giovedì 1 dicembre 2022
Christian Bobin: la vita e nient'altro
Il 25 Novembre è scomparso il poeta francese Christian Bobin. A molti questo nome non dirà molto, ma il Post delle fragole è pieno dei suoi silenzi, della sua discrezione e del suo dono.
“Scrivere è un modo di rispondere alla vita. Abbiamo sempre bisogno di rispondere a un dono con un altro dono, non per sdebitarci, ma per continuare a donare e ricevere, senza fine”. Così scrive Bobin in Mozart e la pioggia (AnimaMundi Edizioni, 2015).
E dunque se la vita è un dono , un munus, per la communitas, un qualcosa cioè da condividere con altri, allora questo dono va ricambiato con una speciale attenzione e cura a sé e agli altri; questo dono va ricambiato con qualcosa che possa consentire una sorta di immunitas di gregge, un vero e proprio vaccino per affrontare l’irrimediabile dualità della vita, una immunizzazione collettiva per prendersi cura della vita in toto.
La scrittura dunque è, per Bobin, il pharmakon che è contemporaneamente veleno e cura proprio come lo è la parola per sua natura: ambigua. In questo Bobin pur privilegiando la prosa, è Poeta.
“La santità non è affatto ciò che immaginiamo. Oggi ho incontrato una schiera di primule che chiacchieravano all’aria aperta e facevano delle loro chiacchiere una preghiera che saliva dritta al cielo. Il loro cuore era aperto alle piogge, alla siccità e persino allo sradicamento. Non scegliere tra ciò che viene, era il loro modo impeccabile di essere sante. Mi rigiravo nei miei pensieri quando mi sono apparse ai lati della strada, offrendo alla luce la culla colorata dei loro petali. Il vento ne faceva vibrare le forme, stampando su uno sfondo d’erba un testo degno di lode. La maggior parte di coloro che incontro mi fanno pena. Vedo un’ombra – un dispiacere, un’assenza, una mancanza – che attraversa i loro occhi anche quando ridono, come una lucertolina che si infila fra due pietre, timorosa di essere intravista. Ed io sono simile a loro. Il mio cuore batte nel buio. La vita si rattrista perché può attenderci solo di rado. Con noi è come una madre disposta a dare il cuore per sfamare i suoi bambini e i suoi bambini non vogliono assaggiare quest’alimento sublime e nemmeno sentirne parlare. Lo splendore delle primule, per giungere sino a me, aveva dovuto squarciare la notte che mi circonda il cuore. Considero un miracolo vedere cose poverissime. Non mi stanco di questi miracoli, e sono davvero incapace di spiegare perché a volte non c’è nulla e altre volte c’è tutto. Il paradiso sarebbe vivere un’intera giornata come una sola di queste primule.”[ Da Resuscitare, AnimaMundi Edizioni, 2003]
Nulla può essere detto in maniera definitiva proprio per l’ambiguità della parola ma è proprio questa molteplicità di significato che rende la poesia un dono per il mondo, producendo il miracolo di vedere cose poverissime e accostarsi silenziosamente e rispettosamente a Chi Non Sa Nulla, a chi ha dimenticato anche il suo nome perché E' tutti i nomi.
Chi Non Sa Nulla cosa potrà mai dire all’uomo che grazie alla parola lo interroga?
Ecco, forse, l’opera di Christian Bobin, a cominciare dal suo famoso libretto sul Santo di Assisi, potrebbe aiutarci ad “ascoltare con gli occhi” e a “guardare con le orecchie”, a vivere qualche secondo come una sola di quelle primule.
Bobin è morto nella sua casa di campagna in Borgogna non lontano dal suo paese d’origine, Le Creusot, dove era nato nel 1951. Qui circondato dalla natura ha condotto la sua opera e la sua vita ritirata a testimonianza di una gioia sempre a portata di mano pur nell’irriducibile dualità e ben sapendo che il fondo della vita è simultaneamente terrificante e bello.
Essendo la sua opera una riflessione sull’arte letteraria e quindi, come scambio di doni, sulla vita, quando scriveva usava espressioni come questa : «scrivere è disegnare una porta su un muro invalicabile, e poi aprirla» o ancora «la posta in gioco è sempre una gaiezza fondamentale, conservare il sentimento lieto del dono della vita».
I suoi modelli sono stati quelli che puntavano a rendersi degni della Perfezione perché «le anime sono dei compassi la cui punta trema al momento di piantarsi: solo i santi tracciano il cerchio perfetto». Da qui la sua ammirazione per la semplicità e per le cose minuscole, per quegli autori che più si rileggono e più mostrano nuove profondità. Autori che mostrano la sacralità della parola e la purezza della vita senza alcuna pretesa di insegnare qualcosa o di svelare un mistero.
lunedì 11 luglio 2022
...è un mondo di domande o di risposte?...
Molti mi chiedono: «Perché ti piacciono gli haiku?».
«Perché sono epigrammi lirici», rispondo, rendendomi immediatamente conto che questa non potrà essere presa da tutti come una risposta chiara ed esauriente:
è di risposte/
è un mondo di risposte/
oppure oppure…/.
Già: è questa la questione delle questioni; siamo al mondo per farci delle domande o per cercare delle risposte? Detta in un altro modo: le risposte sono qui davanti a noi e non le troviamo per mancanza di …connessioni sufficienti; oppure, qui davanti a noi si parano, e continueranno a pararsi - insoddisfatte - le domande dalle infinite risposte?
E dunque gli haiku, nella loro laconica brevità con quella inesauribile risonanza, mi paiono racchiudere contemporaneamente tutte le domande per una singola risposta e, viceversa, tutte le risposte a una singola domanda.
Come sia possibile che una manciata di parole raccolte in 17 sillabe, suddivise in tre versi, possano dare questa sensazione è un mistero (yugen in giapponese):
lago vetusto/
una rana si tuffa/
rumore d’acqua/.
Tutto qui? Tutto qui, perché il lago non è propriamente un lago e quel vetusto non è un dato (numerico) di “certezza scientifica” e la rana, il rumore sono entrambi…anfibi, ambigui e…trasmigranti. Simbolicamente ed effettivamente.
Tutto, davvero tutto, è qui.
Proprio per questo gli haiku mi piacciono; «perché», come ho detto, «sono epigrammi lirici», e come tali, mi catturano per la loro formale brevità e per quella sostanziale risonanza che li contraddistingue; perché hanno a che fare con… il rumore di fondo dell’esistenza, quello che i metafisici Indù chiamerebbero prajāpati, il ronzio costante che precede ogni profilo sonoro, quel silenzio dietro al quale si avverte qualcUno che opera, se non proprio qualCosa in azione.
Ecco gli haiku hanno a che fare con un complesso di forze ignote e incontrollabili che sembrano osservare e sostenere tutto ciò che accade. Domande e risposte comprese.
Potremmo chiamarlo, questo insieme di forze, prajāpati, appunto, oppure percezione ambientale (umwelt) o anche yugen.
Più “semplicemente” Kate Tempest lo chiama connessione creativa.
Ka(t)e Tempest (Westminster, 22 dicembre 1985) è un(a) rapper, poeta, compositrice, scrittrice, drammaturga e performer britannica.
Nel 2013 ha vinto un Ted Hughes Award per il suo album in studio Brand New Ancients ed ha ricevuto la nomina di Poeta della Nuova Generazione dalla Poetry Book Society, un riconoscimento assegnato una volta ogni decade. I suoi dischi Everybody Down e Let Them Eat Chaos sono stati nominati per il Mercury Music Prize. Il secondo è accompagnato da una raccolta di poesie (pubblicata in italiano da edizioni e/o, Che mangino caos), che a sua volta ha avuto una nomination per il Costa Book of the Year nella categoria "Poesia". Il suo romanzo d'esordio The Bricks That Built the Houses è stato un bestseller del Sunday Times e ha vinto un Books Are My Bag Readers per il miglior autore esordiente.
Quest’anno è stato tradotto il suo primo saggio, Connessioni (edizioni e/o), che è una riflessione sul potere della creatività e , a suo modo, la testimonianza di quel complesso di forze ignote e incontrollabili che osserviamo per osservarci e che sosteniamo per sostenerci.
Ogni istante della nostra giornata, nella sua inevitabile brevità, è un'ottima occasione per connetterci: chiunque appartenga a una generazione che va dai millennials in avanti potrebbe abbinare il termine "connessioni" a qualcosa di digitale. Ma pur essendo Kae Tempest una fiera rappresentante della categoria dei nativi digitali, in questo saggio invita a focalizzarci su di un altro tipo di connessione. Kae Tempest (si) ci chiede se siamo sicuri che in quest'epoca di iperconnettività ci possiamo definire davvero legati - o connessi - gli uni agli altri o più semplicemente connessi come potrebbero esserlo il “lago vetusto”, la “rana” e il “rumore d’acqua” nel nostro haiku.
In una società iper-individualista, competitiva e insostenibile (ambientalmente, socialmente ed economicamente), Tempest ci invita a uscire dal nostro "torpore …antropico", reazione (domanda o risposta?) alla crisi globale che, paradossalmente, porta a raggomitolarsi sempre di più su sé stessi.
A questo intorpidimento si può reagire in un solo modo: essere creativi.
Il saggio di Kae Tempest guarda alla creatività come il mezzo per contrastare l’intorpidimento del mondo moderno.
Più esplicitamente, Tempest prende le mosse da Il Libro Rosso di Carl Gustav Jung e dalla sua teoria che dentro ognuno di noi risiedono un “spirito delle profondità” e uno “spirito del tempo”. Quest’ultimo, detto altrimenti l’ego quotidiano, si preoccupa di obiettivi e ambizioni più immediate.
Entrambi gli spiriti sono necessari, scrive Tempest, ma li abbiamo sbilanciati.
Per ritrovare il nostro equilibrio, dobbiamo recuperare la capacità di andare in profondità (come la rana) e riproporre ancora una volta le stesse domande sul “rumore di fondo dell’esistenza”, su quel “silenzioso ronzio” che precede ogni profilo sonoro e perfino ogni emissione vocale legata alla nostra iper-individualità.
Ogni capitolo del saggio è preceduto da citazioni di William Blake, aforismi che ricalcano quella laconica brevità degli haiku della quale parlavo all’inizio e che continuano a risuonare nelle parole di Kae Tempest a commento delle citazioni, parole che si allargano come i cerchi provocati dal tuffo della rana in uno stagno antico e profondo come l’universo.
La creatività , come diceva Blake, risiede in qualcosa che viene prima della percezione sensibile, una percezione visionaria che lui chiamava vortice. Per Kae Tempest questo vortice nasce dal quotidiano, dalla fatica. Da appunti scritti o scarabocchiati a penna sul taccuino e poi sistemati al computer, dalle sue barre rap e dalla sua musica.
Ritmi, colori, versi che sono al tempo stesso percezione visionaria e percezione sensibile, cioè connessioni tra un mondo di domande e un mondo di risposte.
giovedì 23 giugno 2022
Patrizia Cavalli: una breve nota
Mi sono sforzato di trovare un incipit degno per ricordare con la presente nota,
Patrizia Cavalli, poeta italiana, venuta a mancare - a noi e a tutte le parole -
pochi giorni fa. Poi questa parolina, appunto, che ho scelto per definire questo
testo: nota, ha prodotto nel momento stesso di disporsi sul foglio una
deviazione ai miei pensieri e al mio progetto originario.
Una nota è una nota e richiede solo …ascolto. La poesia di Patrizia Cavalli è
quanto di più simile alla musica si possa ascoltare, o meglio ancora, provare.
Perché la musica mette alla prova tutto noi stessi. Mette alla prova il corpo
che ha voglia di seguire il ritmo: dita che tamburellano su una superficie; mani
a voler afferrare i suoni che scorrono per aria; piedi a produrre passi e balzi
per affrancarsi dal massimo peccato:
Addosso al viso mi cadono le notti/ e anche i giorni mi cadono sul viso./ Io
li vedo come si accavallano/ formando geografie disordinate:/ il loro peso non
è sempre uguale,/ a volte cadono dall’alto e fanno buche,/ altre volte si
appoggiano soltanto/ lasciando un ricordo un po’ in penombra./ Geometra perito
io li misuro/ li conto e li divido/ in anni e stagioni, in mesi e settimane./
Ma veramente aspetto/ in segretezza di distrarmi/ nella confusione perdere i
calcoli,/ uscire di prigione/ ricevere la grazia di una nuova faccia./ È tutto
così semplice,/ sì, era così semplice,/ è tale l’evidenza/ che quasi non ci
credo./ A questo serve il corpo:/ mi tocchi o non mi tocchi,/ mi abbracci o mi
allontani./ Il resto è per i pazzi./
[da Le mie poesie non cambieranno il mondo, 1974)] E insieme al corpo, la poesia mette
alla prova lo spirito che pare appartenere a quel mondo invisibile di vibrazioni
così accordato alle melodie da produrre risonanze e battimenti in grado di
cullarti ma anche frantumarti come succede a un vetro costretto all’ infisso che
reagisce al motore di un auto:
Io guardo il cielo, il cielo che tu guardi/ ma io non vedo quello che tu
vedi./ Le stelle se ne stanno dove sono,/ per me luci confuse senza nome,/ per
te costellazioni nominate/ prima che il sonno scioglierà il tuo ordine./ Ah,
sognami senza ordine e dimentica/ i tanti nomi, fammi stella unica:/ non
voglio un nome ma stellarti gli occhi,/ esserti firmamento e vista chiusa,/
oltre le palpebre, splenderti nel buio/ tua meraviglia e mia, immaginata./
[da Vita meravigliosa, 2020] E con il corpo e lo spirito, anche la mente viene
messa alla prova dalla poesia nel suo dilatarsi in un bing bang privato, piccola creazione in
grado di produrre tipi di particelle ancora sconosciute e nuove onde per
galassie e stelle nuove:
Io scientificamente mi domando/ come è stato creato il mio cervello,/ cosa ci
faccio io con questo sbaglio./ Fingo di avere anima e pensieri/ per circolare
meglio in mezzo agli altri,/ qualche volta mi sembra anche di amare/ facce e
parole di persone, rare;/ esser toccata vorrei poter toccare,/ ma scopro
sempre che ogni mia emozione/ dipende da un vicino temporale./
[da L’io singolare proprio mio, 1992] In un Universo dove la materia impersonale
esiste per sempre, mentre l'esistenza personale si estingue alla morte, quello
che può sopravvivere di un essere è una voce, una semplice nota o come dicevano
i Greci: la rinomanza. Per questo l’ immortalità, condizione propria degli dei e
inaccessibile agli esseri umani, è riservata a questa poeta e a questa poesia.
venerdì 29 aprile 2022
La pistola di Cechov e il papavero di Zanzotto
Il 25 Aprile giorno della Festa della Liberazione ho citato la seguente poesia di Andrea Zanzotto percependone la potenza e non soffermandomi sulla “utilità” o meno del testo a dare effettivo corpo alla celebrazione.
Eppure, eppure c’è un nesso chiaro fra questo papavero e la cosiddetta “pistola di Cechov” e, come vedremo, un nesso preciso tra poesia e verità.
Ecco la poesia:Papaveri -
fiammelle qua e là per prati/
friggono luci disperse ognuna in sé/
quelle siamo noi, racimoli del fuoco/
che pur disseminando resta pari a se stesso/
è zero che dona, da zero, il suo vero.
[Andrea Zanzotto, da Conglomerati, Mondadori, 2009 - Lo specchio Poesia - pag.121]
“Se in un racconto compare una pistola, bisogna che prima o poi spari”
La frase è del grande scrittore Anton Čechov e viene ritenuta un principio fondamentale della drammaturgia narrativa, cinematografica e teatrale.
In questo tempo di guerra che stiamo vivendo, questa stessa frase nella sua essenza grammaticale e semantica potrebbe essere usata come un manifesto pacifista ante litteram: se in uno scenario di guerra compaiono armi, quelle armi prima o poi spareranno. Ma non è di questo che si vuole parlare quanto, come anticipato, della stretta connessione tra poesia e verità.
La tecnica soprannominata “la pistola di Cechov”, che in termini tecnici è detta anche anticipazione, è molto sofisticata e produce, in qualunque storia, un vero e proprio salto di qualità primo perché serve a introdurre fin dall’inizio un elemento che nella conclusione si rivelerà fondamentale e secondo perché impone di non inserire nella trama elementi superflui e inutili ai fini della storia stessa.
La pistola di Cechov è uno stratagemma che serve per produrre un colpo di scena finale, il ribaltamento, la sorpresa e può condurre il lettore a scoprire una verità insospettata sulla natura del protagonista o di qualsiasi altro personaggio compreso un… papavero.
Molti autori hanno preso le distanze da questo stratagemma, considerandolo una sorta di artificio che non ha niente a che vedere con la realtà. Come si sa gli scrittori del romanzo realistico bocciano in pieno tutto ciò che non ha a che fare con le vicende della vita.
È però vero che la realtà casuale e monotona non può appartenere alla narrativa senza essere romanzata e infatti tutte le storie vere, anche le cronache come quelle ad esempio tratte da una guerra, dalla biografia di soldati, di partigiani o di semplici vittime civili, spesso sono edulcorate da un racconto giornalistico, cinematografico e romanzesco, rivestite cioè di un’aura epica, che poco ha a che vedere con la prosaicità della vita vera.
La poesia viceversa rifugge (dovrebbe farlo) da tutto questo e appunto - ut pictura poesis - si limita a svelare cioè a rendere visibile quel vero con uno stratagemma analogo alla “pistola” e lo fa non per profusione ed edulcorazione ma, al contrario, per sottrazione e pudore.
Il papavero è il fiore del pudore: arrossisce come fanno tutte le persone timide. Ma questo racimolo di fuoco, brace che frigge al vento è ambasciatore di… (papa)Vero.
Il principio del…papavero di Zanzotto serve a sottolineare che in una poesia ogni sillaba deve avere una funzione vocale, musicale e non può essere messa lì a caso.
Il legame introdotto tra papavero e pudore viene fortificato riga dopo riga per sottrazione fino ad arrivare a zero, senza quasi lasciare traccia di sé pervenendo cioè a un vuoto così pieno di ogni significato: fuoco che pur estendendosi resta sempre uguale.
E così quello zero che dona quella voragine che ci guarda è la …fossa comune che continua a diventare prato, a ospitare cadaveri ravvivanti e ravvivati, corpi materiali mutati in luci disperse e racimoli di fuoco.
Se in una poesia di Zanzotto compare un papavero, prima o poi il papavero ci svela lo zero, il vero.
mercoledì 5 gennaio 2022
La verità , vi prego, sullo schwa
Ho riletto tutte le poesie d’amore che conservo nel mio TaCQuino: sono versi e parole che fino ad oggi hanno taciuto e sarà meglio, considerato il momento, che…tacciano, inedite, nel taccuino, ancora per un po’.
Già; il momento attuale. Proprio quello che stiamo vivendo, così connotato dalla cancel culture che, senza rendercene conto, potrebbe… cancellare, in un sol colpo, la Poesia d’Amore, buttando giù, una dopo l’altra, come monumenti dai piedistalli, tutte le poesie scritte senza * (asterisco) o senza Ə (schwa). Senza altri segni, ritenuti oggi, evidentemente, muti d’amore.
Per via del fatto di risultare troppo ambigua e non rispondente alle attuali politiche di Diversità, Equità & Inclusione, si rischia di mettere nel mirino della furia iconoclasta non solo quel tipo di Poesia come idea astratta di “corrispondenza vitale”, ma anche una poesia “concreta” e famosissima come questa che è stata (era stata!) eletta fra le più belle poesie d’amore di tutti i tempi.
La riporto in una versione, direi, cinematografica, senza il rispetto della partitura poetica. Me ne scuso ma d’altra parte il successo del film in questione, Quattro matrimoni e un funerale, è in parte dovuto alla “resa interpretativa” di questa poesia di Wystan Hugh Auden:
“Fermate tutti gli orologi, tagliate i fili del telefono e regalate un osso al cane affinché non abbai; faccia silenzio il pianoforte, tacciano i risonanti tamburi, che avanzi la bara, che vengano gli amici dolenti. Lasciate che gli aerei volteggino nel cielo e scrivano l’odioso messaggio: lui è morto. Guarnite di crespo il collo bianco dei piccioni e fate che il vigile urbano indossi lunghi guanti neri. Lui era il mio nord e il mio sud, era l’oriente e l’occidente, i miei giorni di lavoro e i miei giorni di festa, era il mezzodì, la mezzanotte, la mia musica, le mie parole; credevo che l’amore potesse durare per sempre ma era un’illusione. Offuscate tutte le stelle perché non le vuole più nessuno; buttate via la luna, tirate giù il sole; svuotate gli oceani e abbattete gli alberi, perché da questo momento niente servirà più a niente”.
Nel film questa è l’orazione funebre che Matthew tiene per il suo amore Gareth, l’altro amico di questa combriccola simil Friends. La coppia, segreta, si rivela (agli amici e a noi spettatori) proprio quando si spezza. In qualche breve momento del film, comunque, si intuisce che fra Gareth e Matthew c’è qualcosa che va ben oltre la semplice amicizia. Ma non è così facile: aggiustare una cravatta, sussurrare all’orecchio, mettere una mano sulla spalla sono gesti che non sono esclusivi di una coppia di amanti e che, stranamente, ad alcuni individui della specie umana sono pubblicamente proibiti. Sono comunque davvero piccoli gesti che Auden con la sua maestria sapeva rendere così bene nei versi, facendoli divenire tutt’uno con essi.
Non ci sono dubbi questa è proprio una poesia d’amore che alla luce di quanto detto all’inizio andrebbe riscritta in modo politically correct, sostituendo solo poche lettere con qualche segno impronunciabile (quanto è attinente l’impronunciabilità al silenzio poetico!).
È fuor di dubbio che ognuno di noi (+-maschio+-LGBT+-femmina+-) vorrebbe sentire, provare, esprimere, in una propria relazione, un amore come quello che questa poesia riesce a evocare. Ma la…furia iconoclasta mal si addice all’amore e anzi rischia proprio di cancellarlo definitivamente incurante del fatto che noi, sull’amore, non sappiamo la verità. Proprio così.
La “poesia del funerale” di Quattro matrimoni e un funerale si intitola Funeral blues ma è diventata famosa, grazie al suo primo verso, con il titolo Stop all the clocks. Questa poesia è stata pubblicata per la prima volta all’interno di una pièce teatrale, The ascent of F6, che Auden scrisse a quattro mani con Christopher Isherwood.
L’opera racconta di un giovane scalatore il cui slancio ideale e romantico viene infranto da mere e basse questioni politiche nascoste dietro la sua impresa. Il protagonista viene sostenuto nella sua impresa ai confini di una colonia dell’impero Britannico per conquistare una delle vette più alte di un paese di fantasia che richiama l’Himalaya. Si tratta dunque di una pièce satirica di stampo brechtiano contro le false sirene del sovranismo e dell’individualismo.
Quando si scopre che il vero motivo dell’impresa non era quello avventuroso di esplorare e conoscere nuovi mondi, ma solo di soddisfare un desiderio di potere, il fratello del protagonista viene stroncato da un infarto ed è per questa morte che Auden appronta nell’opera un lamento funebre corale.
Le prime due strofe sono quelle che cominciano con fermate tutti gli orologi, poi ne seguono altre tre, decisamente più grottesche. Come si vede quindi l’amore, in verità, è quello fraterno e la poesia, in effetti, è un vera e propria parodia di un coro greco.
La pièce fu messa in scena nel 1937 con musiche di Britten; solo la prima parte del coro divenne poi Funeral blues, testo che comparve, slegato da quello teatrale, in Another time , la raccolta audeniana del 1940, nella sezione Four cabaret songs for Heidli Anderson.
E però, questa poesia, nella sua versione originale in lingua inglese, racconta molto della nostra smania da cancellazione che si esprime sempre, nel farsi e rifarsi della storia, in un suo apparente identico ricorso: attraverso la violazione proprio di ciò -per esempio Diversità, Equità & Inclusione - che si intenderebbe difendere e che motiverebbe le nostre migliori azioni.
Torniamo per un attimo alla poesia di Auden.
Le prime due strofe sono quelle in cui vengono ridicolizzati il pensiero unico e il messaggio propagandistico da “comunicato ufficiale”.
E d'altra parte è vero che chi è innamorato spesso si rende ridicolo, e che il lutto sinceramente provato esige il silenzio. Non è stato difficile quindi, per Auden, trasformare un testo satirico in uno che esprimesse l'irrazionalità umana: se il "lui" teatrale era l'eroe del “racconto istituzionale”, ecco che in Funeral blues si trasforma nel centro più autentico dell'idolatria amorosa. Quel "mio" ripetuto tante volte in pochi versi, diventa un vero e proprio delirio di possesso dell’altro/altra/altr*/altrƏ.
Ma l'operazione riesce così bene a Auden perché la sua maestria tecnica fa leva su qualcosa di connaturato all’individuo della specie umana: il delirio di onnipotenza. Tale delirio può trasformarsi, usando l’ efficace espressione di Walter Siti, in un “accanimento distruttivo… una Creazione all'incontrario di un piccolo dio che smantella il mondo con la furia di un proprietario che sbaracca casa…” o con la furia di una folla che butta giù le statue, che deturpa le parole e che addirittura pensa di cancellare le poesie d’amore…politically incorrect.
Nessuno ci faceva caso a queste poesie. Nessuno le degnava di uno sguardo, decisamente, attento. Nessuno leggeva i pronomi, le desinenze, né conosceva i volti degli amanti, il loro sesso, le loro storie: le poesie sono come le pubblicità, pause da inserire in un film, in un racconto, in una canzone, su un cartellone, sui muri per strada, nei cioccolatini.
Altre, per pudore, vengono …lasciate mute e inosservate, in un... taccuino o, incomprese, sulla pagina di un libro.
Memorabile resta l’aforisma di Robert Musil: “i monumenti sono così palesemente irrilevanti. Nulla in questo mondo è più invisibile di un monumento”. Ecco le poesie, soprattutto quelle d’amore, sono così come i monumenti. Silenziose e irrilevanti.
Finché un giorno – ed è questo il giorno – attirano, per altri motivi, l’attenzione. Magari perché qualcuno vuole rivederne le parole e in alcuni casi amputarle, buttarle giù per sostituirle con altre Diverse, Eque e Inclusive, insomma: più correct.
E potrebbe succedere che guardandole meglio, ascoltandole forse davvero per la prima volta ci si rende conto che quel “lui” non è per forza un amante ma potrebbe essere benissimo un fratello o solo un essere umano in cerca di attenzione, e che quella “lei” non deve essere per forza la compagna della nostra vita ma una donna che sta sfuggendo da chi la considera roba propria o una bambina siriana che ride disperatamente.
Addirittura potrebbe, quel “lui”, quella “lei”, essere… Sara e Hassan che aspettano di morire, ora dopo ora, al confine tra la Bielorussia e la Polonia. O ancora Jasmine o Kaled che seppure nati in un paese del mondo civile sono già considerati fantasmi.
Ma se proprio si vuole davvero abbracciare la Diversità, l’Equità e l’Inclusività ecco che quel “lei”, quel “lui”, o quel “*” o “Ə” che sia, possono essere benissimo il balenottero Colin spiaggiato su una spiaggia dell’Australia, o gli alberi bruciati in Amazzonia, il ghiacciaio che si va sciogliendo in Svizzera, i paesi delle zone interne del Sud Italia che si smurano …un fiume che muore di sete, una luna che s’oscura, un cielo che rabbuia di luce…
Perché questa e solo questa è la verità sull’amore. Parafrasando Auden:
ogni 1 si strugge nelle ossa per il desiderio di ciò che non può ottenere: non l'amore universale ma di avere solo per sé ogni amore.
Nella leggerezza individuale di una "cabaret song" si annida il “funeral blues” di una specie che continua a rivendicare Diversità, Equità & Inclusione ma… solo per sé o, al massimo, per ”sƏ”.
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