?
Sono vivi e stan bene in qualche luogo,/il minimo germoglio mostra che la morte non esiste,/E che se mai esiste, essa indusse alla vita, e non attese il termine per fermala,/E non cessò l’istante che apparve la vita.
Tutto continua e procede, mai nulla s’annulla,/Morire è ben diverso da quanto si pensi, e molto più fausto.
...Come non si può non continuare?
[1]- W. Whitman, Foglie d’erba, Einaudi, 1993
[2]- H. Bloom, Come leggere un libro (e perché), Rizzoli, 2001
sabato 22 agosto 2015
domenica 26 luglio 2015
Pittogrammi ferraresi
Circa 20 anni fa in Francia è stata riscoperta la grotta di Chauvet praticamente inaccessibile fin dai tempi dell'ultima glaciazione. All'interno della grotta sono stati rinvenuti segni e pittogrammi incisi sulle pareti dagli uomini e donne di Cro-Magnon. Questi segni e queste immagini rappresentano in un certo senso l'alfabeto più antico che si conosca, l'alfabeto di un mondo che è rimasto invisibile allo spazio e al tempo fino al momento in cui è stato ritrovato.
Da quei segni graffiati sulla roccia traspare comunque l'affinamento di una Bellezza primitiva scaturita da un'atmosfera palpabile di paura e speranza; aleggia, per così dire, lo Spirito di uomini e donne esposti a molti misteri che vivevano in una cultura che Berger [1] ha definito dell'ARRIVO, per contrapporla a quella che viviamo noi oggi e che, evidentemente, è, per contrapposizione, una cultura della PARTENZA dove invece di essere affrontati, i misteri vengono elusi.
In questa grotta, attraverso questo alfabeto dell'invisibile, si capisce una cosa importante e cioè che la Poesia nasce come un delfino: sa nuotare subito.
Ecco dunque quello che consiglio di fare con l'ultima raccolta poetica [2] di Chiara De Luca, poetessa e traduttrice ferrarese: entrate nel libro come se fosse quella grotta e leggete le sue poesie come se fossero quei pittogrammi quei segni carichi di speranze, paure e desideri di noi tutti, Cro-Magnon-ferraresi.
Dopo un "viaggio" di 20 anni, Chiara De Luca ritorna in questo luogo dove persiste la sua origine, la nostra origine; in una terra che
...non attende acqua invece attinge
da falde dentro al ventre più profonde
né traccia l'acqua il suo viaggio per cadere
ma evapora l'eccesso di sé per non finire
[Parco Bassani, III pg. 43]
Con il ritorno dopo 20 anni a Ferrara, Chiara traduce le lingue visitate, i paesaggi e i luoghi interrogati, in un'unica lingua e in un unico luogo: una lingua senza un alfabeto (la Poesia) e un luogo senza contorni fisici (un origine invisibile).
Le parole sono solo e il SOLO modo di approfondire il rapporto tra se stessa e il mondo, tra la sua presenza umana e un luogo. Le parole non sono quindi il dizionario di ciò che chiamiamo "Chiara" o "Ferrara" ma i confini di un altrove che si perde nel buio della grotta e dove grazie ad un almanacco di segni e di pittogrammi ( parco bassani, via della ghiara, il ghetto ebraico, via gusmaria, parco massari, via camaleonte,...) è stato possibile ESISTERE e
...sguinzagliare di colpo la notte in un recinto di parole
[pg.56]
Su queste pareti ritroviamo tracciate le "campane" su cui Chiara saltellava da bambina, le matatene di Via Gusmaria [pg.38]; su queste pareti decifriamo tutte le speranze e le paure, i misteri a cui Chiara era esposta quando viveva nell'epoca dell'ARRIVO. E' in questa grotta in questo luogo che persiste l'ostinata origine della sua Poesia.
Tutti gli altri luoghi vengono visitati per essere cancellati. Solo uno resta sconosciuto: quello dove fallisce ogni tentativo di fuga e dove trionfano insieme la nostra prigionia e la nostra libertà.
Così viaggiare e visitare per 20 anni lingue e luoghi ha "soltanto" permesso di scoprire che ciò che è scomparso, in realtà, si nascondeva qui nel luogo che non è mai stato veramente visitato ma solo sgranato come un rosario; nel luogo dove è stato messo tutto a soqquadro ma non è stato riordinato mai nulla.
Il luogo dove Chiara è stata inchiodata alla vita e dove, come fa un delfino, ha subito nuotato.
[1] J. Berger Qui,dove ci incontriamo Bollati Boringhieri (2005)
[2] C. De Luca Alfabeto dell'invisibile Samuele Editore (2015)
Da quei segni graffiati sulla roccia traspare comunque l'affinamento di una Bellezza primitiva scaturita da un'atmosfera palpabile di paura e speranza; aleggia, per così dire, lo Spirito di uomini e donne esposti a molti misteri che vivevano in una cultura che Berger [1] ha definito dell'ARRIVO, per contrapporla a quella che viviamo noi oggi e che, evidentemente, è, per contrapposizione, una cultura della PARTENZA dove invece di essere affrontati, i misteri vengono elusi.
In questa grotta, attraverso questo alfabeto dell'invisibile, si capisce una cosa importante e cioè che la Poesia nasce come un delfino: sa nuotare subito.
Ecco dunque quello che consiglio di fare con l'ultima raccolta poetica [2] di Chiara De Luca, poetessa e traduttrice ferrarese: entrate nel libro come se fosse quella grotta e leggete le sue poesie come se fossero quei pittogrammi quei segni carichi di speranze, paure e desideri di noi tutti, Cro-Magnon-ferraresi.
Dopo un "viaggio" di 20 anni, Chiara De Luca ritorna in questo luogo dove persiste la sua origine, la nostra origine; in una terra che
...non attende acqua invece attinge
da falde dentro al ventre più profonde
né traccia l'acqua il suo viaggio per cadere
ma evapora l'eccesso di sé per non finire
[Parco Bassani, III pg. 43]
Con il ritorno dopo 20 anni a Ferrara, Chiara traduce le lingue visitate, i paesaggi e i luoghi interrogati, in un'unica lingua e in un unico luogo: una lingua senza un alfabeto (la Poesia) e un luogo senza contorni fisici (un origine invisibile).
Le parole sono solo e il SOLO modo di approfondire il rapporto tra se stessa e il mondo, tra la sua presenza umana e un luogo. Le parole non sono quindi il dizionario di ciò che chiamiamo "Chiara" o "Ferrara" ma i confini di un altrove che si perde nel buio della grotta e dove grazie ad un almanacco di segni e di pittogrammi ( parco bassani, via della ghiara, il ghetto ebraico, via gusmaria, parco massari, via camaleonte,...) è stato possibile ESISTERE e
...sguinzagliare di colpo la notte in un recinto di parole
[pg.56]
Su queste pareti ritroviamo tracciate le "campane" su cui Chiara saltellava da bambina, le matatene di Via Gusmaria [pg.38]; su queste pareti decifriamo tutte le speranze e le paure, i misteri a cui Chiara era esposta quando viveva nell'epoca dell'ARRIVO. E' in questa grotta in questo luogo che persiste l'ostinata origine della sua Poesia.
Tutti gli altri luoghi vengono visitati per essere cancellati. Solo uno resta sconosciuto: quello dove fallisce ogni tentativo di fuga e dove trionfano insieme la nostra prigionia e la nostra libertà.
Così viaggiare e visitare per 20 anni lingue e luoghi ha "soltanto" permesso di scoprire che ciò che è scomparso, in realtà, si nascondeva qui nel luogo che non è mai stato veramente visitato ma solo sgranato come un rosario; nel luogo dove è stato messo tutto a soqquadro ma non è stato riordinato mai nulla.
Il luogo dove Chiara è stata inchiodata alla vita e dove, come fa un delfino, ha subito nuotato.
[1] J. Berger Qui,dove ci incontriamo Bollati Boringhieri (2005)
[2] C. De Luca Alfabeto dell'invisibile Samuele Editore (2015)
mercoledì 8 luglio 2015
Tradurre eludendo la letteratura
Quale è il compito della Poesia?
Da un punto di vista tecnico quello di "connettere indissolubilmente" una struttura melodica a un tessuto linguistico e a un contesto visivo.
Da un punto di vista artistico quello di di-vertire nel senso etimologico cioè di svagare, ricreare piacere, distogliendo l'animo da cure e pensieri quotidiani o volgendolo ad altre cure e pensieri in grado di produrre, come direbbe Bonnefoy, "l'imprevedibile irruzione dell'assoluto nella sfera dei sensi".
A ben vedere questo è anche il compito della Traduzione.
L'abilità del traduttore consiste "solo" nell'imitare quello che un testo fa alla lingua madre del poeta e riprodurlo nella lingua della traduzione.
Questo perché se è vero che è la Poesia che fa il poeta, e altrettanto vero che è la poesia a fare il buon traduttore.
Tradurre suppone una pulsione comune che deve essere resa indifferentemente in "corpi" diversi tenendo conto delle proprietà musicali delle parole(nell'una e nell'altra lingua), delle proprietà visive delle stesse(per entrambe le lingue ancora) e del tessuto linguistico; e tutto questo deve essere fatto "eludendo la letteratura" cioè l'apparato culturale che ruota intorno alla parola, al suo suono (ritmo), al suo segno.
Questo passaggio è spiegato mirabilmente da Chiara De Luca, poetessa e traduttrice, nel suo saggio su Charles Hubert Sisson comparso nell'ultimo numero di Poesia (Anno XXVIII, Luglio/Agosto N.306, pgg.29-41):
"...Evitando la letteratura, Sisson vuole evitare tutto ciò che nella lingua letteraria ritiene inessenziale all'incarnarsi del reale in parola, tutto ciò che costituisce un impedimento al libero fluire del dettato poetico tra i solidi argini di una forma che cerca sempre di aderire al contenuto semplicemente accogliendolo, senza deformarlo per adattarlo ai propri confini..."
Chiara De Luca esemplifica questa lezione di Sisson nella sua opera di traduzione (amplissima e molto varia) e come una perfetta makar,un'antica bardo scozzese, "trasporta" perfettamente quello che i testi fanno alla loro lingua madre, nella nostra lingua, perché la grande Poesia -come la grande Traduzione- non è fatta di parole inglesi. Non è fatta di parole italiane.
Non e fatta di parole affatto ma di com-passione.
Ecco Charles H. Sisson
Dark wind,dark wind that makes the river black
-Two swans upon it are the serpent's eyes-
Wind through the meadows as you twist your heart.
Ed ecco Chiara De Luca
Vento scuro, vento scuro che annera la riva
-sopra, due cigni sono gli occhi del serpente-
vento solca i pascoli mentre ti torce il cuore.
E in quella riva che si annera tutta la Poesia, che non ha lingua, risplende.
Da un punto di vista tecnico quello di "connettere indissolubilmente" una struttura melodica a un tessuto linguistico e a un contesto visivo.
Da un punto di vista artistico quello di di-vertire nel senso etimologico cioè di svagare, ricreare piacere, distogliendo l'animo da cure e pensieri quotidiani o volgendolo ad altre cure e pensieri in grado di produrre, come direbbe Bonnefoy, "l'imprevedibile irruzione dell'assoluto nella sfera dei sensi".
A ben vedere questo è anche il compito della Traduzione.
L'abilità del traduttore consiste "solo" nell'imitare quello che un testo fa alla lingua madre del poeta e riprodurlo nella lingua della traduzione.
Questo perché se è vero che è la Poesia che fa il poeta, e altrettanto vero che è la poesia a fare il buon traduttore.
Tradurre suppone una pulsione comune che deve essere resa indifferentemente in "corpi" diversi tenendo conto delle proprietà musicali delle parole(nell'una e nell'altra lingua), delle proprietà visive delle stesse(per entrambe le lingue ancora) e del tessuto linguistico; e tutto questo deve essere fatto "eludendo la letteratura" cioè l'apparato culturale che ruota intorno alla parola, al suo suono (ritmo), al suo segno.
Questo passaggio è spiegato mirabilmente da Chiara De Luca, poetessa e traduttrice, nel suo saggio su Charles Hubert Sisson comparso nell'ultimo numero di Poesia (Anno XXVIII, Luglio/Agosto N.306, pgg.29-41):
"...Evitando la letteratura, Sisson vuole evitare tutto ciò che nella lingua letteraria ritiene inessenziale all'incarnarsi del reale in parola, tutto ciò che costituisce un impedimento al libero fluire del dettato poetico tra i solidi argini di una forma che cerca sempre di aderire al contenuto semplicemente accogliendolo, senza deformarlo per adattarlo ai propri confini..."
Chiara De Luca esemplifica questa lezione di Sisson nella sua opera di traduzione (amplissima e molto varia) e come una perfetta makar,un'antica bardo scozzese, "trasporta" perfettamente quello che i testi fanno alla loro lingua madre, nella nostra lingua, perché la grande Poesia -come la grande Traduzione- non è fatta di parole inglesi. Non è fatta di parole italiane.
Non e fatta di parole affatto ma di com-passione.
Ecco Charles H. Sisson
Dark wind,dark wind that makes the river black
-Two swans upon it are the serpent's eyes-
Wind through the meadows as you twist your heart.
Ed ecco Chiara De Luca
Vento scuro, vento scuro che annera la riva
-sopra, due cigni sono gli occhi del serpente-
vento solca i pascoli mentre ti torce il cuore.
E in quella riva che si annera tutta la Poesia, che non ha lingua, risplende.
domenica 5 luglio 2015
Invenzione dell'alfabeto e Scoperta della poesia
Gli studiosi sono arrivati alla conclusione, quasi unanime, che il primo alfabeto scritto della storia umana nacque in Egitto, nel XVIII sec. a.C., per influenza cretese; ciò corrisponderebbe all’ipotesi di Aristide, citata da Plinio, secondo la quale un egiziano chiamato Meno ("luna") inventò l’alfabeto "quindici anni prima del regno di Foroneo, re di Argo".[1]
Dunque prima dell’introduzione dell’alfabeto fenicio, esisteva in Grecia un alfabeto segreto custodito dalle sacerdotesse della Luna : le tre parche e Io, sorella dello stesso Foroneo. Tale alfabeto era strettamente legato al calendario e le sue lettere non erano rappresentate da segni scritti, ma da ramoscelli recisi da alberi di specie diverse, che simboleggiavano i mesi dell’anno.
A Io e alle tre Parche si deve l’invenzione delle cinque vocali dell’ alfabeto e le consonanti B e T; a Palamede, figlio di Nauplio e re dell’isola di Eubea, quella delle altre undici consonanti; Ermete poi nella sua triplice funzione di protettore del logos, delle lettere e dei numeri, riprodusse questi SUONI in SEGNI, ispirandosi alle formazioni cuneiformi delle gru in volo. Ermete introdusse questo sistema dalla Grecia in Egitto codificando il cosiddetto alfabeto pelasgico che fu esportato da suo figlio Evandro in Italia per dare vita ai quindici segni dell’alfabeto latino, e da Cadmo in Beozia.
Alpha fu la prima delle lettere dell’alfabeto poiché alphe significa Onore e alphainein significa Inventare: Cadmo, pur mutando l’ordine delle lettere, conservò la alpha al primo posto, in quanto aleph, nella lingua fenicia, significa bue e la Beozia è la terra dei buoi.[1]
Ricordiamo che una INVENZIONE introduce qualcosa che non esisterebbe senza l’attività creativa dell’ingegno umano (ma diciamo pure, animale). Una buona invenzione serve prevalentemente a risolvere in modo nuovo ed originale un problema (tecnico) o a migliorare un processo. Qui il “problema” era trasferire dei suoni in segni e il “processo” da migliorare era memorizzare per trasmettere correttamente. Come è evidente, tutto queste cose- i suoni, la memoria, i segni, gli alberi- sono strettamente legate al nostro rapporto con il tempo e, più concretamente, al susseguirsi delle stagioni : praticamente è la risposta a una esigenza innata di comunicare cosa fare in determinate stagioni (intese in senso lato cioè non solo quelle dell’anno, ma anche della vita, dell’amore, del viaggio e così via); in una parola: pianificare e codificare delle cerimonie per dare un tempo al...Tempo.
Le cinque vocali del primo alfabeto con l’aggiunta della O lunga e della E breve introdotte dai sacerdoti di Apollo, erano i suoni associati alle corde della lira di Apollo. Ermete- protettore degli aedi fino a quando Apollo ne usurpò il ruolo- introdusse, come detto, i segni cuneiformi per riprodurre i suoni. Se ne deduce quindi che l’invenzione della scrittura, in primis, aveva a che fare con il canto, il cunto, il racconto; con i versi, dunque, che da questo momento potevano essere –è proprio il caso di dirlo - “versati” non solo nelle orecchie attraverso il suono, ma anche negli occhi attraverso i segni.
Ogni segno aveva una specifica funzione catalizzante: il processo che si avvantaggiò notevolmente della invenzione dell’alfabeto fu quello mnemonico. I segni, le lettere, degli antichi alfabeti portavano il nome di alberi. Le 13 consonanti, inoltre, erano associate a 13 mesi:
B= Dicembre; betulla o olivo selvatico
L=Gennaio; frassino di montagna
N=Febbraio; frassino
F=Marzo; ontano o corniolo
S=Aprile; salice; SS (Z) prugno selvatico
H=Maggio; biancospino o pero selvatico
D= Giugno; quercia o terebinto
T=Luglio;agrifoglio o quercia spinosa
C=Agosto; noce; CC (Q) melo o sorbolo
M=Settembre; vite
G=Settembre (fine); edera
NG o GN=Ottobre; giunco o palla di neve
R=Novembre; sambuco o mirto
Ognuna delle 5 vocali rappresentava la quarta parte di un anno, precisamente:
O (ginestra) l’equinozio di primavera;
U (erica) il solstizio d’estate;
E (pioppo) l’equinozio di autunno;
A (abete o palma) era l’albero della vita e I (tasso) era l’albero della morte e simboleggiavano assieme il solstizio d’inverno.
Questa successione arborea è implicita nella mitologia greca, latina, nella tradizione sacrale di tutta Europa , della Siria e dell’Asia Minore.[1]
Quello che ora si vuole mostrare è che l’uomo, grazie a tutto ciò, scoprì la Poesia.
A differenza dell’invenzione che, come abbiamo visto, poggia sull’attività creativa dell’ingegno umano, la SCOPERTA ha a che fare con la meraviglia: è quel momento in cui l’uomo viene a conoscenza – anche in modo casuale- di qualcosa esistente in natura, di qualcosa, appunto, che gli viene svelato (o rivelato).
Le lezioni americane tenute ad Harvard da J.L. Borges nel 1967 con il titolo originale di This Craft of Verse sono state raccolte, nella loro traduzione italiana, con il titolo L’invenzione della poesia[2], tradendo, lo spirito delle lezioni stesse e l’idea che Borges aveva della Poesia. Spirito e idea che qui cerchiamo di recuperare.
Craft può essere tradotto in diversi modi: mestiere, arte, abilità, destrezza, nave, fare, costruire; ognuno a suo modo pertinente ma credo che Borges volesse riferirsi alla technè greca quale arte appunto in grado di permettere una scoperta: un’ azione quindi tutta all’interno della Natura. Non a caso la prima delle lezioni porta il titolo L’enigma della Poesia a significare che, come ogni enigma, anche questo deve essere svelato così come avviene per le scoperte. L’invenzione dell’alfabeto e l’enigma del verso quindi consentono di scoprire la Poesia.
Se Leopardi invece di Sempre caro mi fu questo ermo colle avesse scritto, per esempio, con una diversa accentuazione, Caro sempre mi fu quest’ermo colle o Quest’ermo colle mi fu sempre caro probabilmente non avremmo scoperto nulla-tantomeno la poesia- né avremmo corroborato quella nostra particolare percezione che la scoperta poetica è cosa completamente diversa dall’ invenzione di versi.
In realtà, come sosteneva Wittgenstein [3], noi siamo immersi nel linguaggio così come un tempo i nostri antenati erano immersi negli alberi che ricoprivano e proteggevano le terre emerse e le oasi nei deserti. La visione primitiva che si aveva del mondo era dunque questa : terre scoperte sulle quali si cacciava e si rischiava di essere cacciati; boschi dove, se inseguiti, si cercava rifugio o dove si inseguivano prede che cercavano riparo; caverne dove si passava la notte al sicuro raccontando storie o rappresentandole sulle pareti alla luce fluttuante di un fuoco.
Come sappiamo, per Wittgenstein il linguaggio è una visione del mondo (5.6 I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo); il linguaggio è, cioè, una specie di plastico che rappresenta il mondo attraverso proposizioni sensate, ma anche con immagini o modelli tridimensionali (i versi opportunamente...scolpiti), che possono raffigurare, più o meno correttamente, stati di cose. C'è però una condizione fondamentale perché il linguaggio possa parlare del mondo ed è che mondo e linguaggio condividano la stessa forma logica. Quest'ultima non può essere detta, in quanto non si riferisce a nessun fatto del mondo, ma è piuttosto la condizione del riferimento, che può essere solo mostrata. Per questo la filosofia si trova, sempre secondo Wittgenstein, in una condizione paradossale perché le stesse proposizioni con cui descrive un dato fatto si rivelano destituite di ogni senso e il Tractatus si chiude con un movimento di autoannullamento: "Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate (unsinnig), se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v'è salito). Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo" e "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere" [3]. Anzi Wittgenstein si spinge oltre e in una delle sue lettere rivendica alla poesia l’unica possibile forma di espressione per mostrare e non dire (cioè tacere) la sua filosofia, proprio come si mostrano i ramoscelli recisi da alberi o gli stormi di uccelli in volo.
Noi siamo quindi immersi nella Poesia come un ramoscello è immerso nel suono o, come mirabilmente sintetizzato da Plotino, un corpo è immerso nell’Anima [4]. Per questo la Poesia può essere solo scoperta, mai inventata.
Ho iniziato con gli alberi questo post e con loro voglio terminare facendo notare quanti pochi siano stati i poeti italiani che li abbiano descritti, citati ed usati quali suoni, parole e segni della loro poesia. Si, c’è il verde melograno coi bei vermigli fior, e qualche altro sporadico richiamo, ma a conti fatti sono veramente pochi i poeti italiani che hanno riempito la loro Poesia di alberi tanto che Leonardo Sciascia nella sua prefazione alle Storie e leggende degli alberi di J. Brosse [5] chiosa:
La letteratura italiana è povera di alberi...Forse D’Annunzio è, in otto secoli di letteratura, lo scrittore che nomina più alberi; ma si ha il sospetto che la sua conoscenza si fermi appunto al nome, ai nomi: per suggestione di sillabe, per ricchezza ed eco di suono, per ricerca di onomatopee e vibrazioni- e insomma per sensualità di ascolto più che di visione...Dopo D’Annunzio, [Lucio] Piccolo è forse il poeta italiano che più stormisce di alberi, nei suoi versi: ma alberi conosciuti ed amati, che avrebbe potuto descrivere e classificare scientificamente ed anche con quel tanto di inneffabile, di misterioso...Nelle sue poesie Piccolo chiedeva ai suoi alberi di cogliere l’anima notturna, l’essenza magica, nefasta a volte e a volte benefica dello scorrere del tempo, delle stagioni e degli anni, o solo conservare tra i rami, come dei nidi, tutti quei significati che venivano dati alle cerimonie umane o che forse grazie a quegli alberi assumevano il loro vero significato. Si pensi ad esempio ad una delle poesie di Piccolo più famose: Plumelia. [ 6].
Da buon siciliano Piccolo sapeva bene che la plumelia sporgeva dal balcone di casa di ogni palermitano degno di questo nome per averla ereditata in linea materna: ...Le mamme, infatti, procuravano le talee alle figlie maritande perché si portassero dietro quell’odore di casa in cui erano cresciute.[7]
Il barone e raffinato poeta, cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, intitolò Plumelia il suo libro di poesie stampato nel 1967, ma con un appunto: «noi palermitani la chiamiamo pomelia: una stortura, forse, ma pittoresca perché il suo fiore sa di pomo ed ha la purezza della camelia».
Le plumerie vivono e fioriscono in tutte le aree a clima caldo umido del pianeta: il famoso “lei”, la tipica ghirlanda hawaiana di benvenuto, è fatta con i fiori della pumèlia! Fino ai primi del Novecento con i fiori di casa si facevano i bouquets delle spose, al posto della zagara.
Nei mesi invernali si usavano i gusci delle uova a protezione dei futuri germogli: il guscio proteggeva dalla grandine gli apici, l’apertura alla base creava quella giusta ventilazione che evitava l’eccessiva condensa dannosa per la futura gemma.
Le nonne prendevano in giro i più piccoli raccontando che quello era l’albero delle uova bazzotte, ma pur sempre ciuruse per i piccoli palermitani. [7]
I suoni, la memoria, i segni. Una cerimonia, la vita. Ecco la Poesia.
Plumelia
L’arbusto che fu salvo dalla guazza
dell’invernata scialba
sul davanzale innanzi al monte
crespo di pini e rupi – più tardi, tempo
d’estate, entra l’aria pastorale
e le rapisce il fresco la creta
grave di fonte – nelle notti
di polvere e calura
ventosa, quando non ha più voce
il canale riverso, smania
la fiamma del fanale
nel carcere di vetro e l’apertura
sconnessa – la plumelia bianca
e avorio, il fiore
serbato a gusci d’uovo su lo stecco,
lascia che lo prenda
furia sitibonda
di raffica cui manca
dono di pioggia,
pure il rovo ebbe le sue piegature
di dolcezza, anche il pruno il suo candore.
Ma con tutto il dovuto rispetto per Sciascia, oltre a Piccolo, e di sicuro prima di lui, c’è stato un altro poeta ricco di alberi e non solo: ancora una volta , come ebbe a dire Leonardo Sinisgalli, ...bisognerà rendere giustizia al vecchio Govoni...[8] e più che mai bisogna farlo in quest’anno celebrativo dei cinquanta anni dalla morte del grande poeta ferrarese- ingiustamente e inopportunamente dimenticato- avvenuta appunto nell’Ottobre del 1965.
Ho già avuto modo di ricordare Corrado Govoni in un precedente post [9] e di aver evidenziato la forte analogia tra i suoi temi e il suo canto con quelli tipicamente espressivi della spiritualità orientale: i suoi quattro Ventagli giapponesi del 1903 [10] ne sono un limpido esempio. Questa sua comunanza di temi e di approccio alla poesia perdura per tutta la sua attività poetica come testimoniato da un’altra poesia, Effusione, pubblicata nel 1916 sulla rivista letteraria La Diana in un numero dedicato proprio alla poesia giapponese.
Lui stesso nel testamento letterario [11] si racconta così:
Sono nato in un paesuccio del ferrarese, tra il Volano ed il Po, di meno di duemila anime, dal poetico biblico nome di Tamara che significa palma: benché da taluni il nome di Tamara si voglia far derivare da quello di tamerice, l’arbusto tenace sempreverde resistente al salino di cui si afferma che tutta la zona fosse anticamente popolata, come lido marino che si estendeva dal luogo dove sorge Ferrara fino all’estinta città etrusca di Spina...
Un etimo, una geografia. Una storia precisa.
Che avesse consuetudine con gli alberi e quindi con l’alfabeto, viene sottolineato più avanti sempre nel suo testamento letterario:
...Discendo in ogni modo da un’agiata famiglia di mugnai e di agricoltori. Ed anch’io, nella mia lontana giovinezza, mi dedicai con successo per qualche anno all’agricoltura dei cinquanta ettari di mia proprietà, per il quale esercizio avevo una naturale spiccatissima disposizione...[...] Ma l’inclinazione per la poesia, che fu ed è ancora per me una vera dannazione, ebbe il sopravvento su quella per l’agricoltura...
E Govoni ancora oggi c’incanta con la sua naturale spiccatissima disposizione a inventare un alfabeto recidendo i ramoscelli da alberi di specie diverse e ad osservare-redivivo Ermete dedito all’arte di trasmutare SUONI in SEGNI-la formazione delle oche in volo per permetterci di scoprire ancora una volta la Poesia e con essa emozionarci [12].
Autunno
Triste vento!
Volteggiano come volani
I frutti alati delle samare.
Tra gli alberi il frumento
si stende lontano lontano
Come una verde nevicata d’astri.
Le oche in triangolo vanno
In numeri pari
Verso le paludi.
Addio belle nubi kleksografiche!
Addio bei monti di cinabro!
Scricchiolano sotto i piedi
I piccoli obici delle ghiande
(pensate al figliol prodigo!)
Un triste ritornello fischia sul labro.
Addio belle notti crittografiche!
E il sonno che non viene più…
Oh ma quando ci sarai tu
E metterai nelle lenzuola
Dei mazzetti odorosi di lavanda!
E che dire, per completare, della poesia e dei poeti contemporanei? Quando ormai il suono ha circumnavigato tempi e spazi così vasti non può che tornare a farsi segno archetipo, le lettere ritornano ad essere ramoscelli recisi ed il Poeta stesso non può che diventare albero [13]:
Se tutto dovesse andare bene
Se tutto dovesse andar bene,
ma veramente bene, senza incidenti o crolli,
infine arriverà la tremarella.
Vedo amici più anziani che vibrano,
il mento scosso, le mani inarrestabili.
Parliamo allora di questo movimento,
un vento che soffia da dentro
per scuotere le foglie delle dita
e non si ferma più.
E’ questo stormire neurologico
di fronde che dunque mi attende
se tutto, proprio tutto, dovesse andare bene.
E mi tramuterò in una betulla
o in un cipresso sul bordo del fiume,
con quel tremolare di luci alzate dalla brezza.
Mi farò soffio, mi farò soffiare,
panno lasciato al sole ad asciugare.
Riferimenti
[1] -R. Graves, I miti greci, Longanesi , 1954;
[2]- J.L. Borges, L’invenzione della poesia, Mondadori, 2004;
[3] –L.J. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Torino, Einaudi, 1998;
[4] -P. Hadot, Plotino o la semplicità dello sguardo, Einaudi 1999;
[5] – J. Brosse, Storie e leggende degli alberi,Edizione Studio Tesi, 1989;
[6] - L. Piccolo, Plumelia, la seta il raggio verde, Libri Scheiwiller, 2007;
[7] -http://www.rosalio.it/2010/05/13/pumelia/
[8]- L. Sinisgalli, Le età della Luna, Mondadori, 1962;
[9] -http://www.thestrawberrypost.blogspot.it/
[10]- C. Govoni, Fiale, Lumachi, Firenze 1903;
[11]- S. Raimondi, Il testamento letterario di Corrado Govoni, in Ferrara voci di una città, n° 15 12/2001
[12]-C. Govoni, Poesie Elettriche, a cura di G. La Sala, Quodlibet, 2008
[13]- V. Magrelli, Sangue amaro, Einaudi 2014
Dunque prima dell’introduzione dell’alfabeto fenicio, esisteva in Grecia un alfabeto segreto custodito dalle sacerdotesse della Luna : le tre parche e Io, sorella dello stesso Foroneo. Tale alfabeto era strettamente legato al calendario e le sue lettere non erano rappresentate da segni scritti, ma da ramoscelli recisi da alberi di specie diverse, che simboleggiavano i mesi dell’anno.
A Io e alle tre Parche si deve l’invenzione delle cinque vocali dell’ alfabeto e le consonanti B e T; a Palamede, figlio di Nauplio e re dell’isola di Eubea, quella delle altre undici consonanti; Ermete poi nella sua triplice funzione di protettore del logos, delle lettere e dei numeri, riprodusse questi SUONI in SEGNI, ispirandosi alle formazioni cuneiformi delle gru in volo. Ermete introdusse questo sistema dalla Grecia in Egitto codificando il cosiddetto alfabeto pelasgico che fu esportato da suo figlio Evandro in Italia per dare vita ai quindici segni dell’alfabeto latino, e da Cadmo in Beozia.
Alpha fu la prima delle lettere dell’alfabeto poiché alphe significa Onore e alphainein significa Inventare: Cadmo, pur mutando l’ordine delle lettere, conservò la alpha al primo posto, in quanto aleph, nella lingua fenicia, significa bue e la Beozia è la terra dei buoi.[1]
Ricordiamo che una INVENZIONE introduce qualcosa che non esisterebbe senza l’attività creativa dell’ingegno umano (ma diciamo pure, animale). Una buona invenzione serve prevalentemente a risolvere in modo nuovo ed originale un problema (tecnico) o a migliorare un processo. Qui il “problema” era trasferire dei suoni in segni e il “processo” da migliorare era memorizzare per trasmettere correttamente. Come è evidente, tutto queste cose- i suoni, la memoria, i segni, gli alberi- sono strettamente legate al nostro rapporto con il tempo e, più concretamente, al susseguirsi delle stagioni : praticamente è la risposta a una esigenza innata di comunicare cosa fare in determinate stagioni (intese in senso lato cioè non solo quelle dell’anno, ma anche della vita, dell’amore, del viaggio e così via); in una parola: pianificare e codificare delle cerimonie per dare un tempo al...Tempo.
Le cinque vocali del primo alfabeto con l’aggiunta della O lunga e della E breve introdotte dai sacerdoti di Apollo, erano i suoni associati alle corde della lira di Apollo. Ermete- protettore degli aedi fino a quando Apollo ne usurpò il ruolo- introdusse, come detto, i segni cuneiformi per riprodurre i suoni. Se ne deduce quindi che l’invenzione della scrittura, in primis, aveva a che fare con il canto, il cunto, il racconto; con i versi, dunque, che da questo momento potevano essere –è proprio il caso di dirlo - “versati” non solo nelle orecchie attraverso il suono, ma anche negli occhi attraverso i segni.
Ogni segno aveva una specifica funzione catalizzante: il processo che si avvantaggiò notevolmente della invenzione dell’alfabeto fu quello mnemonico. I segni, le lettere, degli antichi alfabeti portavano il nome di alberi. Le 13 consonanti, inoltre, erano associate a 13 mesi:
B= Dicembre; betulla o olivo selvatico
L=Gennaio; frassino di montagna
N=Febbraio; frassino
F=Marzo; ontano o corniolo
S=Aprile; salice; SS (Z) prugno selvatico
H=Maggio; biancospino o pero selvatico
D= Giugno; quercia o terebinto
T=Luglio;agrifoglio o quercia spinosa
C=Agosto; noce; CC (Q) melo o sorbolo
M=Settembre; vite
G=Settembre (fine); edera
NG o GN=Ottobre; giunco o palla di neve
R=Novembre; sambuco o mirto
Ognuna delle 5 vocali rappresentava la quarta parte di un anno, precisamente:
O (ginestra) l’equinozio di primavera;
U (erica) il solstizio d’estate;
E (pioppo) l’equinozio di autunno;
A (abete o palma) era l’albero della vita e I (tasso) era l’albero della morte e simboleggiavano assieme il solstizio d’inverno.
Questa successione arborea è implicita nella mitologia greca, latina, nella tradizione sacrale di tutta Europa , della Siria e dell’Asia Minore.[1]
Quello che ora si vuole mostrare è che l’uomo, grazie a tutto ciò, scoprì la Poesia.
A differenza dell’invenzione che, come abbiamo visto, poggia sull’attività creativa dell’ingegno umano, la SCOPERTA ha a che fare con la meraviglia: è quel momento in cui l’uomo viene a conoscenza – anche in modo casuale- di qualcosa esistente in natura, di qualcosa, appunto, che gli viene svelato (o rivelato).
Le lezioni americane tenute ad Harvard da J.L. Borges nel 1967 con il titolo originale di This Craft of Verse sono state raccolte, nella loro traduzione italiana, con il titolo L’invenzione della poesia[2], tradendo, lo spirito delle lezioni stesse e l’idea che Borges aveva della Poesia. Spirito e idea che qui cerchiamo di recuperare.
Craft può essere tradotto in diversi modi: mestiere, arte, abilità, destrezza, nave, fare, costruire; ognuno a suo modo pertinente ma credo che Borges volesse riferirsi alla technè greca quale arte appunto in grado di permettere una scoperta: un’ azione quindi tutta all’interno della Natura. Non a caso la prima delle lezioni porta il titolo L’enigma della Poesia a significare che, come ogni enigma, anche questo deve essere svelato così come avviene per le scoperte. L’invenzione dell’alfabeto e l’enigma del verso quindi consentono di scoprire la Poesia.
Se Leopardi invece di Sempre caro mi fu questo ermo colle avesse scritto, per esempio, con una diversa accentuazione, Caro sempre mi fu quest’ermo colle o Quest’ermo colle mi fu sempre caro probabilmente non avremmo scoperto nulla-tantomeno la poesia- né avremmo corroborato quella nostra particolare percezione che la scoperta poetica è cosa completamente diversa dall’ invenzione di versi.
In realtà, come sosteneva Wittgenstein [3], noi siamo immersi nel linguaggio così come un tempo i nostri antenati erano immersi negli alberi che ricoprivano e proteggevano le terre emerse e le oasi nei deserti. La visione primitiva che si aveva del mondo era dunque questa : terre scoperte sulle quali si cacciava e si rischiava di essere cacciati; boschi dove, se inseguiti, si cercava rifugio o dove si inseguivano prede che cercavano riparo; caverne dove si passava la notte al sicuro raccontando storie o rappresentandole sulle pareti alla luce fluttuante di un fuoco.
Come sappiamo, per Wittgenstein il linguaggio è una visione del mondo (5.6 I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo); il linguaggio è, cioè, una specie di plastico che rappresenta il mondo attraverso proposizioni sensate, ma anche con immagini o modelli tridimensionali (i versi opportunamente...scolpiti), che possono raffigurare, più o meno correttamente, stati di cose. C'è però una condizione fondamentale perché il linguaggio possa parlare del mondo ed è che mondo e linguaggio condividano la stessa forma logica. Quest'ultima non può essere detta, in quanto non si riferisce a nessun fatto del mondo, ma è piuttosto la condizione del riferimento, che può essere solo mostrata. Per questo la filosofia si trova, sempre secondo Wittgenstein, in una condizione paradossale perché le stesse proposizioni con cui descrive un dato fatto si rivelano destituite di ogni senso e il Tractatus si chiude con un movimento di autoannullamento: "Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate (unsinnig), se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v'è salito). Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo" e "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere" [3]. Anzi Wittgenstein si spinge oltre e in una delle sue lettere rivendica alla poesia l’unica possibile forma di espressione per mostrare e non dire (cioè tacere) la sua filosofia, proprio come si mostrano i ramoscelli recisi da alberi o gli stormi di uccelli in volo.
Noi siamo quindi immersi nella Poesia come un ramoscello è immerso nel suono o, come mirabilmente sintetizzato da Plotino, un corpo è immerso nell’Anima [4]. Per questo la Poesia può essere solo scoperta, mai inventata.
Ho iniziato con gli alberi questo post e con loro voglio terminare facendo notare quanti pochi siano stati i poeti italiani che li abbiano descritti, citati ed usati quali suoni, parole e segni della loro poesia. Si, c’è il verde melograno coi bei vermigli fior, e qualche altro sporadico richiamo, ma a conti fatti sono veramente pochi i poeti italiani che hanno riempito la loro Poesia di alberi tanto che Leonardo Sciascia nella sua prefazione alle Storie e leggende degli alberi di J. Brosse [5] chiosa:
La letteratura italiana è povera di alberi...Forse D’Annunzio è, in otto secoli di letteratura, lo scrittore che nomina più alberi; ma si ha il sospetto che la sua conoscenza si fermi appunto al nome, ai nomi: per suggestione di sillabe, per ricchezza ed eco di suono, per ricerca di onomatopee e vibrazioni- e insomma per sensualità di ascolto più che di visione...Dopo D’Annunzio, [Lucio] Piccolo è forse il poeta italiano che più stormisce di alberi, nei suoi versi: ma alberi conosciuti ed amati, che avrebbe potuto descrivere e classificare scientificamente ed anche con quel tanto di inneffabile, di misterioso...Nelle sue poesie Piccolo chiedeva ai suoi alberi di cogliere l’anima notturna, l’essenza magica, nefasta a volte e a volte benefica dello scorrere del tempo, delle stagioni e degli anni, o solo conservare tra i rami, come dei nidi, tutti quei significati che venivano dati alle cerimonie umane o che forse grazie a quegli alberi assumevano il loro vero significato. Si pensi ad esempio ad una delle poesie di Piccolo più famose: Plumelia. [ 6].
Da buon siciliano Piccolo sapeva bene che la plumelia sporgeva dal balcone di casa di ogni palermitano degno di questo nome per averla ereditata in linea materna: ...Le mamme, infatti, procuravano le talee alle figlie maritande perché si portassero dietro quell’odore di casa in cui erano cresciute.[7]
Il barone e raffinato poeta, cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, intitolò Plumelia il suo libro di poesie stampato nel 1967, ma con un appunto: «noi palermitani la chiamiamo pomelia: una stortura, forse, ma pittoresca perché il suo fiore sa di pomo ed ha la purezza della camelia».
Le plumerie vivono e fioriscono in tutte le aree a clima caldo umido del pianeta: il famoso “lei”, la tipica ghirlanda hawaiana di benvenuto, è fatta con i fiori della pumèlia! Fino ai primi del Novecento con i fiori di casa si facevano i bouquets delle spose, al posto della zagara.
Nei mesi invernali si usavano i gusci delle uova a protezione dei futuri germogli: il guscio proteggeva dalla grandine gli apici, l’apertura alla base creava quella giusta ventilazione che evitava l’eccessiva condensa dannosa per la futura gemma.
Le nonne prendevano in giro i più piccoli raccontando che quello era l’albero delle uova bazzotte, ma pur sempre ciuruse per i piccoli palermitani. [7]
I suoni, la memoria, i segni. Una cerimonia, la vita. Ecco la Poesia.
Plumelia
L’arbusto che fu salvo dalla guazza
dell’invernata scialba
sul davanzale innanzi al monte
crespo di pini e rupi – più tardi, tempo
d’estate, entra l’aria pastorale
e le rapisce il fresco la creta
grave di fonte – nelle notti
di polvere e calura
ventosa, quando non ha più voce
il canale riverso, smania
la fiamma del fanale
nel carcere di vetro e l’apertura
sconnessa – la plumelia bianca
e avorio, il fiore
serbato a gusci d’uovo su lo stecco,
lascia che lo prenda
furia sitibonda
di raffica cui manca
dono di pioggia,
pure il rovo ebbe le sue piegature
di dolcezza, anche il pruno il suo candore.
Ma con tutto il dovuto rispetto per Sciascia, oltre a Piccolo, e di sicuro prima di lui, c’è stato un altro poeta ricco di alberi e non solo: ancora una volta , come ebbe a dire Leonardo Sinisgalli, ...bisognerà rendere giustizia al vecchio Govoni...[8] e più che mai bisogna farlo in quest’anno celebrativo dei cinquanta anni dalla morte del grande poeta ferrarese- ingiustamente e inopportunamente dimenticato- avvenuta appunto nell’Ottobre del 1965.
Ho già avuto modo di ricordare Corrado Govoni in un precedente post [9] e di aver evidenziato la forte analogia tra i suoi temi e il suo canto con quelli tipicamente espressivi della spiritualità orientale: i suoi quattro Ventagli giapponesi del 1903 [10] ne sono un limpido esempio. Questa sua comunanza di temi e di approccio alla poesia perdura per tutta la sua attività poetica come testimoniato da un’altra poesia, Effusione, pubblicata nel 1916 sulla rivista letteraria La Diana in un numero dedicato proprio alla poesia giapponese.
Lui stesso nel testamento letterario [11] si racconta così:
Sono nato in un paesuccio del ferrarese, tra il Volano ed il Po, di meno di duemila anime, dal poetico biblico nome di Tamara che significa palma: benché da taluni il nome di Tamara si voglia far derivare da quello di tamerice, l’arbusto tenace sempreverde resistente al salino di cui si afferma che tutta la zona fosse anticamente popolata, come lido marino che si estendeva dal luogo dove sorge Ferrara fino all’estinta città etrusca di Spina...
Un etimo, una geografia. Una storia precisa.
Che avesse consuetudine con gli alberi e quindi con l’alfabeto, viene sottolineato più avanti sempre nel suo testamento letterario:
...Discendo in ogni modo da un’agiata famiglia di mugnai e di agricoltori. Ed anch’io, nella mia lontana giovinezza, mi dedicai con successo per qualche anno all’agricoltura dei cinquanta ettari di mia proprietà, per il quale esercizio avevo una naturale spiccatissima disposizione...[...] Ma l’inclinazione per la poesia, che fu ed è ancora per me una vera dannazione, ebbe il sopravvento su quella per l’agricoltura...
E Govoni ancora oggi c’incanta con la sua naturale spiccatissima disposizione a inventare un alfabeto recidendo i ramoscelli da alberi di specie diverse e ad osservare-redivivo Ermete dedito all’arte di trasmutare SUONI in SEGNI-la formazione delle oche in volo per permetterci di scoprire ancora una volta la Poesia e con essa emozionarci [12].
Autunno
Triste vento!
Volteggiano come volani
I frutti alati delle samare.
Tra gli alberi il frumento
si stende lontano lontano
Come una verde nevicata d’astri.
Le oche in triangolo vanno
In numeri pari
Verso le paludi.
Addio belle nubi kleksografiche!
Addio bei monti di cinabro!
Scricchiolano sotto i piedi
I piccoli obici delle ghiande
(pensate al figliol prodigo!)
Un triste ritornello fischia sul labro.
Addio belle notti crittografiche!
E il sonno che non viene più…
Oh ma quando ci sarai tu
E metterai nelle lenzuola
Dei mazzetti odorosi di lavanda!
E che dire, per completare, della poesia e dei poeti contemporanei? Quando ormai il suono ha circumnavigato tempi e spazi così vasti non può che tornare a farsi segno archetipo, le lettere ritornano ad essere ramoscelli recisi ed il Poeta stesso non può che diventare albero [13]:
Se tutto dovesse andare bene
Se tutto dovesse andar bene,
ma veramente bene, senza incidenti o crolli,
infine arriverà la tremarella.
Vedo amici più anziani che vibrano,
il mento scosso, le mani inarrestabili.
Parliamo allora di questo movimento,
un vento che soffia da dentro
per scuotere le foglie delle dita
e non si ferma più.
E’ questo stormire neurologico
di fronde che dunque mi attende
se tutto, proprio tutto, dovesse andare bene.
E mi tramuterò in una betulla
o in un cipresso sul bordo del fiume,
con quel tremolare di luci alzate dalla brezza.
Mi farò soffio, mi farò soffiare,
panno lasciato al sole ad asciugare.
Riferimenti
[1] -R. Graves, I miti greci, Longanesi , 1954;
[2]- J.L. Borges, L’invenzione della poesia, Mondadori, 2004;
[3] –L.J. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Torino, Einaudi, 1998;
[4] -P. Hadot, Plotino o la semplicità dello sguardo, Einaudi 1999;
[5] – J. Brosse, Storie e leggende degli alberi,Edizione Studio Tesi, 1989;
[6] - L. Piccolo, Plumelia, la seta il raggio verde, Libri Scheiwiller, 2007;
[7] -http://www.rosalio.it/2010/05/13/pumelia/
[8]- L. Sinisgalli, Le età della Luna, Mondadori, 1962;
[9] -http://www.thestrawberrypost.blogspot.it/
[10]- C. Govoni, Fiale, Lumachi, Firenze 1903;
[11]- S. Raimondi, Il testamento letterario di Corrado Govoni, in Ferrara voci di una città, n° 15 12/2001
[12]-C. Govoni, Poesie Elettriche, a cura di G. La Sala, Quodlibet, 2008
[13]- V. Magrelli, Sangue amaro, Einaudi 2014
lunedì 8 giugno 2015
Rovesciare il diario ovvero raccontare storie
L’osservazione di ciò che ci circonda –il mondo o la realtà a seconda se ci sentiamo rispettivamente osservatori o osservati (cacciatori o prede)- non è una pratica ingenua e spontanea come quella, ad esempio, dell’insetto di Uexküll [1]: noi siamo il risultato di un repertorio ben preciso di percezioni ed osservazioni possibili.
Usando un termine caro ad Uexküll, noi “siamo” il nostro Umwelt. Questo termine è stato spesso tradito da una traduzione- l’Ambiente- non corretta. In realtà oltre all’ “uso” darwiniano che l’ambiente fa della specie, esiste un uso, contrario, che la specie fa dell’ambiente: questo è propriamente Umwelt: cosa è l’ambiente per noi e come lo usiamo. Così è vero che noi impariamo quello che vediamo, ma vediamo anche quello che conosciamo.
Uexküll ritiene che gli esseri viventi non siano costituiti da un insieme di componenti (cellule, neuroni, organi,...) che si mettono, per così dire, in moto grazie ad una particolare loro combinazione , ma che si strutturino a partire da un obiettivo che determina la “combinazione” , e la messa in moto, in modo centrifugo.
Questo dunque varrebbe anche per la creatività umana e per i prodotti culturali dell’uomo tanto quelli tecnico-scientifici che quelli artistici: la creazione (l’atto, il poiein) si struttura a partire da una vera e propria “intenzione”, qualcosa che viene prima della percezione sensibile, vale a dire qualcosa di simile alla perception visionaria di William Blake [2].
In particolare l’artista- poeta o pittore- nella sua perception di ciò che lo circonda non guarda con gli occhi ma attraverso di essi, non percepisce gli oggetti come una sequenza di sintagmi visivi, in modo lineare ma con lo sguardo penetra, per così dire, l’oggetto e su di esso proietta il suo “potere magico” che è quello di trovargli una identità e di conferirgli un’essenza (come già ricordato nel precedente Post su Tranströmer).
Blake chiama, questa forma di proiezione, Vortice e parla di un meccanismo di “rotazione all’indietro” per cui l’immagine dell’oggetto percepito dall’occhio “fisico” attraversando questo vortice rimbalza su un occhio spirituale-mentale dove incontra il proprio archetipo inalterabile ed incorruttibile: così una nave può diventare il cervo della vela o l’orso della chiglia, perifrasi che indicano la sua maestosità o la sua forza. Addirittura la Stella può diventare una poiana e l’Uomo una foglia autunnale aggrappata al ramo.
E’ come se Blake avesse anticipato quello che Uexküll avrebbe detto a proposito di due processi percettivi: il primo correlato all’esperienza sensibile e che usa la registrazione di segnali percepiti dai sensi in una sequenza di azioni nel modo reale (p.es. l’intuizione della strada da percorrere per arrivare in un luogo); il secondo, più propriamente innato, per il quale l’apparenza del mondo sarebbe data in modo “quasi magico” e pertanto suscettibile di essere immaginato, creato e ricreato come per esempio l’istinto migratore o il linguaggio.
Forse lo stesso linguaggio inteso come l’atto di raccontare per “canto” o per “immagini” emerge in una società di cacciatori come esperienza di decifrazione delle tracce: il cacciatore sarebbe stato il primo ad usare il linguaggio in cui era immerso, il suo Umwelt, per raccontare intorno a un fuoco o sulle pareti di una caverna, storie: quella di seguire, istintivamente, le tracce e di prevedere una serie coerente di eventi o ancora quella di un dio che appare in cielo e che viene oscurato da un “buco nero”.
Questi racconti sono intrecci di intuizione e istinto, il risultato di percezioni fisiche e magiche : ...che io dipinga o scriva io perseguo il medesimo scopo che è quello di raccontare storie, diceva Buzzati; storie, come quella che Salinger riporta in Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour. Introduzione [3] e che fa proprio al caso nostro per riassumere tutto quello che abbiamo detto fin qui e che ci introdurrà nel mondo di Marco Tani.
“Il Duca Mu di Chin disse a Po Lo:-Ora tu sei avanti negli anni. C’è qualche membro della tua famiglia che io possa usare al tuo posto nella ricerca dei cavalli?-Po Lo rispose:-Ti puoi scegliere un buon cavallo osservandone la conformazione e l’aspetto. Ma il cavallo superlativo-quello che non solleva polvere e non lascia tracce- è qualcosa di evanescente e fuggevole, elusivo come l’aria impalpabile. I miei figlioli hanno talento, un discreto talento; sanno riconoscere un buon cavallo quando ne vedono uno, ma non sanno riconoscere un cavallo superlativo. Ho un amico, però, un certo Chiu-fang Kao, un venditore ambulante di foraggi, che in fatto di cavalli non è per nulla da meno di me. Ti prego, vallo a trovare.
Il Duca Mu seguì il consiglio e, in seguito, inviò Chu-fang alla ricerca di un destriero. Tre mesi più tardi egli tornò dicendo che ne aveva trovato uno. - Ora si trova a Shach’iu,- aggiunse. - Che tipo di cavallo è?-chiese il Duca. - Oh, è una cavalla di color bruno grigiastro,-fu la risposta. E invece quando si mandò qualcuno a prenderlo si scoprì che l’animale era uno stallone nero come la notte! Molto dispiaciuto il Duca mandò a chiamare Po Lo.-Quel tuo amico,-gli disse,-che avevo incaricato di ricercare un cavallo, ha combinato un bel guaio. Ma se non sa neppure distinguere il colore o il sesso di un animale! Cosa mai può sapere dei cavalli?- Po Lo emise un sospiro di soddisfazione. - Si è veramente comportato così?- gridò. - Eh, allora è diecimila volte più bravo di me. Non c’è paragone tra me e lui. Ciò che interessa a Kao è il meccanismo spirituale. Per assicurarsi l’essenziale dimentica i dettagli più comuni; tutto intento alle qualità interiori, perde di vista le esteriori. Egli vede ciò che vuole vedere e non ciò che non gli interessa. Egli guarda le cose che si devono guardare e tralascia quelle che non hanno alcuna importanza. Kao è un così bravo giudice di cavalli che ha in sé le qualità per giudicare cose ancora migliori che i cavalli.
Quando il cavallo arrivò, non vi fu più alcun dubbio, era proprio eccezionale.”
Il racconto è una parabola sulla incertezza delle scienze umane e del cosiddetto sapere , una incertezza tanto paradossale se si pensa che questo tipo di conoscenza ha il suo punto di forza proprio nell’osservazione e, da Galileo in poi, nell’ “esperienza ragionata”. Ma il racconto è anche la denuncia disperata di quanto sia sempre più difficile trovare qualcuno in grado di leggere segni invisibili.
La capacità di riconoscere un cavallo difettoso dai garretti- scrive Carlo Ginzburg [4]- un temporale in arrivo dall’improvviso mutare del vento, una intenzione ostile in un viso che si adombra, non veniva certo appresa sui trattati di mascalcia, di metereologia o di psicologia...Queste forme di sapere erano più ricche di qualsiasi codificazione scritta; non venivano apprese dai libri ma dalla viva voce, dai gesti, dalle occhiate; si fondavano su sottigliezze certo non formalizzabili spesso addirittura non traducibili verbalmente; costituivano il patrimonio unitario ...di uomini e donne...
Chi scrutava il cielo avrebbe predetto il tempo e se si sarebbe potuto salire in montagna o uscire per mare: si guardava al cielo per capire la terra e, viceversa, la terra per capire il cielo. Ma chi sono oggi i veggenti?
Il vero poeta o il vero pittore ...non è in pratica l’unico veggente che abbiamo sulla terra? Non è certo un veggente lo scienziato, né, lo nego con tutte le mie forze, lo psichiatra....[e] in un veggente qual è l’organo che sopporta le maggiori ingiurie? Gli occhi, certamente.[3]
Per comprendere o decifrare- se è proprio necessario farlo- il nucleo magmatico e sfaccettato dell’opera di Marco Tani bisogna partire da qui, dagli “occhi” l’organo che sopporta le maggiori ingiurie ma che è in grado di produrre la bellezza.
Quando si guarda attraverso gli occhi la ...complessità si dissolve e, a differenza di quello che si crede, non è il lato emergente ad essere osservato, ma quello soggiacente: l’Anima. Allo scienziato spetta intuire ad esempio che il tutto è più della somma delle parti, ed anche differente [5] e quindi tentare una comprensione, ma all’artista-veggente non resta che percepire l’ Anima e riaderire così all’istinto, alla Vita.
Nella raccolta poetica Diario a rovescio (Edizioni La Carmelina, 2014) di Marco Tani [6], si conta per 20 volte la parola “vita” e per 15 volte la parola “anima”: questo è il paesaggio che appare attraverso gli occhi del veggente e di questo paesaggio ci racconta Marco Tani in immagini e parole, sia cioè tracciando segni sulle pareti della caverna alla luce traballante del fuoco, che cantando intorno allo stesso fuoco.
Come un cacciatore Tani segue le tracce della contemporaneità, dell’attualità per prevedere una serie coerente di eventi. Il cielo natale è sotto gli occhi di tutti, i segni (le tracce) sono evidenti: è da poco passata la “preda” il cacciatore si inginocchia per valutare la freschezza delle orme, per distinguere meglio il verso di percorrenza; alza lo sguardo verso quegli alberi in lontananza dove ci si addentrata solo per nascondersi, per sfuggire alla cattura; coglie con un’occhiata un ramo spezzato da poco che oscilla ancora, avverte un profumo che il vento si affretta a disperdere, sente e vede uno zoccolo illuminato da una lama di luce: si ferma e decide di aspettare: lui è paziente, lui ricorda che c'è solo un peccato capitale: l'impazienza e che, a causa di questa, gli uomini sono stati cacciati dal paradiso...[7] ed è per lo stesso motivo che non vi fanno ritorno.
L’artista-veggente, come il cacciatore, è una anima paziente. Si accampa, magari al riparo in una caverna. Qui accende un fuoco e mette a bollire dell’acqua in una pentola con il manico; cuocerà del riso. L’acqua comincerà a bollire e a tornare, vapore, verso l’alto per ricominciare un ciclo. Il chicco di riso è simbolo di nutrimento fisico nonché spirituale (Vita) ed è allo stesso tempo simbolo del centro del nostro essere che deve essere particolarmente curato e protetto nonché a sua volta alimentato dagli influssi discendenti dal cielo (Anima).
Vita e Anima. Acqua, vapore che sale, chicco di riso, lo spirito che scende dal cielo e che penetra nel cuore aperto: i due kanji riprodotti in ogni pagina della raccolta di Tani.
Non è sempre vero che l’anima sale/che vuole imitare i gabbiani/volando più su/e piomba improvvisa sul cibo nel mare./ E’ il corpo che parte,/ed ecco che allora l’altra/rimane in disparte/quaggiù ad annotare/l’odore del baccalà fritto/che porta più in alto di quello del mare./ Per questo la vita qui/resta al di qua, protetta dai portici di Sotto Ripa,/nei vicoli dove sussulta attraccata,/mia gassa d’amante nella città.
Così racconta in Gassa d’amante (pg. 11) Tani. Per questo lo scafo dell’anima va sempre protetto e assicurato a tutto ciò che lo fa sussultare come una piccola barca nel porto, legata con un semplice nodo come una gassa d’amante generalmente sicura, ma che può essere facilmente sciolta e che soprattutto non soffoca.
La Vita e l’Anima sono legate da questo dolce nodo; anche uno sguardo può fare altrettanto e l’artista-veggente questo, istintivamente, lo sa e guarda nel modo in cui si evita di guardare le Pleiadi per vederle (pg.14):
Ti vedo meglio se guardo invece/altrove appena un pò più in là/come si guardano le Pleiadi/che ti si mostrano di più/se sposti un po' lo sguardo/e sfuggono al contrario/quando le cerchi in cielo/confuse dentro al blu./Così fai tu su questa nuda Terra,/cammini con l’anima al di fuori/perché gli sciocchi/credano/che ciò che mostri/è pelle.
e dice e scrive nel modo in cui non si dice e non si scrive per conoscere risposte (Viola d'Ingres pg. 21):
Dell’anima in corsivo/è l’ideogramma/graffito del metrò./Tutta risuona di un’effe di violino/la doppia esse della tua schiena/ombrosa./Il punto di domanda di una vita./Scrivere non risponde mai.
Prima di qualunque cosa, prima ancora della Vita c’è l’Anima: pochi riescono a riconoscerne le tracce. Alcuni, nella vana speranza di ritrovarle, si appellano alle tecniche più sofisticate, all’incessante tessitura di domande e risposte a cui la scienza di Penelope ci ha abituati ma non evidentemente istruiti e convinti. Così ci lasciamo affascinare ancora e ancora dalla cosiddetta “complessità” del creato incluso quello che noi stessi abbiamo “creato”, dal disegno che appare sul telo funebre di Laerte e che domani, disfatto nella notte, non sarà più quello.
Ma qualcosa resta imperturbabile nel disordine e qualcuno, come Marco Tani, riconosce dalle orme la preda nascosta tra gli alberi li in fondo, al riparo dagli occhi che indagano e da bocche che interrogano; distante dai calendari e dalle pagine dei diari, in fin dei conti, sempre...datate. Lui al contrario sente, avverte e, come fa l’insetto di Uexküll, si lascia cadere dal ramo per cibarsi del nutrimento che scorre tra le vene della Vita, invisibile come il sangue, l’Umwelt in cui noi tutti siamo immersi. L’Anima.
Riferimenti
[1]- Jacob von Uexküll Ambienti animali e ambienti umani Quodlibet (2010)
[2]- William Blake Il matrimonio del Paradiso e dell’Inferno Asterios (2013)
[3]- Jerome D. Salinger Alzate l’architrave carpentieri e Seymour.Introduzione, Einaudi (2003)
[4]- Carlo Ginzburg Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Einaudi, (1986)
[5]-P.W.Anderson Science, New Series, Vol. 177, No. 4047. (Aug. 4, 1972), pp. 393-396.
[6]- Marco Tani Diario a rovescio Edizioni La Carmelina (2014)
[7]- F. Kafka
Usando un termine caro ad Uexküll, noi “siamo” il nostro Umwelt. Questo termine è stato spesso tradito da una traduzione- l’Ambiente- non corretta. In realtà oltre all’ “uso” darwiniano che l’ambiente fa della specie, esiste un uso, contrario, che la specie fa dell’ambiente: questo è propriamente Umwelt: cosa è l’ambiente per noi e come lo usiamo. Così è vero che noi impariamo quello che vediamo, ma vediamo anche quello che conosciamo.
Uexküll ritiene che gli esseri viventi non siano costituiti da un insieme di componenti (cellule, neuroni, organi,...) che si mettono, per così dire, in moto grazie ad una particolare loro combinazione , ma che si strutturino a partire da un obiettivo che determina la “combinazione” , e la messa in moto, in modo centrifugo.
Questo dunque varrebbe anche per la creatività umana e per i prodotti culturali dell’uomo tanto quelli tecnico-scientifici che quelli artistici: la creazione (l’atto, il poiein) si struttura a partire da una vera e propria “intenzione”, qualcosa che viene prima della percezione sensibile, vale a dire qualcosa di simile alla perception visionaria di William Blake [2].
In particolare l’artista- poeta o pittore- nella sua perception di ciò che lo circonda non guarda con gli occhi ma attraverso di essi, non percepisce gli oggetti come una sequenza di sintagmi visivi, in modo lineare ma con lo sguardo penetra, per così dire, l’oggetto e su di esso proietta il suo “potere magico” che è quello di trovargli una identità e di conferirgli un’essenza (come già ricordato nel precedente Post su Tranströmer).
Blake chiama, questa forma di proiezione, Vortice e parla di un meccanismo di “rotazione all’indietro” per cui l’immagine dell’oggetto percepito dall’occhio “fisico” attraversando questo vortice rimbalza su un occhio spirituale-mentale dove incontra il proprio archetipo inalterabile ed incorruttibile: così una nave può diventare il cervo della vela o l’orso della chiglia, perifrasi che indicano la sua maestosità o la sua forza. Addirittura la Stella può diventare una poiana e l’Uomo una foglia autunnale aggrappata al ramo.
E’ come se Blake avesse anticipato quello che Uexküll avrebbe detto a proposito di due processi percettivi: il primo correlato all’esperienza sensibile e che usa la registrazione di segnali percepiti dai sensi in una sequenza di azioni nel modo reale (p.es. l’intuizione della strada da percorrere per arrivare in un luogo); il secondo, più propriamente innato, per il quale l’apparenza del mondo sarebbe data in modo “quasi magico” e pertanto suscettibile di essere immaginato, creato e ricreato come per esempio l’istinto migratore o il linguaggio.
Forse lo stesso linguaggio inteso come l’atto di raccontare per “canto” o per “immagini” emerge in una società di cacciatori come esperienza di decifrazione delle tracce: il cacciatore sarebbe stato il primo ad usare il linguaggio in cui era immerso, il suo Umwelt, per raccontare intorno a un fuoco o sulle pareti di una caverna, storie: quella di seguire, istintivamente, le tracce e di prevedere una serie coerente di eventi o ancora quella di un dio che appare in cielo e che viene oscurato da un “buco nero”.
Questi racconti sono intrecci di intuizione e istinto, il risultato di percezioni fisiche e magiche : ...che io dipinga o scriva io perseguo il medesimo scopo che è quello di raccontare storie, diceva Buzzati; storie, come quella che Salinger riporta in Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour. Introduzione [3] e che fa proprio al caso nostro per riassumere tutto quello che abbiamo detto fin qui e che ci introdurrà nel mondo di Marco Tani.
“Il Duca Mu di Chin disse a Po Lo:-Ora tu sei avanti negli anni. C’è qualche membro della tua famiglia che io possa usare al tuo posto nella ricerca dei cavalli?-Po Lo rispose:-Ti puoi scegliere un buon cavallo osservandone la conformazione e l’aspetto. Ma il cavallo superlativo-quello che non solleva polvere e non lascia tracce- è qualcosa di evanescente e fuggevole, elusivo come l’aria impalpabile. I miei figlioli hanno talento, un discreto talento; sanno riconoscere un buon cavallo quando ne vedono uno, ma non sanno riconoscere un cavallo superlativo. Ho un amico, però, un certo Chiu-fang Kao, un venditore ambulante di foraggi, che in fatto di cavalli non è per nulla da meno di me. Ti prego, vallo a trovare.
Il Duca Mu seguì il consiglio e, in seguito, inviò Chu-fang alla ricerca di un destriero. Tre mesi più tardi egli tornò dicendo che ne aveva trovato uno. - Ora si trova a Shach’iu,- aggiunse. - Che tipo di cavallo è?-chiese il Duca. - Oh, è una cavalla di color bruno grigiastro,-fu la risposta. E invece quando si mandò qualcuno a prenderlo si scoprì che l’animale era uno stallone nero come la notte! Molto dispiaciuto il Duca mandò a chiamare Po Lo.-Quel tuo amico,-gli disse,-che avevo incaricato di ricercare un cavallo, ha combinato un bel guaio. Ma se non sa neppure distinguere il colore o il sesso di un animale! Cosa mai può sapere dei cavalli?- Po Lo emise un sospiro di soddisfazione. - Si è veramente comportato così?- gridò. - Eh, allora è diecimila volte più bravo di me. Non c’è paragone tra me e lui. Ciò che interessa a Kao è il meccanismo spirituale. Per assicurarsi l’essenziale dimentica i dettagli più comuni; tutto intento alle qualità interiori, perde di vista le esteriori. Egli vede ciò che vuole vedere e non ciò che non gli interessa. Egli guarda le cose che si devono guardare e tralascia quelle che non hanno alcuna importanza. Kao è un così bravo giudice di cavalli che ha in sé le qualità per giudicare cose ancora migliori che i cavalli.
Quando il cavallo arrivò, non vi fu più alcun dubbio, era proprio eccezionale.”
Il racconto è una parabola sulla incertezza delle scienze umane e del cosiddetto sapere , una incertezza tanto paradossale se si pensa che questo tipo di conoscenza ha il suo punto di forza proprio nell’osservazione e, da Galileo in poi, nell’ “esperienza ragionata”. Ma il racconto è anche la denuncia disperata di quanto sia sempre più difficile trovare qualcuno in grado di leggere segni invisibili.
La capacità di riconoscere un cavallo difettoso dai garretti- scrive Carlo Ginzburg [4]- un temporale in arrivo dall’improvviso mutare del vento, una intenzione ostile in un viso che si adombra, non veniva certo appresa sui trattati di mascalcia, di metereologia o di psicologia...Queste forme di sapere erano più ricche di qualsiasi codificazione scritta; non venivano apprese dai libri ma dalla viva voce, dai gesti, dalle occhiate; si fondavano su sottigliezze certo non formalizzabili spesso addirittura non traducibili verbalmente; costituivano il patrimonio unitario ...di uomini e donne...
Chi scrutava il cielo avrebbe predetto il tempo e se si sarebbe potuto salire in montagna o uscire per mare: si guardava al cielo per capire la terra e, viceversa, la terra per capire il cielo. Ma chi sono oggi i veggenti?
Il vero poeta o il vero pittore ...non è in pratica l’unico veggente che abbiamo sulla terra? Non è certo un veggente lo scienziato, né, lo nego con tutte le mie forze, lo psichiatra....[e] in un veggente qual è l’organo che sopporta le maggiori ingiurie? Gli occhi, certamente.[3]
Per comprendere o decifrare- se è proprio necessario farlo- il nucleo magmatico e sfaccettato dell’opera di Marco Tani bisogna partire da qui, dagli “occhi” l’organo che sopporta le maggiori ingiurie ma che è in grado di produrre la bellezza.
Quando si guarda attraverso gli occhi la ...complessità si dissolve e, a differenza di quello che si crede, non è il lato emergente ad essere osservato, ma quello soggiacente: l’Anima. Allo scienziato spetta intuire ad esempio che il tutto è più della somma delle parti, ed anche differente [5] e quindi tentare una comprensione, ma all’artista-veggente non resta che percepire l’ Anima e riaderire così all’istinto, alla Vita.
Nella raccolta poetica Diario a rovescio (Edizioni La Carmelina, 2014) di Marco Tani [6], si conta per 20 volte la parola “vita” e per 15 volte la parola “anima”: questo è il paesaggio che appare attraverso gli occhi del veggente e di questo paesaggio ci racconta Marco Tani in immagini e parole, sia cioè tracciando segni sulle pareti della caverna alla luce traballante del fuoco, che cantando intorno allo stesso fuoco.
Come un cacciatore Tani segue le tracce della contemporaneità, dell’attualità per prevedere una serie coerente di eventi. Il cielo natale è sotto gli occhi di tutti, i segni (le tracce) sono evidenti: è da poco passata la “preda” il cacciatore si inginocchia per valutare la freschezza delle orme, per distinguere meglio il verso di percorrenza; alza lo sguardo verso quegli alberi in lontananza dove ci si addentrata solo per nascondersi, per sfuggire alla cattura; coglie con un’occhiata un ramo spezzato da poco che oscilla ancora, avverte un profumo che il vento si affretta a disperdere, sente e vede uno zoccolo illuminato da una lama di luce: si ferma e decide di aspettare: lui è paziente, lui ricorda che c'è solo un peccato capitale: l'impazienza e che, a causa di questa, gli uomini sono stati cacciati dal paradiso...[7] ed è per lo stesso motivo che non vi fanno ritorno.
L’artista-veggente, come il cacciatore, è una anima paziente. Si accampa, magari al riparo in una caverna. Qui accende un fuoco e mette a bollire dell’acqua in una pentola con il manico; cuocerà del riso. L’acqua comincerà a bollire e a tornare, vapore, verso l’alto per ricominciare un ciclo. Il chicco di riso è simbolo di nutrimento fisico nonché spirituale (Vita) ed è allo stesso tempo simbolo del centro del nostro essere che deve essere particolarmente curato e protetto nonché a sua volta alimentato dagli influssi discendenti dal cielo (Anima).
Vita e Anima. Acqua, vapore che sale, chicco di riso, lo spirito che scende dal cielo e che penetra nel cuore aperto: i due kanji riprodotti in ogni pagina della raccolta di Tani.
Non è sempre vero che l’anima sale/che vuole imitare i gabbiani/volando più su/e piomba improvvisa sul cibo nel mare./ E’ il corpo che parte,/ed ecco che allora l’altra/rimane in disparte/quaggiù ad annotare/l’odore del baccalà fritto/che porta più in alto di quello del mare./ Per questo la vita qui/resta al di qua, protetta dai portici di Sotto Ripa,/nei vicoli dove sussulta attraccata,/mia gassa d’amante nella città.
Così racconta in Gassa d’amante (pg. 11) Tani. Per questo lo scafo dell’anima va sempre protetto e assicurato a tutto ciò che lo fa sussultare come una piccola barca nel porto, legata con un semplice nodo come una gassa d’amante generalmente sicura, ma che può essere facilmente sciolta e che soprattutto non soffoca.
La Vita e l’Anima sono legate da questo dolce nodo; anche uno sguardo può fare altrettanto e l’artista-veggente questo, istintivamente, lo sa e guarda nel modo in cui si evita di guardare le Pleiadi per vederle (pg.14):
Ti vedo meglio se guardo invece/altrove appena un pò più in là/come si guardano le Pleiadi/che ti si mostrano di più/se sposti un po' lo sguardo/e sfuggono al contrario/quando le cerchi in cielo/confuse dentro al blu./Così fai tu su questa nuda Terra,/cammini con l’anima al di fuori/perché gli sciocchi/credano/che ciò che mostri/è pelle.
e dice e scrive nel modo in cui non si dice e non si scrive per conoscere risposte (Viola d'Ingres pg. 21):
Dell’anima in corsivo/è l’ideogramma/graffito del metrò./Tutta risuona di un’effe di violino/la doppia esse della tua schiena/ombrosa./Il punto di domanda di una vita./Scrivere non risponde mai.
Prima di qualunque cosa, prima ancora della Vita c’è l’Anima: pochi riescono a riconoscerne le tracce. Alcuni, nella vana speranza di ritrovarle, si appellano alle tecniche più sofisticate, all’incessante tessitura di domande e risposte a cui la scienza di Penelope ci ha abituati ma non evidentemente istruiti e convinti. Così ci lasciamo affascinare ancora e ancora dalla cosiddetta “complessità” del creato incluso quello che noi stessi abbiamo “creato”, dal disegno che appare sul telo funebre di Laerte e che domani, disfatto nella notte, non sarà più quello.
Ma qualcosa resta imperturbabile nel disordine e qualcuno, come Marco Tani, riconosce dalle orme la preda nascosta tra gli alberi li in fondo, al riparo dagli occhi che indagano e da bocche che interrogano; distante dai calendari e dalle pagine dei diari, in fin dei conti, sempre...datate. Lui al contrario sente, avverte e, come fa l’insetto di Uexküll, si lascia cadere dal ramo per cibarsi del nutrimento che scorre tra le vene della Vita, invisibile come il sangue, l’Umwelt in cui noi tutti siamo immersi. L’Anima.
Riferimenti
[1]- Jacob von Uexküll Ambienti animali e ambienti umani Quodlibet (2010)
[2]- William Blake Il matrimonio del Paradiso e dell’Inferno Asterios (2013)
[3]- Jerome D. Salinger Alzate l’architrave carpentieri e Seymour.Introduzione, Einaudi (2003)
[4]- Carlo Ginzburg Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Einaudi, (1986)
[5]-P.W.Anderson Science, New Series, Vol. 177, No. 4047. (Aug. 4, 1972), pp. 393-396.
[6]- Marco Tani Diario a rovescio Edizioni La Carmelina (2014)
[7]- F. Kafka
venerdì 10 aprile 2015
La fiamma dell'onda
La morte di un poeta mi ricorda la vita di una stella: le stelle vivono anche quando sembrano finire come nane bianche o stelle di neutroni o, addirittura, scomparire come buchi neri. Riflettendo si intuisce che le stelle, in realtà, non muoiono perché, anche in queste loro forme estreme di massa fortemente compatta da non lasciar scappare neppure la luce, continuano ad emettere calore e a lasciare un segno, per così dire, una firma di ferro e silicio oppure di ossigeno, carbonio ed elio.
Prima di arrivare alla loro interminabile fine la stella deflagra come supernova e appare nel cielo notturno (se non diurno) come un avvento. Un’ annunciazione. Così sono state viste e ancora oggi vengono viste le stelle che spuntano improvvisamente nel cielo come le novae, le supernovae o anche le comete.
Eppure sono state sempre là, presenti nella vita di ognuno di noi contemporanei a loro, a illuminare debolmente le nostre vite, ad emettere luce in modo discreto e a volte, impercettibile. Alla fine, BOOM, esplodono e lasciano un... residuo. Nessun oroscopo può tenerne conto e, anzi, questo dimostra l’incongruità di qualunque oroscopo perché nei cieli natali queste stelle dovrebbero “pesare”, sul destino di ciascuno, più di quanto possono fare dei semplici e piccoli pianeti.
Così succede che qualcuno, invisibile ai più -come lo sono normalmente i poeti- muoia; ecco che questa sua “morte” ci racconta, come fa quella di una stella, la sua vita passata e quella futura e cioè se sia stata una esistenza da stella di ferro e silicio o semplicemente da stella di carbonio ed ossigeno e se il suo residuo-la sua cenere- sarà un buco nero o una nana bianca. Ma soprattutto, questa sua vita a scomparsa, illumina qualcosa di noi, del nostro oroscopo : non immaginavamo quanto fosse stata importante nel nostro cielo natale la presenza discreta, per esempio, di Tomas Tranströmer e quanto il nostro destino possa essere condizionato dalla sua morte e quindi dalla conoscenza della sua vita.
Tomas Tranströmer nasce, come stella visibile a tutti, oggi, 27 marzo 2015, data della sua morte. Aveva dato segni della sua luminosità fin da giovane, molti anni prima del Nobel (2011), tanto che molte delle sue immagini poetiche e forse proprio grazie ad esse illuminarono la poesia di altri colleghi (stelle gemelle) che prima di lui furono poeti Laureati dall’Accademia svedese ( Iosif Brodskij, Derek Walcott, Seamus Heaney).
Lui, con la modestia tipica dei grandi poeti, si paragona ad una cometa [1]:
“La mia vita. Quando penso a queste parole mi vedo davanti una scia di luce. Guardando più da vicino, la scia di luce ha la forma di una cometa, con una testa e una coda. L’estremità più luminosa, la testa, è l’infanzia e l’adolescenza. Il nucleo, la parte più densa, sono quei primissimi anni in cui vengono definiti i tratti fondamentali della nostra esistenza...”
Sappiamo bene che una cometa, infaticabile astro con i suoi periodici ritorni, per poter splendere nel cielo ha comunque bisogno di un sole. E' evidente che Tranströmer non è una semplice cometa ma una stella, una stella di Prima Grandezza.
Le stelle traggono la loro energia, e la loro luce dunque, da un meccanismo termonucleare che avviene al loro interno, innescato dall’ambiguo desiderio di sfuggire alla gravità e, contemporaneamente, di soccombere ad essa. Scappare e restare. Perdersi e ritornare. Vivere e morire. Morire e vivere. I poeti sono coloro che si accendono per questo; che brillano di questo.
“...[...Quando avevo cinque o sei anni...]... verso la metà degli anni Trenta, sparii nel pieno centro di Stoccolma. Io e la mamma eravamo andati al concerto della scuola. Nella ressa all’uscita dell’Auditorium persi la mano della mamma e venni trascinato via dalla corrente umana...C’era buio fuori...Non c’era niente cui aggrapparsi. Fu la mia prima esperienza della morte...” [1]
La capacità di innescare la reazione in Tranströmer ed emettere luce e calore nell’Universo, non è imputabile alla parola- sempre polisemica- ma ad una rete capillare di nessi tra le parole e i loro significati che conduce a molteplicità interpretative e a pluralità di sensi. Tutte le immagini da lui rappresentate ed evocate ospitano la loro assenza e il loro silenzio; come una stella dello spazio profondo che può essere vista solo al buio o quando diventa una supernova.
La metafora è la reazione termonucleare di Tranströmer. Con essa egli comincia ad accumulare la materia, proprio come accade in una nube di gas e polveri dove si coagula un nucleo sempre più denso. In questa sua operazione di compressione e accumulo di immagini Tranströmer recupera un’antica tradizione appartenente sicuramente alla poesia scaldica di epoca vichinga ma anche a quella greca di epoca omerica entrambe caratterizzate da associazioni ardite e da espressioni talmente compatte e ridotte da risultare a volte enigmatiche: “la fiamma dell’onda” vichinga è l’oro e “la porta d’avorio” omerica è, diremmo oggi, l’inconscio.
Queste antiche narrazioni poetiche riportavano spesso eventi storici, illuminando scorci significativi e fulminei di essi: gettavano luce sul buio che avvolgeva la vita dell’uomo nell'idea di Cosmo che allora si aveva.
Tranströmer illumina il buio che circonda il viaggio dell’uomo, con un particolare uso della metafora: essa assume il carattere vero e proprio di correlativo oggettivo [2] tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, tra grandiose visioni d’insieme e altissime risoluzioni di elementi microscopici.
Tra una galassia e un pianeta c’è appunto una stella che scompone, comprime, fonde e ricrea la vita, l’emozione.
Questo uso frattale della metafora, per cui a scale diverse di osservazione, si riesce a percepire e riconoscere uno motivo di fondo, permette di osservare uno stesso paesaggio con risoluzioni diverse: accelerando o rallentando i ritmi per ampliare o ridurre le profondità di campo. Nella poesia italiana abbiamo un esempio importante di questo con Ossi di seppia di Montale: il titolo stesso della raccolta è un esempio di correlativo oggettivo che evoca il motivo di fondo di tutta l’opera, quello della morte.
In Tranströmer alle scale diverse di osservazione giace un “diverso” motivo di fondo o, se vogliamo, lo stesso di quello montaliano ma mediato da una percezione del mondo originalissima e quasi orientaleggiante. Questo motivo è il Mistero.
Non è un caso che le ultime composizioni di Tranströmer siano degli haiku [3].
Quando una stella sta per esplodere, avendo raggiunto la luminosità che le è stata “predetta” dalla sua massa iniziale -oroscopo nel/dal suo cielo natale- sa già quale sarà il suo destino, il suo residuo quel simulacro, cioè, della futura generazione di stelle, pianeti e vite che daranno continuità alla sua inestinta esistenza.
La cenere, il residuo inestinguibile di luce e voce di Tranströmer, è rappresentata dal grande mistero.
Nella bellissima prefazione di Maria Cristina Lombardi [3] si legge che ne Il grande mistero: “...emerge ...una tendenza...all’espansione”.Eh, si: quando una stella esplode si assiste ad un piccolo Big Bang, alla nascita e all’espansione di un universo che nella sua corsa spaziale creerà nuovi soli, nuovi pianeti e nuove vite.
Adottando la forma dell’haiku Tranströmer racchiude tutta la sua luce poetica in un corpo di enorme densità: pur nello stretto spazio di tre soli versi e 17 sillabe riesce a richiamare temi affrontati in modo più ampio e rarefatto in testi precedenti, come se avesse voluto anticipare il calore del buco nero che sarebbe diventato. Qui è tutto concentrato tanto che dal buio e dal silenzio possa emergere, nel bagliore di un attimo, solo il calore, il calore puro dell’emozione.
Percepiamo così che la poesia non è qualcosa di diverso dalla materia ma è una delle componenti materiali del mondo: la Poesia piega lo spazio intorno a se come fa una stella e la vita. La nostra vita, non le gira intorno perché attirata da una forza misteriosa, ma perché sta correndo dritta nel mistero che lei crea.
E quando una Poesia è così densa come quella di Tranströmer, quel calore che proviene da essa, pur nel silenzio e nel buio, è un messaggio che ci arriva dal Grande Mistero e che, a differenza degli ossi di seppia, ci rassicura.
Estratti da Il grande mistero [3]
Novembre
Quando il boia si annoia si è in pericolo.
Il cielo incandescente si arrotola.
Da una cellula all’altra si sente scricchiolare
e lo spazio sgorga dal ghiaccio.
Le pietre brillano come lune piene.
Liriche haiku
I
I pensieri stanno fermi
come tessere di un mosaico
nel giardino del palazzo.
Sto sul balcone
in una gabbia di raggi di sole
come un arcobaleno.
IV
Su per sentieri erti
sotto il sole – le capre
brucavano fuoco.
V
Le foglie brune
sono preziose come
i rotoli del Mar Morto.
VII
Bosco disorientante
dove Dio abita senza soldi.
I muri brillavano.
Una gazza bianco-nera
corre decisa a zig-zag
obliqua sul campo.
X
E’ successo qualcosa.
La luna illuminava la stanza.
Dio ne era a conoscenza.
Sento il mormorio della pioggia.
Io sussurro un segreto
per entrarvi dentro.
XI
Il mare è un muro.
Sento i gabbiani gridare-
accennano un saluto.
Vento grande e lento
dalla biblioteca del mare.
Qui io posso riposare.
Uomini-uccello.
Albero di melo in fiore.
Il grande mistero.
Riferimenti
[1]-T. Transtromer I ricordi mi guardano, Iperborea (2011)
[2]- Il correlativo oggettivo è un concetto poetico elaborato nel 1919 da Thomas Stearns Eliot, che lo definì in The Sacred Wood: Essays on Poetry and Criticism, Londra, Methuen, (1920) come: una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un'emozione particolare.
[3]-T. Transtromer Il grande mistero, Crocetti Editore (2011)
Prima di arrivare alla loro interminabile fine la stella deflagra come supernova e appare nel cielo notturno (se non diurno) come un avvento. Un’ annunciazione. Così sono state viste e ancora oggi vengono viste le stelle che spuntano improvvisamente nel cielo come le novae, le supernovae o anche le comete.
Eppure sono state sempre là, presenti nella vita di ognuno di noi contemporanei a loro, a illuminare debolmente le nostre vite, ad emettere luce in modo discreto e a volte, impercettibile. Alla fine, BOOM, esplodono e lasciano un... residuo. Nessun oroscopo può tenerne conto e, anzi, questo dimostra l’incongruità di qualunque oroscopo perché nei cieli natali queste stelle dovrebbero “pesare”, sul destino di ciascuno, più di quanto possono fare dei semplici e piccoli pianeti.
Così succede che qualcuno, invisibile ai più -come lo sono normalmente i poeti- muoia; ecco che questa sua “morte” ci racconta, come fa quella di una stella, la sua vita passata e quella futura e cioè se sia stata una esistenza da stella di ferro e silicio o semplicemente da stella di carbonio ed ossigeno e se il suo residuo-la sua cenere- sarà un buco nero o una nana bianca. Ma soprattutto, questa sua vita a scomparsa, illumina qualcosa di noi, del nostro oroscopo : non immaginavamo quanto fosse stata importante nel nostro cielo natale la presenza discreta, per esempio, di Tomas Tranströmer e quanto il nostro destino possa essere condizionato dalla sua morte e quindi dalla conoscenza della sua vita.
Tomas Tranströmer nasce, come stella visibile a tutti, oggi, 27 marzo 2015, data della sua morte. Aveva dato segni della sua luminosità fin da giovane, molti anni prima del Nobel (2011), tanto che molte delle sue immagini poetiche e forse proprio grazie ad esse illuminarono la poesia di altri colleghi (stelle gemelle) che prima di lui furono poeti Laureati dall’Accademia svedese ( Iosif Brodskij, Derek Walcott, Seamus Heaney).
Lui, con la modestia tipica dei grandi poeti, si paragona ad una cometa [1]:
“La mia vita. Quando penso a queste parole mi vedo davanti una scia di luce. Guardando più da vicino, la scia di luce ha la forma di una cometa, con una testa e una coda. L’estremità più luminosa, la testa, è l’infanzia e l’adolescenza. Il nucleo, la parte più densa, sono quei primissimi anni in cui vengono definiti i tratti fondamentali della nostra esistenza...”
Sappiamo bene che una cometa, infaticabile astro con i suoi periodici ritorni, per poter splendere nel cielo ha comunque bisogno di un sole. E' evidente che Tranströmer non è una semplice cometa ma una stella, una stella di Prima Grandezza.
Le stelle traggono la loro energia, e la loro luce dunque, da un meccanismo termonucleare che avviene al loro interno, innescato dall’ambiguo desiderio di sfuggire alla gravità e, contemporaneamente, di soccombere ad essa. Scappare e restare. Perdersi e ritornare. Vivere e morire. Morire e vivere. I poeti sono coloro che si accendono per questo; che brillano di questo.
“...[...Quando avevo cinque o sei anni...]... verso la metà degli anni Trenta, sparii nel pieno centro di Stoccolma. Io e la mamma eravamo andati al concerto della scuola. Nella ressa all’uscita dell’Auditorium persi la mano della mamma e venni trascinato via dalla corrente umana...C’era buio fuori...Non c’era niente cui aggrapparsi. Fu la mia prima esperienza della morte...” [1]
La capacità di innescare la reazione in Tranströmer ed emettere luce e calore nell’Universo, non è imputabile alla parola- sempre polisemica- ma ad una rete capillare di nessi tra le parole e i loro significati che conduce a molteplicità interpretative e a pluralità di sensi. Tutte le immagini da lui rappresentate ed evocate ospitano la loro assenza e il loro silenzio; come una stella dello spazio profondo che può essere vista solo al buio o quando diventa una supernova.
La metafora è la reazione termonucleare di Tranströmer. Con essa egli comincia ad accumulare la materia, proprio come accade in una nube di gas e polveri dove si coagula un nucleo sempre più denso. In questa sua operazione di compressione e accumulo di immagini Tranströmer recupera un’antica tradizione appartenente sicuramente alla poesia scaldica di epoca vichinga ma anche a quella greca di epoca omerica entrambe caratterizzate da associazioni ardite e da espressioni talmente compatte e ridotte da risultare a volte enigmatiche: “la fiamma dell’onda” vichinga è l’oro e “la porta d’avorio” omerica è, diremmo oggi, l’inconscio.
Queste antiche narrazioni poetiche riportavano spesso eventi storici, illuminando scorci significativi e fulminei di essi: gettavano luce sul buio che avvolgeva la vita dell’uomo nell'idea di Cosmo che allora si aveva.
Tranströmer illumina il buio che circonda il viaggio dell’uomo, con un particolare uso della metafora: essa assume il carattere vero e proprio di correlativo oggettivo [2] tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, tra grandiose visioni d’insieme e altissime risoluzioni di elementi microscopici.
Tra una galassia e un pianeta c’è appunto una stella che scompone, comprime, fonde e ricrea la vita, l’emozione.
Questo uso frattale della metafora, per cui a scale diverse di osservazione, si riesce a percepire e riconoscere uno motivo di fondo, permette di osservare uno stesso paesaggio con risoluzioni diverse: accelerando o rallentando i ritmi per ampliare o ridurre le profondità di campo. Nella poesia italiana abbiamo un esempio importante di questo con Ossi di seppia di Montale: il titolo stesso della raccolta è un esempio di correlativo oggettivo che evoca il motivo di fondo di tutta l’opera, quello della morte.
In Tranströmer alle scale diverse di osservazione giace un “diverso” motivo di fondo o, se vogliamo, lo stesso di quello montaliano ma mediato da una percezione del mondo originalissima e quasi orientaleggiante. Questo motivo è il Mistero.
Non è un caso che le ultime composizioni di Tranströmer siano degli haiku [3].
Quando una stella sta per esplodere, avendo raggiunto la luminosità che le è stata “predetta” dalla sua massa iniziale -oroscopo nel/dal suo cielo natale- sa già quale sarà il suo destino, il suo residuo quel simulacro, cioè, della futura generazione di stelle, pianeti e vite che daranno continuità alla sua inestinta esistenza.
La cenere, il residuo inestinguibile di luce e voce di Tranströmer, è rappresentata dal grande mistero.
Nella bellissima prefazione di Maria Cristina Lombardi [3] si legge che ne Il grande mistero: “...emerge ...una tendenza...all’espansione”.Eh, si: quando una stella esplode si assiste ad un piccolo Big Bang, alla nascita e all’espansione di un universo che nella sua corsa spaziale creerà nuovi soli, nuovi pianeti e nuove vite.
Adottando la forma dell’haiku Tranströmer racchiude tutta la sua luce poetica in un corpo di enorme densità: pur nello stretto spazio di tre soli versi e 17 sillabe riesce a richiamare temi affrontati in modo più ampio e rarefatto in testi precedenti, come se avesse voluto anticipare il calore del buco nero che sarebbe diventato. Qui è tutto concentrato tanto che dal buio e dal silenzio possa emergere, nel bagliore di un attimo, solo il calore, il calore puro dell’emozione.
Percepiamo così che la poesia non è qualcosa di diverso dalla materia ma è una delle componenti materiali del mondo: la Poesia piega lo spazio intorno a se come fa una stella e la vita. La nostra vita, non le gira intorno perché attirata da una forza misteriosa, ma perché sta correndo dritta nel mistero che lei crea.
E quando una Poesia è così densa come quella di Tranströmer, quel calore che proviene da essa, pur nel silenzio e nel buio, è un messaggio che ci arriva dal Grande Mistero e che, a differenza degli ossi di seppia, ci rassicura.
Estratti da Il grande mistero [3]
Novembre
Quando il boia si annoia si è in pericolo.
Il cielo incandescente si arrotola.
Da una cellula all’altra si sente scricchiolare
e lo spazio sgorga dal ghiaccio.
Le pietre brillano come lune piene.
Liriche haiku
I
I pensieri stanno fermi
come tessere di un mosaico
nel giardino del palazzo.
Sto sul balcone
in una gabbia di raggi di sole
come un arcobaleno.
IV
Su per sentieri erti
sotto il sole – le capre
brucavano fuoco.
V
Le foglie brune
sono preziose come
i rotoli del Mar Morto.
VII
Bosco disorientante
dove Dio abita senza soldi.
I muri brillavano.
Una gazza bianco-nera
corre decisa a zig-zag
obliqua sul campo.
X
E’ successo qualcosa.
La luna illuminava la stanza.
Dio ne era a conoscenza.
Sento il mormorio della pioggia.
Io sussurro un segreto
per entrarvi dentro.
XI
Il mare è un muro.
Sento i gabbiani gridare-
accennano un saluto.
Vento grande e lento
dalla biblioteca del mare.
Qui io posso riposare.
Uomini-uccello.
Albero di melo in fiore.
Il grande mistero.
Riferimenti
[1]-T. Transtromer I ricordi mi guardano, Iperborea (2011)
[2]- Il correlativo oggettivo è un concetto poetico elaborato nel 1919 da Thomas Stearns Eliot, che lo definì in The Sacred Wood: Essays on Poetry and Criticism, Londra, Methuen, (1920) come: una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un'emozione particolare.
[3]-T. Transtromer Il grande mistero, Crocetti Editore (2011)
martedì 17 marzo 2015
L'altra metà del letto
Io non ho nulla, eppure
quale dolcezza in cuore-
e che fresco.
[K.Issa]
Il canto dell’innocenza, per eccellenza, è quello della neve.
La neve è il kigo (il riferimento ad un elemento naturale nella poesia giapponese) scelto da Matteo Bianchi-quasi fosse un navigato scrittore di haiku (haijin)-per la sua ultima raccolta poetica La metà del letto (Lorenzo Barbera Editore 2015).
Voglio inseguire questa lettura della raccolta di Bianchi, in questo post, perchè prima di tutto l’autore è ferrarese e poi perché, come ho già avuto modo di ricordare in un post precedente, nel 2015 ricorre il cinquantesimo anniversario della morte di un altro poeta ferrarese, Corrado Govoni.
Stranamente non è Ferrara a legare il primo e il secondo ma il Giappone.
Nella sua accezione tradizionale, l’haiku è un modo di fare poesia senza spiegare e senza esprimere concetti; esso si manifesta quale completa identificazione tra il poeta e l’evento che solo una vera “umiltà emotiva” può consentire: concetti, sentimenti o sensazioni individuali sono trasferiti alla natura e nella natura, insieme alla neve, per strano che possa sembrare, vanno incluse anche le chiese, i ponti, i campanili, le biciclette ("ho le ruota a terra") e perfino le sigarette ("smorzarsi"). Il poeta così non descrive l’acqua, la nebbia o un pavimento esterno del convento, ma seguendo gli andamenti della natura, con esercizio lento e paziente, si fa egli stesso acqua, nebbia, coppo rosso, rintocco di una campana o addirittura ruota e fumo. Egli aspira a sentirsi parte della totalità del reale, perfettamente assimilato ad una essenza impersonale. Un Esso dunque.
Questo principio è estraneo alla cultura occidentale in cui il soggetto è sempre il (e al) centro dell’esperienza e il mondo è un’entità altra se non una controparte.
In questa raccolta numerosi sono gli esempi (esercizi spirituali?) in cui Bianchi si mostra e si fa sentire parte della totalità del mondo: ad esempio nelle "cronaco-poesie" dove a parlare (a verseggiare) sono la zia, la nonna, un amico o un parente defunti; o ancora di più nelle tracce sparse lasciate di qua e di là lungo il libro in versi come gigli genuini fuori dal vaso (pg.50) o come una tela [che]una volta tessuta e tesa/già non è più tua (agli esperti toccherà sottolineare questo stupendo filo di seta tessuto nel verso che tiene tutte le t) o ancora come quella schiuma sul limitare dell’onda.
E l’esercizio serpeggia per tutta la raccolta: un esercizio che da fisico, diventa psicologico e si trasforma poi in quello, definitivo, spirituale il più adatto dunque a raggiungere questa indispensabile (per un Poeta) "umiltà emotiva". Il rimpiazzare un senso con un altro (la vista con l’olfatto; l’udito con il tatto come se ci si movesse nel buio o sulla banchisa polare); il delegare una funzione ad una estensione virtuale; questa capacità, dunque, è una sorta di vicarianza poetica: il campanile/non aveva più rintocchi,/rimossi, li avevano spostati in paese (pg.116).
Ed è una strategia vicaria o, se si preferisce, un errore di amalgama e perseveranza quello che porta a leggere cilicio al posto di ciliegio nella poesia a pagina 117:
Dopo la pioggia di fine marzo,
il mio mese, il mio supplizio,
pareva di voltare pagina:
anche il ciliegio appena nato,
affiorato tra i posti auto,
faceva i frutti.
Risorgevo quotidiano
onorando il mio dolore
e portando il vostro con me.
L’unione di due elementi quali supplizio e dolore ne formano un terzo inesistente: cilicio. E qui si comprende la metamorfosi orientale di Bianchi: la sua ambizione di sentirsi parte della totalità non può che passare dalla peculiare umiltà che in un mondo (quello occidentale), completamente disinteressato ad essa, non può che risultare particolarmente spaventosa. Il dolore, l’umiltà sono spaventosi.
Questo processo richiede di passare dal Bello al Vero (dal ciliegio al cilicio) e dopo uno straordinario travaglio, confessando tutte le proprie debolezze (pubblicamente a pg. 38):
Della vanità
non voglio fare a meno
giungere alla Grande Bellezza*.
In uno stato d’animo come questo, in una perfetta comunione con la vita, anche senza volerlo o proprio perchè non lo si è voluto, si diventa haijin e si può scrivere (pg. 121):
...in bicicletta
se le fuma il vento
le sigarette.
Un haiku perfetto:
senza titolo;
5-7-5 le sillabe per verso;
c'è il kigo stagionale (il vento);
il tema privilegiato è il mondo “naturale”: Ferrara, la bicicletta, le sigarette.
Nella Ferrara di inizio secolo scorso, appunto, Corrado Govoni cedeva alle tentazioni delle atmosfere rarefatte del giapponismo di maniera che prendeva corpo nelle opere del D’annunzio di Intermezzo e nel decorativismo liberty. Lo fece con quattro sonetti , i Ventagli giapponesi, sezione iniziale delle Fiale (Firenze, 1903). Govoni aggiunse alle immagini evocative ed evanescenti della poesia tradizionale giapponese, la sua capacità straniante di incorporare oggetti quotidiani e persone in atmosfere metafisiche
Con un campionario di scene ambientate nella sua periferica Ferrara- più piena di oggi di biciclette-Govoni anticipò la modernità. Nel dialogo tra il suo virtuosismo linguistico e l'umiltà tematica va ritrovata e riscoperta la sua unicità poetica (quella del “bianco minore” per dirla con Corazzini). Un bianco che cadrà, come la neve, su Montale, Penna e Saba e che probabilmente è giunto fin qui, fino a Matteo Bianchi.
Nelle improvvise “illuminazioni” in cui le cose si manifestano senza alcuna interferenza da parte del poeta che, anzi, ne sente la pena e se ne lascia impregnare, vibrano i momenti in cui si è vicini allo spirito dell’haiku e al senso della Bellezza così come viene inteso dalla tradizione giapponese.
Una delle caratteristiche che troviamo in questa poesia è il senso del mistero (lo yugen) la cui comprensione non è possibile per chi vuole armarsi solo della santa ragione. Il mondo per un haijin richiede un’attenzione ed un rispetto profondi se si vuole coglierne il mistero: la Bellezza è destinata a svanire ma per chi la contempla umilmente, alla ”occulta pena”, la malinconia che rende più prezioso questo incontro, si accompagna una gioia profonda.
E’ per questo che la Bellezza è sempre a metà ed è per questo che ciò che leggiamo dei grandi poeti è sempre la metà di quello che leggiamo.
La metà del letto.
*In una intervista Paolo Sorrentino definisce cosa sia per lui la Grande Bellezza:"la fatica di vivere" della quale non ci stanchiamo mai.
quale dolcezza in cuore-
e che fresco.
[K.Issa]
Il canto dell’innocenza, per eccellenza, è quello della neve.
La neve è il kigo (il riferimento ad un elemento naturale nella poesia giapponese) scelto da Matteo Bianchi-quasi fosse un navigato scrittore di haiku (haijin)-per la sua ultima raccolta poetica La metà del letto (Lorenzo Barbera Editore 2015).
Voglio inseguire questa lettura della raccolta di Bianchi, in questo post, perchè prima di tutto l’autore è ferrarese e poi perché, come ho già avuto modo di ricordare in un post precedente, nel 2015 ricorre il cinquantesimo anniversario della morte di un altro poeta ferrarese, Corrado Govoni.
Stranamente non è Ferrara a legare il primo e il secondo ma il Giappone.
Nella sua accezione tradizionale, l’haiku è un modo di fare poesia senza spiegare e senza esprimere concetti; esso si manifesta quale completa identificazione tra il poeta e l’evento che solo una vera “umiltà emotiva” può consentire: concetti, sentimenti o sensazioni individuali sono trasferiti alla natura e nella natura, insieme alla neve, per strano che possa sembrare, vanno incluse anche le chiese, i ponti, i campanili, le biciclette ("ho le ruota a terra") e perfino le sigarette ("smorzarsi"). Il poeta così non descrive l’acqua, la nebbia o un pavimento esterno del convento, ma seguendo gli andamenti della natura, con esercizio lento e paziente, si fa egli stesso acqua, nebbia, coppo rosso, rintocco di una campana o addirittura ruota e fumo. Egli aspira a sentirsi parte della totalità del reale, perfettamente assimilato ad una essenza impersonale. Un Esso dunque.
Questo principio è estraneo alla cultura occidentale in cui il soggetto è sempre il (e al) centro dell’esperienza e il mondo è un’entità altra se non una controparte.
In questa raccolta numerosi sono gli esempi (esercizi spirituali?) in cui Bianchi si mostra e si fa sentire parte della totalità del mondo: ad esempio nelle "cronaco-poesie" dove a parlare (a verseggiare) sono la zia, la nonna, un amico o un parente defunti; o ancora di più nelle tracce sparse lasciate di qua e di là lungo il libro in versi come gigli genuini fuori dal vaso (pg.50) o come una tela [che]una volta tessuta e tesa/già non è più tua (agli esperti toccherà sottolineare questo stupendo filo di seta tessuto nel verso che tiene tutte le t) o ancora come quella schiuma sul limitare dell’onda.
E l’esercizio serpeggia per tutta la raccolta: un esercizio che da fisico, diventa psicologico e si trasforma poi in quello, definitivo, spirituale il più adatto dunque a raggiungere questa indispensabile (per un Poeta) "umiltà emotiva". Il rimpiazzare un senso con un altro (la vista con l’olfatto; l’udito con il tatto come se ci si movesse nel buio o sulla banchisa polare); il delegare una funzione ad una estensione virtuale; questa capacità, dunque, è una sorta di vicarianza poetica: il campanile/non aveva più rintocchi,/rimossi, li avevano spostati in paese (pg.116).
Ed è una strategia vicaria o, se si preferisce, un errore di amalgama e perseveranza quello che porta a leggere cilicio al posto di ciliegio nella poesia a pagina 117:
Dopo la pioggia di fine marzo,
il mio mese, il mio supplizio,
pareva di voltare pagina:
anche il ciliegio appena nato,
affiorato tra i posti auto,
faceva i frutti.
Risorgevo quotidiano
onorando il mio dolore
e portando il vostro con me.
L’unione di due elementi quali supplizio e dolore ne formano un terzo inesistente: cilicio. E qui si comprende la metamorfosi orientale di Bianchi: la sua ambizione di sentirsi parte della totalità non può che passare dalla peculiare umiltà che in un mondo (quello occidentale), completamente disinteressato ad essa, non può che risultare particolarmente spaventosa. Il dolore, l’umiltà sono spaventosi.
Questo processo richiede di passare dal Bello al Vero (dal ciliegio al cilicio) e dopo uno straordinario travaglio, confessando tutte le proprie debolezze (pubblicamente a pg. 38):
Della vanità
non voglio fare a meno
giungere alla Grande Bellezza*.
In uno stato d’animo come questo, in una perfetta comunione con la vita, anche senza volerlo o proprio perchè non lo si è voluto, si diventa haijin e si può scrivere (pg. 121):
...in bicicletta
se le fuma il vento
le sigarette.
Un haiku perfetto:
senza titolo;
5-7-5 le sillabe per verso;
c'è il kigo stagionale (il vento);
il tema privilegiato è il mondo “naturale”: Ferrara, la bicicletta, le sigarette.
Nella Ferrara di inizio secolo scorso, appunto, Corrado Govoni cedeva alle tentazioni delle atmosfere rarefatte del giapponismo di maniera che prendeva corpo nelle opere del D’annunzio di Intermezzo e nel decorativismo liberty. Lo fece con quattro sonetti , i Ventagli giapponesi, sezione iniziale delle Fiale (Firenze, 1903). Govoni aggiunse alle immagini evocative ed evanescenti della poesia tradizionale giapponese, la sua capacità straniante di incorporare oggetti quotidiani e persone in atmosfere metafisiche
Con un campionario di scene ambientate nella sua periferica Ferrara- più piena di oggi di biciclette-Govoni anticipò la modernità. Nel dialogo tra il suo virtuosismo linguistico e l'umiltà tematica va ritrovata e riscoperta la sua unicità poetica (quella del “bianco minore” per dirla con Corazzini). Un bianco che cadrà, come la neve, su Montale, Penna e Saba e che probabilmente è giunto fin qui, fino a Matteo Bianchi.
Nelle improvvise “illuminazioni” in cui le cose si manifestano senza alcuna interferenza da parte del poeta che, anzi, ne sente la pena e se ne lascia impregnare, vibrano i momenti in cui si è vicini allo spirito dell’haiku e al senso della Bellezza così come viene inteso dalla tradizione giapponese.
Una delle caratteristiche che troviamo in questa poesia è il senso del mistero (lo yugen) la cui comprensione non è possibile per chi vuole armarsi solo della santa ragione. Il mondo per un haijin richiede un’attenzione ed un rispetto profondi se si vuole coglierne il mistero: la Bellezza è destinata a svanire ma per chi la contempla umilmente, alla ”occulta pena”, la malinconia che rende più prezioso questo incontro, si accompagna una gioia profonda.
E’ per questo che la Bellezza è sempre a metà ed è per questo che ciò che leggiamo dei grandi poeti è sempre la metà di quello che leggiamo.
La metà del letto.
*In una intervista Paolo Sorrentino definisce cosa sia per lui la Grande Bellezza:"la fatica di vivere" della quale non ci stanchiamo mai.
mercoledì 11 febbraio 2015
Berenice e il Luogo del Cacciatore
“La scoperta etimologica è una “illuminazione”. La scoperta etimologica ci dà l’impressione (o l’illusione) di toccare con mano la Verità[...]. Spenta la curiosità di scoprire le “radici”, una maggiore libertà ci rimane per scoperte più importanti” [1]
Alberto Savinio si diceva certo che le rovine di Troia fossero quelle scoperte da Schlieman per il fatto che durante la Prima Guerra Mondiale il cacciatorpediniere inglese Agamennon le aveva cannoneggiate: dopo migliaia di anni l’ira funesta di Agamennone aveva spinto quei cannoni a sparare su delle rovine ignote e abbandonate.
Così possiamo dirci certi della presenza di questa Berenice nella recente raccolta [2] di Marco Munaro Berenice, Il Ponte del sale marzo 2014, per il fatto che alcune foglie di quercia del Salento si sono fatte trasportare in macchina fino a Rovigo: se la Berenice di Munaro -la sua Musa dunque- non le avesse animate perché mai queste
...foglie di quercia vallonea
contemplate a lungo nell’autunno instancabile...
avrebbero deciso di lasciare il Salento per apparire quale preludio lirico di questa raccolta poetica(Foglie pag.15) ?
Come sempre i nomi, non che un destino, sono le cose stesse.
Così questa B che si muta in V per generare una Veronica da una Berenice o una Venezia da una Benatky sono giochi con un significato verbale che, insieme alla etimologia e alla paretimologia, (ferenike, portatrice di vittoria; vera ikona, santa immagine) forniscono una privilegiata pista ermeneutica.
In una lucida “trascrittura” del dettato di Berenice/della Poesia, resta, (si spera) inconsapevole in-tensione del poeta, l’allusione ad altre verità attraverso l’istanza del significante di termini come “vetro” , “sudario”, “chioma”, “volto” e ancora “Orione”, “cerbiatta”.
Quanti nomi ci sono in un nome?
si chiede Munaro nella poesia Matera (pag. 63). Proprio in questa poesia , avendo giustamente scartato i giochi di parole intenzionali quali matera=mater o matera=materia, matera= mataio olos= tutto vuoto, resterebbe comunque che sia stato una sorta di lapsus ad aver agito in Munaro nell’istituire una relazione tra gli asfodeli dell’ultimo verso (l’asfodelo si sa rivela la consapevolezza della morte anche nella luce estiva) e l’etimologia propria di mater=avere un utero, generare vita quindi.
E’ qui, come in una “illuminazione” che scopriamo in Berenice la portatrice di una vittoria sulla Vita e sulla Morte e qui che scopriamo in Orione (o Rudra per i Veda) colui che allontana i dolori.
Cosa è la Poesia se non “solo” e “tutto” questo?
Ed ecco quindi che la curiosità appena appagata grazie a queste scoperte etimologiche e alla illusione, che ci hanno regalato, d’aver toccato con mano la Verità, ci porta, come promesso da Savinio, a una maggiore libertà: a scoprire nuove cose, nuovi luoghi.
Giungiamo, per così dire, insieme a Munaro e per suo tramite al Luogo del Cacciatore quello specchio di “cielo” dove splendono stelle/parole che ci ricordano storie antiche che mai smetteranno di accadere. In questo Luogo le stelle e i pianeti possono inseguirsi in una rigorosa retrogradatio cruciata e i loro nomi sciogliere le menti e i cuori, come se fossero la fragranza del suono e del ritmo.
“...Se in ogni parola si cela l’assassino della cosa, che da sempre aspetta una riparazione, da questi nomi emana una sostanza morbida e irradiante che invano cercheremmo tra le cose che sono...”.[3]
E’ qui che comprendiamo che la chioma di Berenice, assunta in cielo, è un regalo che gli dei fanno agli uomini e non l’astuzia dell’astronomo Conone; è qui , in questo cielo mimetico che rivela e occulta e che davvero con una sola corrente divide due terre, qui, dunque, è impresso il volto (la nuca) di Berenice, qui, si mostra e non si mostra il Volto dell'Amore.
Qui la Poesia parla e al poeta non spetta che aspettare e dire:
Sei qui finalmente e mi basta...
Dimmi.
Riferimenti
[1] - A. Savinio, Nuova Enciclopedia, Adelphi, 1977;
[2]- M. Munaro, Berenice, Il ponte del Sale , Marzo 2014;
[3] R. Calasso, Ka, Adelphi, 1996
Alberto Savinio si diceva certo che le rovine di Troia fossero quelle scoperte da Schlieman per il fatto che durante la Prima Guerra Mondiale il cacciatorpediniere inglese Agamennon le aveva cannoneggiate: dopo migliaia di anni l’ira funesta di Agamennone aveva spinto quei cannoni a sparare su delle rovine ignote e abbandonate.
Così possiamo dirci certi della presenza di questa Berenice nella recente raccolta [2] di Marco Munaro Berenice, Il Ponte del sale marzo 2014, per il fatto che alcune foglie di quercia del Salento si sono fatte trasportare in macchina fino a Rovigo: se la Berenice di Munaro -la sua Musa dunque- non le avesse animate perché mai queste
...foglie di quercia vallonea
contemplate a lungo nell’autunno instancabile...
avrebbero deciso di lasciare il Salento per apparire quale preludio lirico di questa raccolta poetica(Foglie pag.15) ?
Come sempre i nomi, non che un destino, sono le cose stesse.
Così questa B che si muta in V per generare una Veronica da una Berenice o una Venezia da una Benatky sono giochi con un significato verbale che, insieme alla etimologia e alla paretimologia, (ferenike, portatrice di vittoria; vera ikona, santa immagine) forniscono una privilegiata pista ermeneutica.
In una lucida “trascrittura” del dettato di Berenice/della Poesia, resta, (si spera) inconsapevole in-tensione del poeta, l’allusione ad altre verità attraverso l’istanza del significante di termini come “vetro” , “sudario”, “chioma”, “volto” e ancora “Orione”, “cerbiatta”.
Quanti nomi ci sono in un nome?
si chiede Munaro nella poesia Matera (pag. 63). Proprio in questa poesia , avendo giustamente scartato i giochi di parole intenzionali quali matera=mater o matera=materia, matera= mataio olos= tutto vuoto, resterebbe comunque che sia stato una sorta di lapsus ad aver agito in Munaro nell’istituire una relazione tra gli asfodeli dell’ultimo verso (l’asfodelo si sa rivela la consapevolezza della morte anche nella luce estiva) e l’etimologia propria di mater=avere un utero, generare vita quindi.
E’ qui, come in una “illuminazione” che scopriamo in Berenice la portatrice di una vittoria sulla Vita e sulla Morte e qui che scopriamo in Orione (o Rudra per i Veda) colui che allontana i dolori.
Cosa è la Poesia se non “solo” e “tutto” questo?
Ed ecco quindi che la curiosità appena appagata grazie a queste scoperte etimologiche e alla illusione, che ci hanno regalato, d’aver toccato con mano la Verità, ci porta, come promesso da Savinio, a una maggiore libertà: a scoprire nuove cose, nuovi luoghi.
Giungiamo, per così dire, insieme a Munaro e per suo tramite al Luogo del Cacciatore quello specchio di “cielo” dove splendono stelle/parole che ci ricordano storie antiche che mai smetteranno di accadere. In questo Luogo le stelle e i pianeti possono inseguirsi in una rigorosa retrogradatio cruciata e i loro nomi sciogliere le menti e i cuori, come se fossero la fragranza del suono e del ritmo.
“...Se in ogni parola si cela l’assassino della cosa, che da sempre aspetta una riparazione, da questi nomi emana una sostanza morbida e irradiante che invano cercheremmo tra le cose che sono...”.[3]
E’ qui che comprendiamo che la chioma di Berenice, assunta in cielo, è un regalo che gli dei fanno agli uomini e non l’astuzia dell’astronomo Conone; è qui , in questo cielo mimetico che rivela e occulta e che davvero con una sola corrente divide due terre, qui, dunque, è impresso il volto (la nuca) di Berenice, qui, si mostra e non si mostra il Volto dell'Amore.
Qui la Poesia parla e al poeta non spetta che aspettare e dire:
Sei qui finalmente e mi basta...
Dimmi.
Riferimenti
[1] - A. Savinio, Nuova Enciclopedia, Adelphi, 1977;
[2]- M. Munaro, Berenice, Il ponte del Sale , Marzo 2014;
[3] R. Calasso, Ka, Adelphi, 1996
lunedì 5 gennaio 2015
Corrado Govoni : cinquant’anni di solitudine
Non esiste riconoscimento più gradito per un poeta di quello ricevuto dalla Musa [1] in persona, da colei, cioè, che è ispiratrice della sua Opera e che da lui viene ripagata con altre e nuove ispirazioni.
E Calliope, sotto mentite spoglie [2], così espresse il suo riconoscimento al poeta di Ferrara:
“...Quell’ebrezza che la sua poesia ci comunicò...non l’abbiamo più trovata nei poeti che ci sono stati parenti più prossimi...La poesia è un’operazione più semplice di un’alchimia, di un’algebra...più vicina ad un arabesco che a una costruzione. Il poeta non deve edificare deve soltanto allineare. Govoni lavorava in plen air, raccoglieva nel suo sacco lungo i grandi pellegrinaggi tutto quello che l’universo gli metteva davanti agli occhi e davanti ai piedi. Assolutamente spoglio di pensieri, idee, di filosofia. Seguiva la sua buona stella come un vagabondo. E in verità non è davvero la merce che fa il venditore. Govoni ci incanta con la sua mercanzia venduta a buon prezzo lì in una baracca suburbana. Il bambino e il vecchio troveranno sempre qualcosa che nessuno aveva mai portato e che avevano desiderato per un anno intero. Verrà, pensavano, il Signor Govoni con la bancarella!”.
Qui la Musa sta dicendo che Govoni è come il Melquiades di Cent’anni di solitudine [3], un vagabondo che rappresenta il collegamento tra Tamara (il paese natale del poeta, in provincia di Ferrara) e il resto del Mondo e come Melquiades con le sue stregonerie, anche Govoni, con la sua arte, salva il “mondo” e la sua “provincia” dalla malattia dell’insonnia, somministrando, contro l’oblio, il suo antidoto, la sua poesia.
Il vagabondaggio di Govoni è un “grande pellegrinaggio sentimentale” che a differenza di quello colombiano di Marquez non richiede cent’anni di solitudine ma solo pochi chilometri di felicità: quelli intorno alla campagna di Tamara e Copparo fino alla grande e misteriosa città vicina[4]:
Era il tempo beato in cui la città
mi sembrava un mistero impenetrabile
di cui si parla come di una cosa
di favole piene d’insidie e meraviglie .
Molti poeti, soprattutto tra gli ermetici, sono stati definiti proustiani (in alcuni casi erroneamente), Corrado Govoni ,tra i crepuscolari, è sicuramente, uno dei più proustiani. La sua recherche è tutta racchiusa nella Casa paterna[4], il luogo dell’infanzia che fu costretto a lasciare “...come peraltro quasi tutti gli artisti estensi del Novecento...[hanno fatto]... per lavorare e affermare il proprio talento...”[5].
L’aspetto topico di questa recherche memoriale è, come dimostrato[6], la coincidenza; vale a dire il desiderio di far coincidere nello stesso luogo due momenti diversi del tempo.
Nella poesia in generale, e in quella crepuscolare in particolare, si trovano molti luoghi ai quali tornare: case d’infanzia, giardini e boschi in cui si è celebrato il primo amore, luoghi reali e fisici caratterizzati dalla loro esclusività, quasi fossero i “ruderi” di una personale archeologia sentimentale. I pellegrini sentimentali solitamente ritrovano facilmente questi luoghi ma non tutti descrivono allo stesso modo la coincidenza spaziale ad essi legata. La semplice formula : Nulla è cambiato, in cui può riassumersi un pellegrinaggio sentimentale, può voler significare esattamente il contrario. Lo stesso si può dire per la formula govoniana [4]Ora tutto è cambiato:
Ora tutto è cambiato. Sparito è l’ampio focolare
che raccoglieva intorno tutta la famiglia
su cui le rocche biancheggiavano
come un gradito presagio di neve;
e il pendolo di legno
dalla mostra annerita dalle mosche
ha lasciato il posto a una sveglia di metallo
dipinta a color di noce;
la scala è stata trasportata altrove
ed il caro granaio pien di topi
e di fresco frumento rifatto
è diviso in due stanze pretenziose
di modernità.
Cosa sperava di trovare Govoni e cosa ha trovato nel suo pellegrinaggio sentimentale? Ma soprattutto cosa ci ha lasciato di questa sua esperienza? Cosa riesce a salvare (nel senso del to save informatico) di quel mondo, per farlo giungere fino a noi?
Del luogo della recherche abbiamo detto ma sarà bene anche inquadrare il tempo di questa ricerca, cioè l’anno in cui Casa paterna è stata scritta : il 1915, quattro anni dopo l’uscita di Poesie Elettriche[7] per l’Edizioni Poesia che segna l’adesione di Govoni al Futurismo (libro ristampato poi da Taddei nel 1920, in un’edizione “riveduta e corretta” e mancante della dedica presente nella prima edizione -“Ai poeti fururisti: F.T. Marinetti / Paolo Buzzi / Gian Piero Lucini” - come fa notare Giuseppe Lasala nella sua bella introduzione all’edizione del 2008).
Nel suo pellegrinaggio sentimentale, dopo aver vagabondato guidato dalla “sua buona stella”, e aver anche dato un’occhiata al futuro dei futuristi - i quali, per ammissione del suo stesso fondatore, non avrebbero dovuto avere un futuro[8]- il poeta giunge finalmente alla “casa paterna” al suo posto delle fragole. Evidentemente la casa paterna non rappresenta solo lo status del ricordo e della memoria; ma anche lo status della sua Poesia: ciò che realmente vale la pena salvare. Il pellegrinaggio sentimentale di Govoni è un sentiero percorso a ritroso alla riscoperta del senso dell'essere, di quello delle cose. La meta del suo camminare indietro non è la fine di una corsa, il trionfo di alcuna impresa o un premio alla carriera: non è il risultato di qualche particolare allenamento fisico, filosofico, ideologico. La sua reale meta è il camminare verso quel luogo dove davvero è instaurata la sua praesentia (pre-essenza) sulla Terra. La vita è certamente uno stare su e giù per una via, un vagabondaggio. Ma proprio questo brulicare vano ed incessante accoglie la più alta richiesta di avere cura di tutto quello che l’universo ti mette davanti agli occhi e ai piedi e di conservare, riconoscere e dunque ritrovare, un 'posto' che sia proprio nel mondo. La memoria dei luoghi dell'infanzia, ci suggerisce Govoni, è il pretesto di ri-considerare la propria vita e 'ricalcolare' le coordinate esatte del nostro stare-al-mondo. Questa memoria poi diventa anche il pretesto per incontrarsi ancora una volta con la Musa
Fu là ch’io nacqui
a questa meraviglia della vita
bella e fugace come un sogno;
là nella stanza di lucenti armadi
profumati di cotogno.
Ed è evidente che lì nacque il poeta, nella dimensione magica e necessaria del mito che è differente dalla semplice storia personale , dalla cronaca delle proprie radici. Così questa nostalgia dell’infanzia, anche poetica, si colora dei sensi di un ampio rimpianto per quel mondo organico, intenso, per quell’età dell’oro che la modernità e il futuro renderanno ( come hanno già reso in pochi anni) irrecuperabile e leggendario. Era ed è nuovamente quello il mondo ritrovato , con il suo ritmo ben scandito dalle stagioni :
Il cambiamento delle stagioni
aveva del miracoloso.
L’inverno era il maiale ammazzato nella neve
...
la primavera erano gli spari di pasqua
le rondini e l’arcobaleno sgocciolante di pioggia
...
l’estate era la trebbiatrice
che andava d’aia in aia
...
l’autunno eran le nebbie, l’uva
ed il seminatore, all’alba
...
e dalle preghiere:
Era un continuo ronzio
di preghiere sotto le finestre:
strane preghiere biascicate, senza senso
oh che immenso valore
devono avere per il buon Signore
le preghiere così sbagliate dei poveri.
Oggi, a cinquant’anni dalla sua scomparsa, possiamo dire che il pellegrinaggio sentimentale del Signor Govoni è il suo modo di ripagare Calliope: dopo tanto tempo, dopo anni di storie tragiche nate anche per gioco, Govoni è sempre lì che ci precede e riappare come un Melquiades, con la sua bancarella di cose magiche, con quell’antidoto necessario a non perdere completamente la memoria e a ritrovare la giusta altezza, il posto delle fragole. E se è vero che “... le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avranno una seconda opportunità sulla terra...” [3], dimenticare un poeta come Corrado Govoni, condannerà questo mondo, questa terra, noi tutti ad una solitudine molto più lunga di cento anni.
Riferimenti
[1]-L’etimologia di Musa ci riporta a mons, alle solitudini montane della Grecia-padane nel caso di Corrado Govoni- e al sentimento di fascinazione che dalla solitudine può scaturire;
[2]- L. Sinisgalli, L’età della luna Mondadori, Milano, 1962;
[3]-G.G. Marquez, Cent’anni di solitudine Oscar Classici Moderni, Mondadori, Milano, 1988;
[4]- C. Govoni, Casa paterna in L’inaugurazione della primavera , A. Taddei & Figli, Ferrara, 1920;
[5]- R. Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, Ferrara, 2013;
[6]- I. Grasso, Coincidenze e strutture topiche della memoria, Status Quaestionis, 4, 2013;
[7]-C. Govoni, Poesie Elettriche a cura di G. Lasala, Quodlibet, Macerata, 2008;
[8]- Quando Filippo Tommaso Marinetti, fondatore e principale teorico del Futurismo, pubblicò il suo famoso manifesto su “Le Figaro” (20 Febbraio 1909), probabilmente già sapeva che, nell’arco di dieci, anni quella rivoluzione si sarebbe di fatto conclusa e, come lui stesso ebbe a dire, <<…si sarebbe dovuto gettare tutto nel cestino…come cose inutili…Noi lo desideriamo!>>.
E Calliope, sotto mentite spoglie [2], così espresse il suo riconoscimento al poeta di Ferrara:
“...Quell’ebrezza che la sua poesia ci comunicò...non l’abbiamo più trovata nei poeti che ci sono stati parenti più prossimi...La poesia è un’operazione più semplice di un’alchimia, di un’algebra...più vicina ad un arabesco che a una costruzione. Il poeta non deve edificare deve soltanto allineare. Govoni lavorava in plen air, raccoglieva nel suo sacco lungo i grandi pellegrinaggi tutto quello che l’universo gli metteva davanti agli occhi e davanti ai piedi. Assolutamente spoglio di pensieri, idee, di filosofia. Seguiva la sua buona stella come un vagabondo. E in verità non è davvero la merce che fa il venditore. Govoni ci incanta con la sua mercanzia venduta a buon prezzo lì in una baracca suburbana. Il bambino e il vecchio troveranno sempre qualcosa che nessuno aveva mai portato e che avevano desiderato per un anno intero. Verrà, pensavano, il Signor Govoni con la bancarella!”.
Qui la Musa sta dicendo che Govoni è come il Melquiades di Cent’anni di solitudine [3], un vagabondo che rappresenta il collegamento tra Tamara (il paese natale del poeta, in provincia di Ferrara) e il resto del Mondo e come Melquiades con le sue stregonerie, anche Govoni, con la sua arte, salva il “mondo” e la sua “provincia” dalla malattia dell’insonnia, somministrando, contro l’oblio, il suo antidoto, la sua poesia.
Il vagabondaggio di Govoni è un “grande pellegrinaggio sentimentale” che a differenza di quello colombiano di Marquez non richiede cent’anni di solitudine ma solo pochi chilometri di felicità: quelli intorno alla campagna di Tamara e Copparo fino alla grande e misteriosa città vicina[4]:
Era il tempo beato in cui la città
mi sembrava un mistero impenetrabile
di cui si parla come di una cosa
di favole piene d’insidie e meraviglie .
Molti poeti, soprattutto tra gli ermetici, sono stati definiti proustiani (in alcuni casi erroneamente), Corrado Govoni ,tra i crepuscolari, è sicuramente, uno dei più proustiani. La sua recherche è tutta racchiusa nella Casa paterna[4], il luogo dell’infanzia che fu costretto a lasciare “...come peraltro quasi tutti gli artisti estensi del Novecento...[hanno fatto]... per lavorare e affermare il proprio talento...”[5].
L’aspetto topico di questa recherche memoriale è, come dimostrato[6], la coincidenza; vale a dire il desiderio di far coincidere nello stesso luogo due momenti diversi del tempo.
Nella poesia in generale, e in quella crepuscolare in particolare, si trovano molti luoghi ai quali tornare: case d’infanzia, giardini e boschi in cui si è celebrato il primo amore, luoghi reali e fisici caratterizzati dalla loro esclusività, quasi fossero i “ruderi” di una personale archeologia sentimentale. I pellegrini sentimentali solitamente ritrovano facilmente questi luoghi ma non tutti descrivono allo stesso modo la coincidenza spaziale ad essi legata. La semplice formula : Nulla è cambiato, in cui può riassumersi un pellegrinaggio sentimentale, può voler significare esattamente il contrario. Lo stesso si può dire per la formula govoniana [4]Ora tutto è cambiato:
Ora tutto è cambiato. Sparito è l’ampio focolare
che raccoglieva intorno tutta la famiglia
su cui le rocche biancheggiavano
come un gradito presagio di neve;
e il pendolo di legno
dalla mostra annerita dalle mosche
ha lasciato il posto a una sveglia di metallo
dipinta a color di noce;
la scala è stata trasportata altrove
ed il caro granaio pien di topi
e di fresco frumento rifatto
è diviso in due stanze pretenziose
di modernità.
Cosa sperava di trovare Govoni e cosa ha trovato nel suo pellegrinaggio sentimentale? Ma soprattutto cosa ci ha lasciato di questa sua esperienza? Cosa riesce a salvare (nel senso del to save informatico) di quel mondo, per farlo giungere fino a noi?
Del luogo della recherche abbiamo detto ma sarà bene anche inquadrare il tempo di questa ricerca, cioè l’anno in cui Casa paterna è stata scritta : il 1915, quattro anni dopo l’uscita di Poesie Elettriche[7] per l’Edizioni Poesia che segna l’adesione di Govoni al Futurismo (libro ristampato poi da Taddei nel 1920, in un’edizione “riveduta e corretta” e mancante della dedica presente nella prima edizione -“Ai poeti fururisti: F.T. Marinetti / Paolo Buzzi / Gian Piero Lucini” - come fa notare Giuseppe Lasala nella sua bella introduzione all’edizione del 2008).
Nel suo pellegrinaggio sentimentale, dopo aver vagabondato guidato dalla “sua buona stella”, e aver anche dato un’occhiata al futuro dei futuristi - i quali, per ammissione del suo stesso fondatore, non avrebbero dovuto avere un futuro[8]- il poeta giunge finalmente alla “casa paterna” al suo posto delle fragole. Evidentemente la casa paterna non rappresenta solo lo status del ricordo e della memoria; ma anche lo status della sua Poesia: ciò che realmente vale la pena salvare. Il pellegrinaggio sentimentale di Govoni è un sentiero percorso a ritroso alla riscoperta del senso dell'essere, di quello delle cose. La meta del suo camminare indietro non è la fine di una corsa, il trionfo di alcuna impresa o un premio alla carriera: non è il risultato di qualche particolare allenamento fisico, filosofico, ideologico. La sua reale meta è il camminare verso quel luogo dove davvero è instaurata la sua praesentia (pre-essenza) sulla Terra. La vita è certamente uno stare su e giù per una via, un vagabondaggio. Ma proprio questo brulicare vano ed incessante accoglie la più alta richiesta di avere cura di tutto quello che l’universo ti mette davanti agli occhi e ai piedi e di conservare, riconoscere e dunque ritrovare, un 'posto' che sia proprio nel mondo. La memoria dei luoghi dell'infanzia, ci suggerisce Govoni, è il pretesto di ri-considerare la propria vita e 'ricalcolare' le coordinate esatte del nostro stare-al-mondo. Questa memoria poi diventa anche il pretesto per incontrarsi ancora una volta con la Musa
Fu là ch’io nacqui
a questa meraviglia della vita
bella e fugace come un sogno;
là nella stanza di lucenti armadi
profumati di cotogno.
Ed è evidente che lì nacque il poeta, nella dimensione magica e necessaria del mito che è differente dalla semplice storia personale , dalla cronaca delle proprie radici. Così questa nostalgia dell’infanzia, anche poetica, si colora dei sensi di un ampio rimpianto per quel mondo organico, intenso, per quell’età dell’oro che la modernità e il futuro renderanno ( come hanno già reso in pochi anni) irrecuperabile e leggendario. Era ed è nuovamente quello il mondo ritrovato , con il suo ritmo ben scandito dalle stagioni :
Il cambiamento delle stagioni
aveva del miracoloso.
L’inverno era il maiale ammazzato nella neve
...
la primavera erano gli spari di pasqua
le rondini e l’arcobaleno sgocciolante di pioggia
...
l’estate era la trebbiatrice
che andava d’aia in aia
...
l’autunno eran le nebbie, l’uva
ed il seminatore, all’alba
...
e dalle preghiere:
Era un continuo ronzio
di preghiere sotto le finestre:
strane preghiere biascicate, senza senso
oh che immenso valore
devono avere per il buon Signore
le preghiere così sbagliate dei poveri.
Oggi, a cinquant’anni dalla sua scomparsa, possiamo dire che il pellegrinaggio sentimentale del Signor Govoni è il suo modo di ripagare Calliope: dopo tanto tempo, dopo anni di storie tragiche nate anche per gioco, Govoni è sempre lì che ci precede e riappare come un Melquiades, con la sua bancarella di cose magiche, con quell’antidoto necessario a non perdere completamente la memoria e a ritrovare la giusta altezza, il posto delle fragole. E se è vero che “... le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avranno una seconda opportunità sulla terra...” [3], dimenticare un poeta come Corrado Govoni, condannerà questo mondo, questa terra, noi tutti ad una solitudine molto più lunga di cento anni.
Riferimenti
[1]-L’etimologia di Musa ci riporta a mons, alle solitudini montane della Grecia-padane nel caso di Corrado Govoni- e al sentimento di fascinazione che dalla solitudine può scaturire;
[2]- L. Sinisgalli, L’età della luna Mondadori, Milano, 1962;
[3]-G.G. Marquez, Cent’anni di solitudine Oscar Classici Moderni, Mondadori, Milano, 1988;
[4]- C. Govoni, Casa paterna in L’inaugurazione della primavera , A. Taddei & Figli, Ferrara, 1920;
[5]- R. Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, Ferrara, 2013;
[6]- I. Grasso, Coincidenze e strutture topiche della memoria, Status Quaestionis, 4, 2013;
[7]-C. Govoni, Poesie Elettriche a cura di G. Lasala, Quodlibet, Macerata, 2008;
[8]- Quando Filippo Tommaso Marinetti, fondatore e principale teorico del Futurismo, pubblicò il suo famoso manifesto su “Le Figaro” (20 Febbraio 1909), probabilmente già sapeva che, nell’arco di dieci, anni quella rivoluzione si sarebbe di fatto conclusa e, come lui stesso ebbe a dire, <<…si sarebbe dovuto gettare tutto nel cestino…come cose inutili…Noi lo desideriamo!>>.
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