Quando viene presentato un libro di poesie non si può prescindere , qualora fosse presente, dalla nota dell’autore. In questo caso siamo più fortunati perchè il poeta che tratterò in questo Post non si è limitato a scrivere una breve nota d’autore ma ha risposto a una domanda con LA domanda bella e impressa su una pagina che mi ha pregato di leggere durante la presentazione e che io riscrivo qui:
“...siamo aggrappati a chi, a cosa? Il titolo di questa silloge non lo dice , non vi è nemmeno un sottotitolo; lo dice una poesia, “Col di Lana”...Col di Lana, per chi non lo sapesse, è un monte che domina Livinallongo, si affaccia sula val Prola e sul Falzarego. In cima a questo monte vi era una trincea asburgica. Gli italiani, per conquistare la posizione, scavarono una galleria che riempirono di dinamite (5000 kg) e fecero esplodere nella notte tra il 17 e il 18 aprile 1916: rimasero un cratere e 150-200 morti (notizie imprecise – 140 furono i prigioneri). La salita a questo monte, oggi, dalla val parola, è ripida e il sentiero è attrezzato con un cavo ferrato, da qui l’idea del titolo del libro Aggrappati stiamo, stiamo aggrappati al filo, come lo stavano coloro che sono morti su quella cima, in quella trincea, aggrappati al filo della vita , a questo TEMPO* che ci consuma. Viviamo nell’inafferrabile presente, cercando di realizzare un futuro...un’Utopia; ma resta solo un passato alle spalle...e una labile MEMORIA*. Per fortuna che ogni anno...” [Claudio Gamberoni]
*nell’originale in minuscolo
Quel filo dunque parrebbe essere il TEMPO, la MEMORIA: è l’autore stesso che sembra suggerirlo, anche se, sempre lui, subito dopo confessa:
“...mi sento di sottolineare il fatto che vi sono delle poesie o dei versi che SI** scrivono per dare un senso, un significato a delle percezioni avute/sentite; mentre altri versi o poesie si scrivono anche se appaiono incomprensibili...il significato la loro comprensione avverrà nel tempo, o addirittura varierà nel tempo. É dare alla poesia un valore profetico?...” [Claudio Gamberoni]
**nell’originale in minuscolo
Già. Proprio così. Cominciamo allora le nostre ...variazioni e azzardiamo, noi, noi tutti aggrappati, una risposta alla domanda: “a che cosa siamo aggrappati?”
Ricopio una poesia di Claudio Gamberoni (tratta da questa sua ultima raccolta Aggrappati stiamo, Edizioni Kolibris, Ferrara 2017) e la riscrivo svestendola dalla testa ai piedi, cioè privandola di quasi tutto il suo aspetto formale (prosodico e strofico) e lasciando, propriamente nudo, il linguaggio cristallizzato (le parole una dietro l’altra, la scrittura):
...e allora io chiedo con tutta la forza del grido, della voce, del pensiero: “se le albe non tornassero a scacciare le notti, come giungono i tramonti a scacciare i giorni e se le stagioni anch’esse non tornassero nel loro in-saputo inseguirsi, avremmo noi il tempo inventato? Ci sarebbe un tempo per questa vita? Che senso avrebbe il tempo in un viaggio senza ritorno?” [...e allora io chiedo con tutta la forza, pg.39].
Il Tempo è una invenzione o una scoperta? Certamente questa domanda non sussisterebbe riferendoci alla scrittura poetica di Gamberoni: in questa, infatti, il poeta predilige l’azione al termine del sentiero/sentire con un uso praticamente sistematico di un verbo (un agire) al termine del verso: noi dunque avremmo inventato il tempo se non avessimo memorizzato albe e tramonti (facile da fare), le stagioni (meno facile), i cicli vitali (difficile), quelli universali (molto più difficile)?
Questo direbbe/chiederebbe quell’ ”inventato” al termine del verso.
Ma nella svestizione che ho effettuato, questo Tempo più che una nostra invenzione risulterebbe quella di un Dio o di un Demone che non vuole essere…dimenticato e che pertanto si incide nella Sua creazione attraverso la Memoria dei giorni, delle stagioni, delle vite, delle Creazioni: tutte tracce che un poco alla volta noi uomini siamo riusciti e riusciamo a...ricordare.
Avremmo noi, possederemmo dunque, questo Tempo inventato da un Dio senza l’ in-saputo inseguirsi della Memoria?
Che non possa esserci dato il Tempo senza la Memoria, e viceversa, lo dice la fisica ma anche il buon senso. In un certo qual modo la memoria è il corpo del tempo: gambe e braccia di sicuro. Se afferro l’ attimo cancello il tempo ma se quell’attimo non lo afferro qui-ora, lo rincorrerò già nel domani pur essendo ancora qui, ora.
Leggendo questi pochi paragrafi ci rendiamo subito conto che, come dice Carlo Sini [1]: “...l’atto della scrittura non è innocente, non è ovvio. Ogni volta che noi scriviamo...” e, aggiungo, a seconda di come scriviamo (in versi o in prosa), “... presupponiamo un passaggio dalla parola orale a quella scritta...” ma anche quello da una “realtà” a una logica e quindi da un Nulla a un Tempo-Memoria.
In filosofia e in scienza questo passaggio dal Nulla ad un Essere che Scorre (la strana medaglia Tempo/Memoria) sembrerebbe emergere dalla scrittura alfabetica. Carlo Sini è molto esplicito su questo punto:
“...mi sono fatto l’idea che l’Occidente abbia imboccato la via della logica perché disponeva di una scrittura lineare, cioè di una scrittura alfabetica altamente idealizzante...” (la Mistica, se così fosse, sarebbe roba da scritture consonantiche!)
Pertanto alla Poesia (con scrittura alfabetica) non resta altro da fare che dissimulare questa linearità attraverso ring-composition, metafore, ossimori, e tanti altri innumerevoli intralci alla logica.
La logica per funzionare ha bisogno di tempo e memoria (di causa ed effetto, di prima e dopo) e quindi, la poesia, viceversa, per “funzionare” ha bisogno di neutralizzare la logica, cioè neutralizzare il Tempo e la Memoria e come lo fa? Nell’unico modo possibile come ci ricorda R.Frost [2]: “Il modo migliore per venirne fuori è sempre buttarsi dentro.”
E Claudio Gamberoni in questa sua raccolta si tuffa nel Tempo e nella Memoria:
“il presente è l’assedio di una schiera di ieri”/(non so chi questo disse: la Spaziani?).//Resta il futuro l’unica via di fuga-/per noi speranza detto-//quel che domani diremo: “il destino,/l’ineluttabile nostro destino,/essere stato”. [Aggiungo io, pg. 26]
La scrittura alfabetica (per queste sue caratteristiche di linearità e capacità idealizzante) rimanda alla distinzione platonica di “anima” e “corpo” rimanda cioè alla stessa distinzione che nella scrittura esiste tra segno (che è sensibile) e il significato (ossia il sovrasensibile); ma per queste sue stesse caratteristiche la scrittura alfabetica porta a uno stallo: l’impossibilità di ridurre al segno, alla parola scritta, qualcosa che è esprimibile solo con il silenzio!
È questa la situazione in cui è precipitata nel corso degli anni la scrittura poetica: ricondurre alla parola, al segno, tutte quelle cose che ormai andavano perdendo di senso anche e grazie alla scrittura alfabetica.
Il tempo, la memoria, insieme ai grandi sistemi di logica, alle costruzioni filosofiche e teologiche fanno sempre più i conti con la perdita del senso, con la frammentazione, con la complessità assurta ad ambiente naturale.
E nel nostro mondo di rovine strutturate il poeta stesso ricorda che...questo futuro...oggi è solamente un lontano ricordo. (da Mia memoria, pg.80).
Non si ravvede qui, in un tale paesaggio, nessuna possibile mediazione tra uomo e mondo. Il poeta sembra sentire che non il tempo - non più - non la memoria - non più - e nemmeno più una semplice e semplicistica parola potranno darci conforto (siamo quasi alla massima entropia, fuori tempo massimo dunque, e alla minima energia, senza più memoria).
Resta solo una cosa da fare: un esercizio della parola, quell’azione cioè di aggrapparci ad essa come al filo di Col di Lana [pg.58]:
Capitano, tremare sento l’intera notte/il filo a cui tutti aggrappati stiamo/qui, su questa montagna.//Il nemico nel buio scavare il monte sembra -/un’immensa polveriera di anime/e dinamite siamo//un lampo di luce saremo quando/noi, il tutto...esploderemo.
Anche se tutto dovesse esplodere, qualcuno, qualcuno si salverà e se resterà aggrappato potrà tornare indietro nel riparo scavato sul monte prima che qualunque cosa iniziasse, accadesse e ne restasse traccia.
Stordito, ma vivo, quel qualcuno potrà rientrare e riposare in un vecchio tratto di trincea, una caverna e invocare l’attesa di una voce:
Cosa aspetti mio Dio?/dimmelo: cosa aspetti?/Non vedi? Non senti?//Ho la memoria stanca!/stanca che altra vita non vuole più,//più non vuole,ricordare. [Ho la memoria stanca, pg. 82]
Quel dimmelo (l’imperativo rivolto a Dio!) è un richiamo al senso della Parola di quella Parola che, come recita l’inizio della Genesi, Bereshìt barà Elohìm : In (ogni/questo) Principio Dio creò.
Prima di queste rovine, che Tempo e Memoria ci ricordano nella loro logicità nella loro realtà fisica come fosse l’ineluttabile filo a cui aggrapparsi per sopravvivere, c’era un luogo, una “caverna naturale” dove rifugiarsi. Un luogo che veniva mantenuto segreto e difeso dagli assalti circondandolo di massi e di segni incisi sulle pareti, proteggendolo anche con una semplice figura d’animale o una bait (la prima lettera della parola bereshìt è bet, ב, che significa casa, dimora, sede stabile compresa tra cielo e terra)
Dobbiamo quindi abitare queste rovine nello stesso modo in cui abitavamo quella caverna: riunendoci intorno al fuoco, ascoltando una Parola che non racconta nulla: come potrebbe farlo senza Tempo e senza Memoria; senza una logica!
È una Parola che però parla, parla il canto degli uccelli, il fruscio degli alberi, lo scrosciare della sorgente, il galoppo degli uri nelle pianure, la discesa lenta dei fiocchi di neve.
“...è una Parola che, appunto, parlando pone dei limiti all'attività della mente, che non si perde in fantasticherie inutili, che stabilisce il giusto distacco che si deve avere verso il passato: la memoria è un valore da tramandare, ma se il passato diventa ossessione da cui non ci si riesce, o peggio, non ci si vuole liberare, si trasforma in palude spirituale. Ecco dunque la "casa" dell'uomo, bene isolata dagli eccessi e aperta verso il futuro, nel verso [sic!] della scrittura.” [3]
È la Parola che serve a restare aggrappati alla vita, a rigenerarla e a rigenerarsi, la parola che emerge a quella giusta distanza tra il rumore e il silenzio; è quel fruscio impercettibile che avvertiamo quando la moneta con le due facce Tempo e Memoria, gira vorticosamente in aria.
Una parola che non sa di passato, di presente e di futuro che non sa nulla di tutto questo ma che è lì a portata di mano per sollevarci da un peso che ci trascinerebbe giù dalla montagna, una parola, dunque, che si lascia afferrare per alleggerire la salita.
Tu non sai quanto dista/dal rumore il silenzio//il passo sulla sabbia/l’impronta che non resta//e il vento che cancella /tutto portando via/nel nulla di un ricordo.//tu nulla sai di questo. [Tu nulla sai di questo, pg.77].
Sì, è proprio vero come dice Gamberoni nella sua introduzione: “...un’ombra s’aggira tra le pagine di Aggrappati stiamo, un’ombra che si nasconde nella luce: è l’UTOPIA, quella luna riflessa che resta sul fondo dell’antica fonte...” una LUNA che nulla sa di Tempo, di Memoria, nulla di tutto questo.
Una LUNA che ...luneggia e illumina l’oscurità
La PAROLA che... parabola e dà voce al silenzio.
Riferimenti
[1] – C. Sini Scrivere il silenzio, Egea (1994);
[2] – R. Frost, da A Servant of Servants in Conoscenza della notte e altre poesie, trad. di Giovanni Giudici, Einaudi (1965);
[3] - http://yaronapinhas.com/index.php?option=com_content&view=article&id=77:bereshit-bara&catid=11:articles&Itemid=93&lang=it