giovedì 20 dicembre 2018

Un tuffo e una nuotata: Osip Mandel’štam e Nadežda Chazina

La cosa migliore da fare per gustare la Poesia è sguazzarci dentro. Sì, perché leggere Poesia è come tuffarsi. Per farlo bene bisogna allenarsi e prepararsi…all’acqua che stiamo per raggiungere. Dunque tuffarsi.
La prima volta.
Poi, risaliti in superficie per prendere fiato, bisogna cominciare a nuotare: per raggiungere un orizzonte, una baia appartata, una costa oppure si nuota tanto per fare, senza l’assillo di dovere approdare da qualche parte.
Quando si legge qualunque altra cosa, si nuota per tornare sulla spiaggia e abbrustolirsi al sole e stop.
Per leggere Poesia, invece, c’è questo piccolo, ma mai banale, preliminare: il tuffo. E questo si fa da soli.
Ma appena riemersi, trovare per compagnia un altro poeta da seguire nelle sue calme e filanti bracciate, può essere di estremo aiuto: per accordare un passo, il fiato, lo sguardo tra alto e basso. Tra orizzonte e profondità. Il compagno o i compagni di bracciata potrebbero portarci molto lontano e raggiungere…profondità d’orizzonti altrimenti irraggiungibili anche per il nostro tuffo migliore.
Il 27 Dicembre di 80 anni fa moriva Osip Mandel’štam, il Poeta della Poesia come lo hanno definito in molti. Mi sono tuffato nelle sue poesie cercando di mantenere una postura consona per riuscire ad entrare in acqua nel modo meno rumoroso e caotico possibile. È stato un tuffo profondo, lungo estenuante e così appagante che ritornato in superficie ho trovato la moglie del poeta Nadežda (Speranza in Russo) Chazina e ben altri due poeti ad aspettarmi per la nuotata seguente: Seamus Heaney e Franco Buffoni.

Iniziamo.

Il tuffo dunque [1]:

Amo l’apparizione del tessuto
quando una, due, più volte
manca il fiato e infine arriva
il sospiro che risana.

E tracciando verdi forme,
quasi archi di vele in regata
gioca lo spazio assonnato,
bambino ignaro della culla


Novembre 1933-giugno 1935

La cosa che balza subito agli occhi in questo tuffo è… il fondale: Novembre 1933 - giugno 1935, quasi due anni per sistemare 29 parole in lingua originale (38 in questa superba traduzione di Serena Vitale). Già: un lasso di tempo così ampio sarà, presumibilmente, dipeso da un lavoro estenuante di labor limae del poeta o, più verosimilmente, da uno stesso lavoro della vita sul poeta.
La prima quartina parla della nascita dei versi. La comparsa di parole nei versi e dei versi nelle strofe è di fatto una conoscenza dello spazio (rappresentato dalla pagina bianca); una esplorazione del mondo attraverso la poesia che, come dice Brodskij, è conoscenza tanto analitica che sintetica e profetica. E la scoperta della ritmicità del mondo (non dimentichiamo che ritmo discende dal fonema sanscrito Ṛta , muoversi in modo appropriato) è, parimenti, scoperta del verso e della strofa: corrispondences tutte racchiuse nell’ immagine di una barca a vela che segue il vento, e ne è inseguita, nel suo bordeggio.
E a un bordeggio, a un’onda dunque, s’accorda un battito e un respiro che ri-sana ma che pure ri-suona ossessivamente prima che il fiato diventi parola e che riesca a riunire tutto con/nella Poesia.

Nulla procede linearmente ne processi “naturali”, tutto si svolge per archi, cerchi, spirali centripete o centrifughe. Cicli e rotte omeriche percorse avanti e indietro più e più volte fino a riconoscere punti dell’orizzonte dove il sole sorge o tramonta e stelle che guidano le notti. La Poesia è prima di tutto conoscenza di spazio e di tempo. Più fisica di questa!

Ritorniamo su a prendere fiato e incontriamo gli amici che ci accompagneranno nella nuotata.
Franco Buffoni nel rendere omaggio a Seamus Heaney traduce un saggio del poeta Irlandese su Osip Mandel’štam e sua moglie Nadežda . L’omaggio di un omaggio dunque. Cominciate ad avvertire il passo delle bracciate? Capite chi saranno i nostri amici di nuotata? Siete curiosi di sapere dove ci porteranno? Andiamo allora, bracciata dopo bracciata.

Tra il 1930 e il 1934 Osip Mandel’štam fu tenuto confinato nel gulag di Voronez. Il motivo apparente della condanna ai lavori forzati sembrerebbe essere stato uno schiaffo che Mandel’štam restituì al romanziere Sargidzan il quale aveva precedentemente schiaffeggiato la moglie del poeta. Ma la vera causa del confino risiedeva nell’atteggiamento di un… Davide, grande poeta, contro un Golia con i baffi e gli stivali lucidi.
All’epoca degli schiaffi i Mandel’štam “godevano” già delle attenzioni della polizia e degli informatori di partito, tanto che le autorità sovietiche avevano incaricato proprio il romanziere Sargidizan e sua moglie di spiarli nel condominio dove abitavano. Il vicinato, evidentemente, non era dei migliori e in una di queste liti Sargidizan colpì duramente la moglie di Osip. La denuncia e il processo farsa che ne seguì stabilirono che si era trattato di un caso frutto del «retaggio di un sistema borghese e che, dunque, erano da biasimare entrambe le parti». Ai disordini che seguirono la sentenza uno dei giudici del popolo, Alekesej Tolstoj, tentò di difendersi gridando: «Lasciatemi stare, lasciatemi stare. Non potevo farci niente! Avevamo degli ordini.»

Due anni dopo Osip restituì lo schiaffo. Per dirla con Nadežda, il poeta pensava che «l’uomo non avrebbe dovuto ubbidire agli ordini. Non quegli ordini. E questo è tutto.»

Naturalmente, questo è ben lungi dall’essere tutto. Lo schiaffo fu un segno visibile di una grazia interiore che a Mandel’štam era ritornata a metà del 1930, quando fece il viaggio in Armenia. Nel corso dei suoi spostamenti laggiù, si ristabilì in lui il senso di essere nel giusto, quella libertà interiore senza la quale non riusciva a chiamare a sé la poesia, e si ruppe il silenzio poetico durato cinque anni. Insieme alla poesia arrivò la capacità di non ubbidire agli ordini, e, parrebbe, quasi per provare a se stesso che quella capacità era incondizionata, Mandel’štam scrisse poi il componimento, per lui atipicamente esplicito e «politico», contro Stalin, Il monastero del Cremlino. In realtà, fu questa poesia la vera causa del primo arresto di Mandel’štam uno o due giorni dopo l’incidente dello schiaffo: Davide aveva affrontato Golia con otto distici di pietra nella fionda.[3]

La storia degli ultimi anni di vita del poeta, della sua morte avvenuta il 27 Dicembre del 1938 (lo stesso anno nel quale in Italia venivano promulgate le leggi razziali) e le vicende rocambolesche di come le sue poesie del periodo sono riuscite ad arrivare fino a noi sono state raccontate da sua moglie e composta ed elegante “tuffatrice”, Nadežda.

Come ci dicono Heaney e Buffoni : «Alla fine degli anni Sessanta del Novecento furono scritti due libri tra i più fortificanti dei nostri tempi, Hope against Hope (Speranza contro Speranza) e Hope abandoned (Speranza abbandonata) di Nadežda Mandel’štam (con l’evidente gioco di parole per via del suo nome…). In questi libri [4,5]abbiamo uno sconvolgente atto d’accusa contro quasi tutto ciò che accadde nella Russia postrivoluzionaria e, più relativamente, la storia dell’esilio di Mandel’štam a Voronez, il suo ritorno a Mosca nel 1937, il nuovo arresto e la deportazione in un campo di lavoro: «Il mio primo libro fu Pietra e anche l’ultimo sarà pietra.» Morì poco prima del quarantottesimo compleanno in un campo di transito vicino a Vladivostok, dopo aver percorso le cinquemila e cinquecento miglia da Mosca viaggiando su un treno per il trasporto di prigionieri. La causa ufficiale della morte fu «collasso cardiaco»[3]

[…]Per il lettore sovietico, Mandel’štam come poeta era finito dopo l’apparizione di tre libri che nel 1928 segnarono il culmine della sua carriera pubblica di scrittore: le Poesie, un volume contenente Il rumore del tempo, il resoconto autobiografico dell’infanzia a Pietroburgo, e il brano dal titolo romanzesco Il francobollo egiziano. Ma a Voronez i Mandel’štam riempirono tre quaderni con l’opera successiva.
Scrive Nadežda:

Mi hanno chiesto spesso dell’origine di questi «Quaderni». Era questo il nome che usavamo per riferirci a tutte le poesie composte tra il 1930 e il 1937, che a Voronez ricopiammo su normali quaderni scolastici (non riuscimmo mai a ottenere carta decente e perfino procurarsi questi quaderni era difficile). Il primo gruppo andò a formare ciò che ora si chiama il «Primo quaderno di Voronez» [nuovo lavoro svolto in esilio, a quanto pare], e poi tutti i versi composti tra il 1930 e il 1934, che erano stati sequestrati durante la perquisizione del nostro appartamento, furono ricopiati in un secondo quaderno (…). Nell’autunno del 1936, quando si erano accumulate delle altre poesie, M. mi chiese di procurarmi un nuovo quaderno.[3]

Nel terzo capitolo di Hope abandoned, Nadežda afferma implicitamente l’importanza… dell’amicizia con poeti quali Nikolaj Gumilëv e Anna Achmatova. Il capitolo è sul nutrimento morale e artistico che può scendere su una comunità di spiriti che abbiano «pieno diritto di riferirsi a se stessi come “noi”»:

Sono assolutamente convinta che senza questo «noi», non possa esserci un compimento adeguato neanche del più comune «io», ossia della personalità. Per trovare il proprio compimento, l’«io» necessita di almeno due dimensioni complementari: «noi» e – se è fortunato – «tu». Penso che M. sia stato fortunato ad aver avuto un momento nella vita in cui era unito dal pronome «noi» a un gruppo di altri.»

Come si intuisce non è possibile smettere di nuotare: vediamo sempre un orizzonte più accattivante davanti alle nostre bracciate e, se non è l’orizzonte ad attrarci, lo farà la profondità del fondale o la vastità della luce sopra di noi. Quando si nuota con questa compagnia non si ha voglia di fermarsi, di tornare a riva.
E allora per concludere questo post commemorativo che non porta a nessun…posto delle fragole - perché è il POSTO - non possiamo che ringraziare i nostri compagni di nuotata e chiedere al Poeta della Poesia di accompagnare le nostre bracciate con qualcuna delle sue ultime parole:

E dallo spazio esco nel giardino
incolto delle grandezze,
strappo l’immaginaria costanza,
l’autoconsenso delle cause.

E il tuo manuale, infinità, io leggo
da solo, lontano dagli uomini:
selvaggio erbario senza foglie
libro di problemi delle radici enormi.






Riferimenti
[1] - Osip Ėmil'evič Mandel'štam, Quasi leggera morte. Ottave, a cura di Serena Vitale, Adelphi, 2017
[2] - Franco Buffoni in Almanacco dello Specchio n. 14 Mondadori, 1993
[3] - http://www.nuoviargomenti.net/poesie/seamus-heaney-su-osip-e-nadezda-mandelstam/
[4] - Nadežda J. C. Mandel'štam, L'epoca e i lupi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1971
[5] - Nadežda J. C. Mandel'štam, Le mie memorie, Milano, Aldo Garzanti Editore, 1972

martedì 11 dicembre 2018

Gli ologrammi poetici di Maria Luisa Vezzali

Come si fa a scrivere di una poetessa che si pensa di conoscere?
Semplice: leggendo anzi olografando la sua poesia.
Sì, di Maria Luisa Vezzali – è questa la poetessa della quale voglio scrivere – possiamo venire informati dalle parole facilmente intercettabili in rete o sulla quarta di copertina di uno dei suoi rari libri e potremmo svelarne qualche dettaglio in più alla lettura dei pochi versi sversati dalla superficie cartacea nell’abisso digitale. Impareremmo così che Maria Luisa Vezzali è docente di materie letterarie nella scuola superiore che ha tradotto Adrienne Rich per Crocetti (Cartografie del silenzio, 2000; La guida nel labirinto, 2011) e di Lorand Gaspar per Donzelli (Conoscenza della luce, 2006) e che prima di quest’ultima raccolta (Tutto questo con una prefazione di Elio Grasso, Puntoeacapo edizioni, 2018) ne ha pubblicate poche altre (L’altra eternità, Laboratorio, 1987; Eleusi marina, Guerini & Associati, 1992; dieci nell’uno, Eidos 2004; lineamadre, Donzelli 2017, Forme implicite, Allemandi 2011).

È inutile, per scrivere di una poetessa che si pensa di conoscere bisogna leggerla e rileggerla e ancora una volta leggerla.

Ma leggere poesia non è operazione semplice perché le parole non vanno accolte come quelle di un racconto con lo scopo di arrivare a una fine, alla scoperta di una impensabile verità, di un retroscena o una soddisfacente comprensione del fatto. No! Leggere la poesia richiede l’impegno, la grazia e la postura del…tuffatore di Paestum, perché non sono le parole a venire da noi ma noi a tuffarci in esse e a penetrarle a diversa profondità.

Partiamo da una considerazione generale. Noi (intendo specie homo comprendente così anche i nostri antichi antenati, erectus e abilis) “ascoltiamo/scriviamo/leggiamo” poesia, perché nel farlo la …creiamo.
Penso all’homo che ha inciso l’uro di Papasidero circa 10 000 anni fa e, ancor prima, all’homo di Altamira in Spagna o di Chauvet in Francia. Vale evidentemente il contrario, trasformando l’analogia in identità: nel crearla, ascoltiamo/leggiamo/scriviamo poesia.
E qui non possiamo che rifarci a Enzo Melandri che nel suo La linea e il circolo (del 1968 e ristampato da Quodlibet nel 2004) c’informa che :

«…una delle convinzioni più inconcusse […] di tutto il pensiero critico moderno, sia esso filosofico o no [ è che] non sia possibile superare in ingegno coloro che in epoca preistorica, hanno scoperto come addomesticare gli animali, selezionare le graminacee e fondere i metalli in leghe. In queste tre attività ci sono già tutti gli schemi di ragionamento utili per arrivare fino a noi…»

Se due più due fa quattro è perché l’uomo coltivava i campi. E viceversa
Se la Gioconda ride è perché l’uomo doveva scacciare i demoni dalla grotta di Papasidero. E viceversa.
Se… Tu ne quaesieris scire nefas quem mihi quem tibi è perché i romani hanno marciato al ritmo di 15 battute lungo proprio quelle strade che avanzando, man mano, costruivano! E viceversa.

Lo stesso che si è detto per la lettura vale, per il principio di identità, anche per la scrittura.
Quello che mi preme sottolineare è questo intreccio di azioni inestricabile che, volenti o nolenti, continuiamo a compiere grazie al nostro DNA: quale stretta familiarità esiste tra l’addomesticare e trovare le parole giuste per parlare, scrivere o insegnare; e quanta ancora ne esiste, di familiarità, tra fondere metalli per produrre leghe e le conoscenze acquisite per produrre una Grande Teoria Unificata (GUT) in fisica.
Tuffarsi in queste acque profonde e misteriose, ripeto, con l’impegno, la grazia e la postura del tuffatore archetipico vuol dire leggere, o meglio come ho anticipato, olografare poesia.
La Poesia parte sì da un linguaggio ma per disattivarne le funzioni informative e renderne possibile un altro uso particolare e differente che potremmo definire autosimilare o meglio ancora frattale.
In matematica, un oggetto auto-simile è esattamente, o approssimativamente, simile a una sua parte. Molti oggetti nel mondo reale, come ad esempio le coste, sono statisticamente auto-simili: parti di questi oggetti mostrano le stesse proprietà statistiche a differenti scale di osservazione. L'auto-similarità è una proprietà tipica dei frattali.
A diversi ingrandimenti di queste strutture si annida una essenza che permea tutto l’oggetto, tanto che qualunque sua parte resta simile al tutto.
A volte leggere poesia significa doversi muovere su scale diverse di osservazione quasi si possedesse uno strumento in grado di spaziare dall’atomico all’astronomico. Succede allora che se l’eccesso di ogni sensibile possa provocare l’ annientamento dell’organo sensorio, il difetto ad ogni scala d’osservazione ne potrebbe, viceversa, aumentarne la capacità.
Leggere poesia quindi è scoprire ( ad ogni lettura, ad ogni ingrandimento!) un nuovo “difetto” introvabile e invisibile fino alla osservazione precedente : è facile così passare dal fondamento comune della nostra umanità, ( attraverso una imperfezione del nostro patrimonio genetico) alla nostra più individuale e unica esperienza racchiusa magari in un singolo verso, (il nome della materia è anima), una singola parola (ossa), una particolare disposizione di una fonema rispetto agli altri.
La Poesia della Vezzali restituisce questa caratteristica frattale tanto che per alcune composizioni (quelle ad esempio raccolte nella sezione Cartoline metafisiche di Tutto questo) si avvertono questi passaggi di scala vertiginosi che vanno da un luogo metafisico (l’esergo aristotelico) al luogo fisico (da dove la cartolina viene inviata) passando per una nota di camomilla e ancora più giù (su?) al rumore che fa il prima della vita o il dopo.
In altre composizioni ancora la Poesia - proprio come le “ossa” che si annidano nella carne per reggerci o nella scuola per sorreggerla - si insinua nella… poesia. È il caso ad esempio di questa nell’ospizio del cranio tratta dalla sezione Scuola d’ossa:

nell’unica durata nell’unico
qui possibile dimoriamo
cantando

per niente nei viali convergenti
nella madre di respiro niente
ascolto

nell’agio delle mani d’amarsi
per niente e niente seggiole intorno
al tavolo

piuttosto nella sete piuttosto
nella fame sete nella fossa
di svaso

come di notte giorno si sente
da finestre variamente aperte
nel cranio

rotolare i cibi sui ripiani
urtare le pareti del frigo
ronzando

e le porte pulsare di carne
aprire chiudere via la luce
nel fango

e le voci maturare organiche
trasudare dilatare umori
lontano

questa fitta l’abbiamo sentita
di notte giorno sentita tutta
più dentro

il nome della materia è anima
l’abbiamo sfarinata per questo
per questo


Se proviamo ad allineare le parole che abbiamo scritto in corsivo riusciamo a riprodurre questa impressione frattale e a recuperare ancora (altra e inesauribile) poesia:

cantando
ascolto
al tavolo
di svaso
nel cranio
ronzando
nel fango
lontano
più dentro
per questo

Per questa intrinseca struttura autosimigliante, alle diverse scale di osservazione (testo complessivo, strofe, verso, parola) nella Poesia della Vezzali tanto il peso che la grazia sembrano affiorare dalla pagina o se vogliamo, riusciamo ad andare loro incontro a differenti profondità.
Questo perché la scrittura olografica della Vezzali conserva la grande capacità di ricordare la nostra abilità di “addomesticare gli animali, selezionare le graminacee e fondere i metalli in leghe” senza però dimenticare la fragilità della nostra natura di animali razionali, sentimentali, rituali.

Ed è solo attraverso una lettura olografica (così come lo è stata la scrittura) che possiamo recuperare questa particolare risonanza che chiamiamo Poesia e assaporare, ad ogni particolare, l’immagine di …Tutto questo.

giovedì 6 dicembre 2018

ARS poetica

Ṛta (devanāgarī ऋत) è un termine sanscrito che compare negli antichi testi indiani dei Veda (ca. 2000 a.C.). Con Ṛta si intende l' "ordine cosmico" a cui soggiace l'intera realtà, ma anche una consuetudine sacra ovvero l'associazione tra il rito sacrificale e il ritmo dell'universo a cui esso è strettamente associato. Esso prelude, quindi, al termine più diffuso, e successivo, di Dharma (Legge cosmica).
Il termine Ṛta deriva da (radice sanscrita di "muoversi") e *ar (radice indoeuropea di "modo appropriato"), quindi "muoversi, comportarsi, in modo corretto". Così Ṛta acquisisce il pieno significato di "ordine cosmico" ovvero della Realtà che procede priva di contrapposizioni od ostacoli.
Questo termine è legato, sempre per mezzo della radice indoeuropea di *ar, al termine greco harmos (da cui l'italiano "armonia") e al latino ars da cui "arte".
Non possiamo quindi evitare un collegamento diretto tra questo termine e l’arte in generale vista come attività che “si fa (si muove) in modo appropriato” come un vero e proprio rito con un suo ritmo: parole che non possono non essere accostate per nascita etimologica proprio a Rta. Parole che non possono non ricordarci quello che, ad esempio, la poesia dovrebbe appropriatamente fare, vale a dire ex-movere e cum-movere.
Ṛta è particolarmente considerato nei riti e nelle pratiche artistiche, ovvero nella corretta esecuzione del farsi (rito) che permette la permanenza stessa di un equilibrio cosmico (ritmo).

Tutta questa premessa per introdurre la fondamentale Lettera ai Pisoni di Orazio e parlare dell’armonia o, che è lo stesso, dell’Arte Poetica.

Ma si può partire anche dalla fine, cioè da oggi (ca. 2000 d.C.) e compiere un viaggio speculare a quello che va dalla parola ars alla Lettera ai Pisoni.
È un viaggio a ritroso che parte dal poeta centenario Lawrence Ferlinghetti e arriva alla stessa Epistola del poeta lucano di Venosa.
Come avrebbe detto il premio Nobel della letteratura Tomas Tranströmer ( grandissimo ammiratore del poeta Orazio): non solo noi guardiamo i ricordi ma anche loro ci guardano.

Il poeta-editore- impresario della controcultura americana Lawrence Ferlinghetti nel 2019 compirà 100 anni. Questo little boy che ha visto lo sbarco sulla Luna quando era appena cinquantenne intende chiudere la sua opera con un autobiografia che l’editore Doubleday ha deciso di pubblicare negli Stati Uniti poco prima del giorno 24 Marzo in cui il protagonista della Beat Generation arriverà appunto al suo secolo di vita.
Il poeta chiude così la sua autobiografia:

«Little boy, cresciuto da dissidente romantico, ha mantenuto la sua visione giovanile di una vita destinata a durare per sempre, immortale come lo è ogni giovane, convinto che la sua identità speciale non perirà mai , sì, credendo tutto ciò a dispetto del destino sfrenato dell’intera umanità che, secondo gli scienziati, ben presto scomparirà, con la Sesta Estinzione della vita sulla Terra. Ecco perché il canto degli uccelli, ora, non è un cinguettio di estasi ma un grido di disperazione».

Potrebbe sembrare una dichiarazione apocalittica ma non lo è perché nonostante l’estinzione annunciata (dal canto degli scienziati); nonostante il canto di disperazione degli uccelli ( o di chi dimentica di essere un little boy ), il Poeta da sempre ha la consapevolezza che non omnis moriar (Orazio, Odi, III, 30, 6), cioè di non morire del tutto e quindi che non tutto morirà.
Nel suo volumetto di 116 pagine dal titolo Cos’è la poesia, Ferlinghetti assegna un compito all’arte poetica e fa del poeta un protagonista dei tempi. Solo un forte richiamo ai valori umani interiori e una poesia che li esprima attraverso una trasmissione orale possono riportare l’umanità ad una condizione di armonia e farle recuperare l’equilibrio perduto.
Il suo amico Jack Kerouac avrebbe parlato, di ordine cosmico, di Dharma.
Cos’è la poesia si compone di due parti: nella prima il poeta si sofferma sui temi e i modi della produzione poetica. Nella seconda parte, dal titolo evocativo Sfide per giovani poeti , Ferlinghetti mostra ai giovani attratti dalla poesia, le vie del fare poetico: il modo corretto di muoversi.
Il rito e il ritmo. Parole che, ripeto, guardano alla radice sanscrita Ṛta ( "ordine cosmico") e dunque alla Ars poetica di Orazio e che dalla stessa radice sono guardate.
A sfogliare le pagine di Cos’è la poesia del poeta beat sono tantissimi i rimandi e i richiami al poeta Orazio a quella comune fiducia nell’altezza e validità dell’arte e alla convinzione di un messaggio che possa valicare i confini dello spazio e del tempo. Ferlinghetti non fa che ribadire con stringatezza quasi aforistica le idee formulate nell’Ars poetica di Orazio e che l’arte è la forza di queste idee, religione dell’anima e che dunque il poeta è un semplice banditore impegnato a divulgarle, sensibilizzare ed educare ad esse.

E le idee sono quelle che richiedono un rito per un ritmo con lo scopo di preservare un ordine o ripristinarlo: il requisito di semplicità e unitarietà (simplex et unum) dell’opera ; un perspicace accostamento (callida iunctura) di termini da cui possano scaturire nuovi significati; il criterio determinante dell’usus, della lingua viva, parlata e scritta, nel decretare la nascita, morte e resurrezione di voci antiche e moderne; la messa al bando di paroloni lunghi “un piede e mezzo” (sesquipedalia verba) che rendono stucchevole il frasario tragico; evitare la «montagna» di un altisonante esordio che partorisce il «topolino»; attingere ai vantaggi (commoda) che gli anni nel sopraggiungere portano con sé e che sottraggono scappando via; indugiare nel labor limae di una paziente e infinita revisione formale; lasciarsi sedurre dalle coppie complementari ars/ingenium e natura/ars per stabilire «un’ amichevole congiura»; ricercare l’equilibrio tra dulce e utile.

Ma le idee sono anche quelle che richiedono un ritmo per un rito, per poter cantare un’armonia nascosta che avvertiamo soprattutto in quei momenti nei quali il canto degli uccelli non sembra più essere un canto d’estasi o quando perdiamo la nostra visione giovanile di una vita destinata a durare per sempre, immortale come lo è un giovane, anche di 100 anni, convinto che la sua identità speciale non morirà mai.
Come lo siamo convinti noi.

Da Greatest Poems (Mondadori, Lo Specchio, 2018)

Pound a Spoleto
[…]
In sala di colpo si era fatto silenzio. Quella voce mi ha sconvolto, così pacata, così sottile, così flebile, eppure così tenace. Ho posato la testa sopra le braccia sulla balaustra di velluto. Mi sono sorpreso nel vedere una lacrima, una sola, cadermi su un ginocchio. La sottile, indomita voce continuava a risuonare. Uscendo alla cieca dalla porta sul retro del palco sono passato nel corridoio deserto di quel teatro dove gli altri, seduti, erano ancora girati verso di lui, poi sono sceso e sono andato fuori nella luce del sole, piangendo…

Lassù sopra la città
____________________lungo l’antico acquedotto
________________i castagni
___________________erano ancora in fiore
Muti uccelli
____________volavano nella valle
________________________________molto più giù
Il sole splendeva
___________________sui castagni
e le foglie
_____________stormivano al sole
___________e stormivano stormivano stormivano
_____________E avrebbero continuato a stormire
La sua voce
______________risuonava
_______________________risuonava
________________________________tra le foglie…

lunedì 22 ottobre 2018

La compagnia più bella: la poesia di Kathleen Jamie

Nel Post delle Fragole abbiamo già ospitato la poetessa Kathleen Jamie in occasione della sua raccolta La casa sull’albero [1] tradotta - o sarebbe meglio dire con Attilio Bertolucci, imitata - da una delle nostre migliori esperte di poesia anglofona: Giorgia Sensi[2].
Kathleen Jamie è nata in Scozia nel 1962 e si è laureata in filosofia all’Università di Edimburgo. È di questi giorni l’uscita della sua ultima raccolta The Bonniest Companie curata nella traduzione ancora una volta da Giorgia Sensi per i tipi di Medusa (La Compagnia più bella).[3]
I temi della poesia di Kathleen Jamie sono per lo più di carattere naturalistico e prevalentemente riferiti alla sua amata Scozia selvaggia e domestica. La Jamie è anche una notevole narratrice di viaggio e pertanto esperta naturalista ed ornitologa. E viceversa.
Le sue poesie pertanto sono sempre animate da questa costante conversazione, a volte dai risvolti antropologici, tra mondo naturale e mondo umano, tra uomini, donne con animali, alberi, e paesaggi. Le origini famigliari, la maternità, la nascita, i ricordi e le scampagnate quotidiane sono le tappe di scoperte più profonde dalle atmosfere magiche.
Tutto questo viene amplificato da alcuni termini (quasi ritualistici) dell’antica lingua scozzese, lo scots, conferendo alla sua poesia una natura rarefatta e misteriosa che sembra aprire uno spiraglio tra silenzio e mondi senza tempo.
Oltre agli eventi sociali e culturali che hanno alimentato le immagini della sua poesia ( la Jamie è stata una fervente attivista della campagna per il “YES” al Referendum del 2014 sull’indipendenza della Scozia dal Regno Unito); ma , prima di questo, un altro evento di natura più intima e privata ha suscitato una esplosione ispiratrice non indifferente.
Nel 2002 la Jamie scopre di avere un tumore al seno e dopo l’intervento si risveglia con una lunga cicatrice a forma di Y che le si allungava sul petto. È lei stessa a raccontare nei minimi dettagli lo choc provato nell’abbassare lo sguardo e scoprire la propria parete toracica completamente piatta, quasi da bambina.
Quel nuovo segno “le si era scritto” sul petto, un segno che scoprirà essere famigliare nel senso che aveva, per così dire marchiato, in un modo o nell’altro, altre donne della sua famiglia e non solo. Tanto è bastato per fare di quella cicatrice il kleos (vedi più avanti) di una stirpe di donne scozzesi da onorare: sua madre e prima di lei sua nonna e ancora più su le sue antiche progenitrici, donne-uccello, donne-albero, donne-costa frastagliata.
Lei, poeta, sapeva perfettamente che un segno in poesia apre a nuove possibilità della lingua e fa emergere una voce dal silenzio. Comincia così a chiedersi: «Cosa fa un’artista quando inizia una nuova opera? Traccia un segno. Io adesso ho un nuovo segno. Posso cominciare l’opera!»
Troppi sguardi di medici, nel corso degli interventi e delle terapie, si erano soffermati su quel segno leggendolo nell’unico modo, per loro, possibile ma se invece, si chiese la Jamie, fosse stato un’artista a guardarlo e a leggerlo?
Ecco la storia di come quel segno si è mutato di volta in volta in mappa, in fiume, in un ramo di sorbo, nel gambo di una rosa.



YES
Kathleen si rivolse alla sua amica di lunga data e le chiese se voleva dare un’occhiata alla ferita. Brigid [4] conosceva Kathleen da bambina e avevano affrontato insieme tante cose: lotte sulla parità di genere, la campagna per l’Indipendenza della Scozia e anche quest’ultima prova della sua malattia. L’aiutò a scoprirsi e vide il
suo spazio svuotato e quella lunga Y sul petto dell’amica.

-Sai, sono così abituata ad essere letta da tanti medici che provo quasi un senso di sollievo al tuo sguardo. Una carezza.- disse Kathleen

-Capisco quello che provi, ma io non leggerò mai questa Y!- rispose Brigid con un tono piuttosto scosso.

-Stai tranquilla -proseguì Kathleen - per me è tutto OK. Mi sono convinta del fatto che questo segno sul mio petto rappresenti il
kleos della mia famiglia. Sì, mi rendo conto che non si tratta di un fiore di loto come quello che la giovane Phrasikleia va mostrando da migliaia di anni ma è pur sempre un modo di “far girare la voce”.-

Brigid conosceva la storia della koure, la statua della fanciulla, che lei e Kathleen avevano visto al museo di Atene in un loro viaggio in Grecia. Sentiva che Kathleen attraverso quella immagine le parlava del suo passato, della madre e della nonna anche loro operate al seno e che in qualche modo riteneva questa Y il proprio
sperma pyros, il seme di fuoco, che si apre di giorno e si chiude di notte proprio come fa un fiore di loto o un fuoco perenne.

Brigid alzò lentamente gli occhi dal segno e guardò l’amica e prima ancora che Kathleen le chiedesse qualcosa disse:

-Ok, facciamolo. Diamo voce a questo segno. Che diventi veramente il tuo fiore di loto o se non proprio questo, un ramo di sorbo, una rosa canina, un nuovo albero piantato nella tua campagna-
Il periodo di guarigione e di convalescenza sarebbe diventato un processo creativo. Brigid avrebbe creato dei dipinti e delle sculture partendo dalla forma del segno, Kathleen avrebbe scritto delle brevi prose poetiche a partire dal suono di quel segno.
Y come YES.
“Talvolta sento quasi una dolce selvatica musica” scrisse Kathleen in una delle sue poesia “percepibile nei vuoti tra le foglie del sorbo”.E questi rumori distanti del giardino mi ricordano un “rumore di nodi che si sciolgono, il rumore della benigna indifferenza del mondo”.[5]

Il dipinto che Brigid creò per accompagnare queste parole rappresentava un ramo di sorbo, ricoperto da strati di gesso e gommalacca e poi sabbiato per tornare a essere visibile come se le foglie del sorbo stessero sorgendo a nuova vita. Come quelle parole antiche ma sempre vive che Kathleen andava scrivendo quasi fossero delle iscrizioni epigrammatiche su un basamento che avrebbe accolto la statua di una koure.

Un giorno a Brigid capitò di imbattersi in un verso di Robert Burns :
“Cogli il fiore: la sua freschezza viene meno!”. Questo la ispirò per creare una rosa canina, modellata sul profilo della cicatrice di Kathleen e che emergeva da una pagina macchiata, simile ad una di quelle miniature dei manoscritti medievali.
In una delle loro chiacchierate, dove si guardavano bene dal raccontare le loro creazioni, Kathleen raccontò a Brigid che sua nonna chiamava il petto
breist e il seno kist.

-Le ginocchia di mia nonna e il suo abbraccio erano i luoghi dove mi sentivo più al sicuro - confidò Kathleen all’amica – come un ago in una scatola di cucito, come una sottana che ti tiene pulita e al riparo dal mondo-
Brigid creò una scultura a cui diede il titolo kist.

Kathleen scrisse una breve prosa poetica dal titolo
Heredity 2 [6] dove elencava il nome di donne sposate con minatori, boscaioli, fabbri, muratori; uomini che furono mandati in guerra e che ritornarono devastati nella psiche. Quelle donne che restavano piantate come alberi nelle campagne si ammalavano e offrivano ai loro cari la memoria di una cicatrice, la certezza del kleos. E i loro nomi, quello di queste donne e quello dei loro mariti, “girano ancora” e sono arrivati a noi: Isabella Telford, il marito di Margaret Stirling ...

Nel raccogliere tutte queste parole e i dipinti, le sculture, nati da questa stravagante terapia Kathleen concluse che rimettersi in salute dopo l’intervento era stata gioia pura, per certi versi:

- Nessuno voleva niente da me, camminavo in riva al fiume, dormivo meglio di quanto mi fosse accaduto da anni...-
Il segno che si mostrava sul suo petto, quel kleos di carne ancora viva, in fondo era solo un verso in più sul suo foglio e ogni giorno avrebbe avuto la luce giusta e la voce giusta per leggerlo e ascoltarlo cantare tra gli uccelli al riparo dei rami del sorbo.
La Y di YES alle albe scozzesi, al ritorno dei falchi pellegrini e della lince e del lupo nelle highlands; la Y di YES alla vita e perfino al referendum. Il segno dunque era diventato parte di un paesaggio naturale come può esserlo un giardino dietro casa dove sappiamo le cose più segrete (il numero di margherite, il nome di un passero,...).

E, come accade in un giardino, ogni giorno è un apparire di vita nuova, ogni giorno qualcosa muore per rinascere e le margherite che vengono raccolte oggi sono quelle che erano spuntate 300 anni fa![7]

Il giardino

Cosa so io/di come va il mondo/-quasi nulla./C’è mistero nel giardino dietro casa/-specialmente nel mio giardino dietro casa!/Della pioggerella/che fa luccicare il susino/l’ombra della catasta di legna,/il portanoccioline che vibra/quando un passero prende il volo -/e queste margherite/tutte accampate sull’erba/- le stesse della settimana scorsa, dell’anno scorso, stesse/ma non identiche/a quelle che osservavo da ragazza/innocenti e senza pretese/tutte ricevono la loro parte

Riferimenti

[1] - http://thestrawberrypost.blogspot.com/2016/10/la-casa-sullalbero.html
[2] - http://www.cronacacomune.it/notizie/34746/un-sabato-al-mese-il-via-alla-rassegna-con-le-traduzioni-poetiche-di-giorgia-sensi.html
[3] - Kathleen Jamie, La compagnia più bella, a cura di G. Sensi, Edizioni Medusa (2018)
[4] - http://www.brigidcollins.co.uk/
[5] - https://granta.com/frissure/
[6] - Kathleen Jamie & Brigid Collins, Frissure, Polygon (2013)
[7] – John Keats, Poesie , con un saggio di J.L. Borges, Mondadori (2004)

domenica 23 settembre 2018

Fallimento della Lingua e Emergenza della Poesia

Si dice che la Poesia inizia quando una lingua si esaurisce nel suo fallimento.
Il più grande fallimento di una lingua consiste nello svuotamento delle parole. Le parole si svuotano o perché se ne distorce uso e significato o perché le si azzittisce non lasciandole accordarsi alla realtà e, dunque, suonare a tono .
La poesia , paradossalmente, mette a nudo, e a volte favorisce, il fallimento di una lingua perché suo è da sempre il compito, tra gli altri, di riempire queste ciotole vuote che sono diventate le parole.
A tal proposito viene in mente una storiella Zen, molto esemplificativa:

“Nan-in, un maestro giapponese dell’era, Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.
Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare.
Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi.
«È ricolma. Non ce n’entra più!»
«Come questa tazza» disse Nan-in «tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?»”
[1].

La Poesia emerge quando le parole sono state svuotate per via del fallimento della lingua.
In matematica il fallimento topologico è chiamato catastrofe e precede sempre l’emergenza del Nuovo.

Se la poesia quindi rinnova la lingua allora bisognerebbe equipararla alla traduzione di una particolare emergenza o se vogliamo di un’esigenza di Nuovo.
Questa traduzione rappresenta il moto dei mutamenti piuttosto che i mutamenti stessi. Il volo di uno stormo di allodole piuttosto che le allodole. Le rotte migratorie piuttosto che i migranti. Così quando una lingua- per causa o effetto del suo fallimento- non è più in grado di tradurre i fatti, la poesia, sente l’assenza del discorso, avverte la incapacità di parlare e farsi ascoltare e, infine, agisce nel suo ...farsi (poiein non dimentichiamolo vuol dire fare, creare).
In questo momento, alla fine del 2018, gran parte dello spazio pubblico europeo (per non dire mondiale) è un tripudio di posizioni nazionaliste (vedi la Brexit ma anche l’avanzata di posizioni autarchiche e sovraniste in vari Paesi dell’Est europeo, dell’Italia stessa e dell’ America di Trump); un’apoteosi di confini militarizzati a difesa di terre e proprietà; la scoperta (o l’invenzione) di razze e identità più o meno accertate, più o meno fittizie: chi sono gli americani? Chi gli italiani? Chi gli australiani?

Gli sterili tentativi di dare e difendere una spiegazione logica, plausibile e convincente, a questa nuova struttura dello spazio pubblico non possono che ricordarci quello che diceva Calvino a proposito dell’Identità: è un fascio di linee divergenti che trovano nell’individuo un punto d’intersezione.[2]

Ma al di là di queste considerazioni resta il fatto che tutto questo sbandierare e segnare una differenza (affermare quindi una identità) è solo uno specchietto per le allodole per distoglierci dalle contraddizioni di una “guerra alla migrazione di esseri umani” che è una forma più preoccupante di migrazione.

Quella dell’Umanità!

Apparentemente America, Inghilterra, Italia, Ungheria restano, al loro interno, unite ma nel contempo rimangono società, divise ed antagoniste, spinte dallo slogan “prima noi” ( bisognerebbe rileggere “la storia di un ortolano” di Vaclàv Havel a proposito del potere tranquillo degli slogan di regime e delle versioni ufficiali!)[3].

Tali società possono conseguire una sedicente unità solo attraverso l’odio verso un nemico esterno. È facile trovare un nemico e fare apparire tutti quelli che la pensano o vengono indotti a pensarla come te, nostri grandi amici. Fino a poco tempo fa litigavi con il tuo vicino di casa perché aveva la televisione ad alto volume ma appena hai saputo che anche lui ha preso il porto d’armi, come avevi fatto tu l’anno precedente, per difenderti dai...clandestini (quanti?), vi salutate amichevolmente e vi frequentate più spesso, fino al punto di non guardare più la televisione e uscire insieme, per ronde, la sera.

Ma l’euforia di questa ritrovata unità si dissolve molto rapidamente. Gli specchi per le allodole cominciano a frantumarsi non appena i grossi limiti imposti dagli Stati alle libertà di “altri” (le libertà civili, di movimento, di non aver paura, di essere felici, di vivere degnamente) iniziano a limitare anche le nostre identiche libertà. Lo stormo si disperde. A nuoto i migranti raggiungono le sponde.
È in questo spazio pubblico che la lingua comincia a fallire ed è qui che la poesia, da genere marginale la cui esistenza è irrilevante al corso di un...regime, emerge a voce, URLO, che si fa sentire.

Perché la parola rifiutata, falsa o stonata ritorna a sé stessa come parola di rifiuto, verità e canto; perché la parola svuotata di suono e senso si riempie nuovamente e si rinnova in un segno che non può essere integrato e assorbito tra vecchi segni; perché la Poesia emerge come voce di un’Umanità che sta ritrovando una Lingua e che non è più costretta a restare imprigionata o a migrare su una Terra sua.

Quando la lingua fallisce nella promulgazione di leggi razziali, nella propaganda degli slogan di regime, nel vagito di piccoli Grandi Fratellini del web e di ...muti Portavoce in felpa e cravatta, la Poesia emerge e si fa sentire. Sempre.

Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla follia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa, hipsters dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte...
....
II
Quale sfinge di cemento e alluminio gli ha sfracellato il cranio e divorato cervello e immaginazione? Moloch! Solitudine! Lerciume! Schifezza! Spazzatura e dollari inafferrabili! Bambini che strillano nei sottoscala! Ragazzi che singhiozzano negli eserciti! Vecchi che piangono nei parchi! Moloch! Moloch! Incubo di Moloch! Moloch spietato! Moloch mentale! Moloch giudice spietato d’uomini! Moloch prigione incomprensibile! Moloch galera teschio di morte senz’anima e Congresso di dolori! Moloch i cui edifici sono sentenze! Moloch vasta pietra di guerra! Moloch governi stupefatti! Moloch la cui mente è puro ingranaggio Moloch il cui sangue è denaro che scorre! Moloch le cui dita sono dieci eserciti! Moloch il cui petto e una dinamo cannibale! Moloch il cui orecchio è una tomba fumante! Moloch i cui occhi sono mille finestre cieche! Moloch i cui grattacieli sorgono in lunghe strade infinite come Jehovah! Moloch le cui fabbriche sognano e gracchiano nella nebbia! Moloch le cui ciminiere e antenne incoronano le città! Moloch il cui amore è petrolio e pietra senza fine! Moloch la cui anima è elettricità e banche! Moloch la cui povertà è lo spettro del genio! Moloch la cui sorte è una nube di idrogeno asessuato! Moloch il cui nome è la Mente! Moloch in cui mi siedo solo! Moloch in cui sogno Angeli! Pazzo in Moloch! Rotto in culo in Moloch! Senza amore e castrato in Moloch! Moloch che mi è entrato presto nell’anima! Moloch in cui sono una coscienza senza corpo! Moloch che mi ha fatto uscire spaventato dalla mia estasi naturale! Moloch che io abbandono! Svegliatevi in Moloch! Luce che cade dal cielo! Moloch! Moloch! Appartamenti robot! sobborghi invisibili! tesori di scheletri! capitali cieche! industrie diaboliche! nazioni spettrali! manicomi invincibili! cazzi di granito! bombe mostruose! Si sono rotti la schiena innalzando Moloch al Cielo! Strade, alberi, radio, tonnellate! innalzando la città al Cielo che esiste e ci circonda! Visioni! profezie! allucinazioni! miracoli! estasi! alla deriva sul fiume americano! Sogni! adorazioni! illuminazioni! religioni! l’intero carico di cazzate da raffinati! Sfondamenti! al di là del fiume! salti e crocifissioni! giù nella piena! Drogati! Epifanie! Disperazioni! Dieci anni di urli da bestie e suicidi! Menti! Nuovi amori! Generazione pazza! giù sulle geologie del Tempo! Vere risate sante nel fiume! Han visto tutto quanto! gli occhi stravolti! le sante grida! Hanno detto addio! Si sono buttati dal tetto! verso la solitudine! salutando! portando fiori! Giù nel fiume! nella strada!
[4]

Leggiamo tutto il poemetto di Ginsberg e, in generale, leggiamo e rileggiamo Poesia come se volessimo "riempire" la tazza da te del saggio Nan-in.

Provate, provate a svuotare, se ci riuscite, la ...tazza.

Ritorniamo a cantare, come fanno gli uccelli, ad articolare la voce e a distendere l’urlo per... ridarci una lingua, una lingua che possa servirci finalmente a parlare, ascoltare e comprendere di nuovo.

Riferimenti
[1]- Da 101 storie Zen, pag. 13, Adelphi 1973 a cura di N. Senzaki e P. Reps
[2]- http://armida.unimi.it/bitstream/2170/2239/1/UD_A_Sistema%20letterario%20modernit%C3%A0.pdf
[3]- https://lavalledelsiele.com/2011/12/18/storia-di-un-ortolano-di-vaclav-havel/
[4]- da URLO di Allen Ginsberg (1955-1956)


venerdì 27 luglio 2018

Fra(m)menti

Ritorno su Sbolci perché credo di aver raccolto qualche altro frammento della sua opera. Come quindi accade ad ogni puzzle che si rispetti, dopo averlo messo a posto questo ulteriore pezzettino, mi allontano dal piano dell’opera per ri-conoscere meglio il quadro di insieme.
Frammenti: così ero tentato fin dall’inizio a tradurre questo ultimo corso creativo di Renzo Sbolci e lo stesso artista livornese mi conferma nella... tentazione attraverso una sua e-mail:

“....era due anni che lavoravo sui totem e sentivo il desiderio di percorrere nuovi sentieri; così ho cominciato a realizzare una serie di lavori “etichettati” FRAMMENTI alcuni dei quali sono a Ro Ferrarese...”

Ma come tradisce la massa sonica della parola stessa, i due suoni (i due semi) «fra» e «menti» sono legati alla stessa unità significativa come un’orbita ellittica ai suoi fuochi: il termine frammenti vive nell’ellisse generata da «fra» che è fuoco di separazione tra due cose (ma anche riferimento a un pensiero, un sentimento segretamente nascosto...”fra sé e sé”); e l’altro fuoco, «menti», che è riferito a quanto di più intricato e complesso possa essere contenuto negli spazi biologici, quella capacità di (in)-formare e (ri)-creare (dal sanscrito manas=facoltà di misurare, giudicare le cose).
Il paradosso è che è attraverso quel «fra» che i frammenti di Sbolci schiudono un ampio spettro semantico, assumono una grande varietà di profili di molteplici io. Quel fra è cioè il tertium visibile-invisibile che rende possibile la circolazione del tratto, l’addensarsi di colori secondari, l’avvicendarsi di tempi e spazi, ritmi e infiniti delimitati. In quel fra che separa nettamente due frammenti viene messa in scena la soggettività dell’artista, il “fraseggio”.
Mi ripeterò dicendo che così come il DNA si riannoda e spiraleggia nella cellula, il “codice” dell’artista, evidentemente segreto a lui stesso, s’avvolge nelle opere come seme in cerca d’ovulo, come soggettività complementabile e modulabile attraverso la ricerca di un altro da sé luminoso o di un tratto (di sé) geneticamente disposto a duplicarsi. Un incessante e continuo essere-fra che diviene ininterrotto attraversamento e incontro in un luogo; durata e (s)cadenza del tempo. E ancora se preferite un fra origine e meta; mezzo e modo; causa ed effetto; infinito e polvere.
È su questo fuoco che Sbolci conduce la sua battaglia contro un’astrazione negativa dove alla nostalgia dell’infinito sostituisce - astrazione autentica – nostalgia fra questo infinito dipanando grandi matasse di tratti e forme; omaggiando altri artisti e altre tavolozze più o meno consapevoli, più o meno metabolizzate.
Si tratta di nostalgie geometriche e policrome che sembrano emergere da ogni tratto dell’opera alle differenti scale di osservazioni che vanno dal singolo pezzo del puzzle alla cornice o, per meglio dire, alle cornici. Da Euclide a Mandelbrot e ritorno.
Ma se questo è tutto racchiuso nelle vicinanze di questo fuoco (il fra) così biologico e genetico non possiamo però dimenticare, parafrasando Emerson, che ...la natura, che ha fatto l’artista, ha fatto anche la sua opera. La carne cioè si fa respiro e il corpo si fa mente. Arriviamo così all’altro fuoco dell’ellisse: l’incontro con gli altri, le «menti» dei frammenti.
Qui nell’altro fuoco dell’ellisse continua ad essere evidente la gravità che la natura dell’arte totemica esercita sull’artista, la spinta di una mente che suscita domande alle quali solo un pensiero logico squadrato ed euclideo può rispondere.
Le cornici che racchiudono questi frammenti - quasi fossero le membrane cellulari a protezione del nucleo e del codice genetico - sono quadrati che sorgono da orizzonti rettangolari; teste spigolose che poggiano su spalle robuste. Sono le menti che si toccano come le caselle di una scacchiera, come gli abitanti del pianeta Flatlandia che possono conoscersi solo...di lato ed evidentemente impossibilitati a conoscersi realmente.
I frammenti sono fatti così come tante cose sparse fra le cose e pensieri di menti imponderabili e incomunicabili: raccoglierli e metterli insieme potrebbe dare quella sensazione di completezza e bellezza alle quali l’artista (l’opera)...la Natura aspirano.
Orbitare tra questi due fuochi, il primo così metabolico e biologico, il secondo così simbolico e totemico, produce il respiro dell’opera di Sbolci, la sua ellisse. È questa sua astrazione positiva che riesce a ricomporre e tenere insieme i frammenti di una realtà e di una soggettività sempre più minacciate e difficili da tenere integre.
Tra la difficoltà di restare fra sé e sé e quella di confrontarsi con gli altri, Sbolci con la sua arte risponde a questa profonda domanda di co-esistenza e lo fa in un modo che a me piace immaginare così:

«Spesso andando a zonzo tra i suoni e i frammenti della luce meridiana di una delle nostre città (Ferrara, Livorno, Matera, Palermo...) faccio una pausa per buttare giù qualche parola su un foglio di carta o, perché no?, sulle note del cellulare. Oppure mi fermo davanti a qualcosa che mi colpisce e traccio su un taccuino qualche segno o scatto una foto.
Ma faccio tutto questo solo per meditare, sì, per meditare sugli equivoci e sulle questioni eterne della vita, sulla co-esistenza e sulla profondità del fatto che ogni cosa che emerge alla fine converge sia che si tratti di infinito che di polvere.
E dopo aver fatto questo mi accomodo davanti al mio orizzonte a mangiare qualcosa e poi mi metto all’opera...».

lunedì 9 luglio 2018

L'infinito delimitato di Renzo Sbolci

Vorrei che questo Post si formasse sotto i vostri occhi come un’opera dell’artista livornese Renzo Sbolci [1], dei quali – opera & artista= operartista- vi parlerò approfittando di una sua mostra inaugurata da poco a Ro Ferrarese grazie all'impegno di Giovanni Dalle Molle e dei Caschi Blu della Cultura. Comincio così da un materiale raccolto alla rinfusa, pezzetti così piccoli da sembrare granelli di polvere. Ha ragione il critico Renzo Orsini quando parla dell’opera di Sbolci quale risultato della ricomposizione di una enorme lastra di cristallo andata in frantumi: ma nel frantumarsi non solo abbiamo perso, della lastra originale, il disegno ma anche la capacità di guardarci, un disegno, attraverso perché per via di una trasmutazione, il cristallo si è mutato in legno dipinto a pastelli cerosi.
Così quella disposizione ordinata e infinita di un universo cristallino ma indecifrabile ha lasciato il posto a un assemblaggio caotico e opaco ma molto significativo.
È inutile nascondere che buona parte di questo processo creativo sia dovuta alla natura della città di Livorno che fece dire a Caproni: «i miei versi sono nati in simbiosi con il vento». Bene, così appaiono nascere le opere di Sbolci e se cosi è allora lasciamo soffiare il vento anche su questo Post.
“La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole”.
In queste poche e sostenute folate di Italo Calvino [2]ci sembra di intravedere la descrizione di un’opera di Sbolci: la tela di legno non racconta il suo passato, non può cioè dire nulla sulla forma dell’universo prima che questo accadesse e cadesse in frantumi, in polvere, ma lo contiene tutto in quei piccoli pezzetti giustapposti tra loro a formare linee e poi inCroci e a farsi largo fuori dal piano nello spazio di chi osserva. E contenendo questo passato, veramente come le linee della mano, l’opera non può che contenere anche il suo futuro: l’opera di Sbolci non è...presente è una mutazione continua riconoscibile come una marea, a volte, ma altre irriconoscibile e imprevedibile come una burrasca o una catastrofe naturale.
Ma sempre, per quanto catastrofica , una mutazione accade sull’orlo di due mondi, all’incrocio o sulla superficie che separa qualcosa che ancora riconosciamo attraverso dettagli minimi ma significativi (le griglie delle finestre, gli scorrimano delle scale, le antenne dei parafulmini), da qualcosa di nuovo e assolutamente misterioso che sta per prendere corpo, che sta per manifestarsi.
E quella superficie tripartita, l'orlo del mondo, che separa cielo terra e mare, Sbolci, come tutti gli abitanti di mare, la conosce bene, l’ha sempre avuta dinnanzi agli occhi - negli occhi - fin da bambino, e la conosce così bene da tracciarla a occhi chiusi, camuffandola nei suoi totem, spezzettandola, quella linea infinita d’universo, in tanti graffi, seghettature, intagli, svirgole.
E con l’abilità del funambolo, che si appoggia ad ogni granello di polvere pur di attraversare il vuoto, riesce a farci strada e a portarci dall’altra parte del percorso.
Sani e salvi.

36 [3]
...
Il porto a chi vuole tornare
per raccontare con vanto agli altri
d'averlo visto tutto questo mondo
illuso quasi d'esserne padrone;
deluso di non aver trovato nulla
che somigliasse a lui.

Noi, invece,
eterni appassionati,
affamati di tramonti infocati,
di albe tranquille, di cupi notti stellate...
Noi,
ancora lontani sull'effimera riga
come funamboli su corda sospesa
a giocare con l'imprevisto,
a danzar con i venti,
a cantar col mare,
ad amare.

Riferimenti

[1] - www.renzosbolci.it
[2] - I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, 1972
[3] - R. Sbolci, La neve d'Agosto, Aletti Editore, 2013

domenica 17 giugno 2018

L'Investitura di Giovanna Menegùs


Una poesia di Giovanna Menegùs, tratta dalla sua ultima -intensissima- raccolta “metapoetica”, mi ha ricordato Micòl Finzi Contini.
Il ritratto che Bassani fa della protagonista del suo giardino è quello di una Signora senza abiti eleganti, ma elegante, senza gioielli e acconciature importanti ma splendente. I vestiti di Micòl sono i suoi libri, le frasi e i versi dei suoi autori più amati e ascoltati. Micòl è una donna colta e dunque, di raffinata eleganza e di natura sfuggente alla tradizionale iconografia femminile. A qualunque invadenza, anche quella di tipo amoroso, Micòl contrappone, quale bene superiore, la libertà. Più che un ritratto, quindi, si tratta della biografia di una pratolina contegnosa che all’assalto del vento e del sole contrappone il suo stelo flessibile o il bavero bianco rosato tutto rialzato e che, di notte, riposa il suo occhio giallo canarino nella corolla richiusa.

È la biografia di Giovanna: la sua autobiografia come si scrive in Investitura di voci (96, rue de-La-Fontaine Edizioni, 2018) a pg.63

Sotto pesanti gocce di rugiada
e un cielo ancora incerto nel mattino
e pratoline se ne stanno
richiuse e contegnose

-lo sfrangiato bavero
bianco rosato
tutto rialzato

l’esile collo
un po’ reclinato


spiano ombrose

col loro occhio giallo canarino

(invisibile)

(Omaggio a Emily Dickinson 13)

Una biografia che l’autrice sottolinea in modo breve e compendioso, risaltandone, pertanto, l’importanza, in una nota al testo che prende solo due righe:

(13) Oltre e più che un ipotetico ritratto di Emily Dickinson, considero questi versi una sorta di allusivo autoritratto mio. Per questo stanno in apertura di Quasi estate. (pg. 91)

Nel romanzo di Bassani, l’oggetto della tesi di Micòl è Emily Dickinson, la più claustrale delle poetesse; la sua stanza è riempita dalla collezione di piccoli oggetti di vetro di Burano, e dagli scaffali della biblioteca, dove sono ordinati i romanzi in traduzione - soprattutto russi - e i libri delle letterature italiana, inglese e francese e, ovviamente, l’intera produzione della poetessa americana.
È questo particolare allineamento tra Emily-Micòl-Giovanna (astronomicamente avrebbe il nome di congiunzione ) che mi ha portato a definire questa raccolta, metapoetica.
Come è noto per metaletteratura, anticamente detta anche contaminatio, si intende una concezione capacitiva della letteratura per cui un enorme deposito di materiale scritto (documenti, libri, enciclopedie, appunti su tovagliolini di argomenti e di autori differenti), può essere consultato per essere (re)impiegato, (ri)aggiornato e (re)interpretato.
Più che concentrarsi sul testo, la metaletteratura scandaglia i processi dello scrivere, da quelli più marginali e contraddittori a quelli più profondi e inconsci.
A conferma di ciò non meraviglia dunque se la raccolta della Menegùs, si apra con la traduzione di una poesia di Borges, il maestro della metaletteratura par excellence; una poesia, Mis libros, che Giovanna confessa di aver portata con sé per anni, scritta su un foglietto ripiegato tra i documenti nel portafoglio (pg. 11):

I miei libri (che non sanno che esisto)
sono parte di me quanto questo volto
di fronte dura e bocca morbida
che invano cerco negli specchi
e percorro col cavo della mano.
Non senza una certa logica amarezza
penso che le parole essenziali
che mi esprimono stanno in quei fogli
che ignorano chi io sia, non in quanti ho scritto.
Meglio così. Le voci dei morti
mi diranno per sempre.


(Mis Libros nella traduzione di Giovanna Menegùs)

Da questi indizi possiamo quindi concludere che anche Giovanna ha una stanza piena degli stessi vestiti e gioielli di Micòl e ci sembra di vederla tradurre, proprio come Micòl, una poesia di Emily Dickinson (pg. 53):

Si narra che l’Himalaya s’inchinò
fino alla margherita-
trasportato dalla compassione
che una tale fanciulla coltivasse
il proprio universo là dove egli, tenda su tenda,
le sue bandiere di neve dispiegava


(n. 481 nella traduzione di Giovanna Menegùs)

Come non immaginare qui le montagne del Cadore - posto delle fragole di Giovanna - inchinarsi fino a lei, alla pratolina?

E come non ricordare tutte le altre poesie tradotte nella Investitura di voci: quelle di Trakl, di Rilke, di Sachs, di Thomas? Tutti poeti che, manco a dirlo, investono l’ascoltatore nel duplice senso di ripararlo da una condizione di fondamentale nudità ( i vestiti di Micòl/Giovanna) e di (ri)metterlo in possesso di una propria dignità. Una operazione quindi, quella dell’investitura, che coinvolge in un sol colpo il lato fisico e quello emozionale di ognuno di noi, la nostra apparente esteriorità e quella interiorità nascosta, a volte, persino a noi stessi.

Ricordiamo che fin dal suo primo manifestarsi a cavallo del muro di cinta di casa Finzi Contini, Micòl è figura tra due mondi, proprio questi due mondi: il primo quello della neutra esteriorità, dove vive il giovane narratore, ma dove viviamo anche noi lettori, e il secondo, quello della misteriosa interiorità, l’ hortus conclusus in cui abita la Poesia. Anni dopo, a causa delle leggi razziali, Micòl diventerà la guida effettiva tra questi mondi e, per così dire, la sacerdotessa di un rito di passaggio. Di lei e dei suoi poeti- lo sapevamo fin dall’inizio della lettura del romanzo di Bassani- restano solo le voci e una sorta di rapimento improvviso e violento...un’ investitura che ci ripara dal freddo e ci restituisce il possesso del sacro o, meglio sarebbe dire, ad Esso ci riconsegna!

Perché in Cadore, sulle Dolomiti, l’aprile-il momento del disgelo-è il più drammatico e straordinario sconvolgimento di terra e acqua, morte e vita. Non esiste nell’intero ciclo delle stagioni un tempo simile, e ha i colori spenti, lividi e incerti, il senso tragico e la fisicità, la matericità stessa delle opere del [pittore sloveno Zoran] Music [internato a Dachau]:...quelle dedicate ai morti dei campi di concentramento. Certo, a Dachau è presente la storia umana con tutto il suo peso e il suo orrore..., direi la sua condizione di fondamentale nudità, mentre ...nell’aprile della montagna [è presente] “soltanto” un inconsapevole ciclo naturale: pure in quei giorni avvertivo una identità nelle tracce, nei segni, i colori e le forme del paesaggio intorno a me, e ho tentato di esprimerla con i versi…(pg.97) e con tutte le voci della Poesia.

Attraverso questa raccolta metapoetica Giovanna Menegùs ha costruito un monumento alla Parola poetica che non è più soltanto qualcosa che, insieme a lei, amiamo, ma un luogo mitico, inviolato e eterno che ci ripara nei momenti tristi e freddi della vita e, contemporaneamente, ci restituisce alla nostra più profonda umanità.

mercoledì 6 giugno 2018

Il De rerum motu di Pontiggia

Come abbiamo più volte ricordato nel Post delle Fragole, le biografie dei poeti sono identiche e così, come accade per gli uccelli, quello che di loro è veramente importante sapere è il suono che emettono. Il loro canto.
Ma ancora più importante sarebbe riuscire a capire il perché di questo canto.
Il canto, infatti, esprime un moto delle cose, una transizione in corso piuttosto che un racconto con un inizio e una fine. Il canto cioè traduce la marea e non le leggi fisiche che la regolano.

Perché dunque i poeti cantano?

Potremmo affidarci alle canoniche quattro risposte logiche: i poeti cantano 1)perché hanno un organo vocale complesso e circuiti neurali legati alla fonazione e attivati da specifici livelli ormonali;
2) per via di condizionamenti ambientale; 3) perché hanno sviluppato un organo vocale e che questo -la laringe umana, come la syrinx degli uccelli- non fossilizza e quindi non lascia tracce di sé; e, last but not least, perchè questo avrebbe migliorato l’attrazione per l’accoppiamento ( e quindi la sopravvivenza della specie) e la difesa del territorio ( e quindi l’equilibrio del proprio habitat naturale).
Oppure potremmo rispondere semplicemente così:
i poeti cantano perché prima di altri vedono e ascoltano ciò che accade sulla superficie che separa il caos dalla necessità (ma lo stesso sarebbe dire: Dio dal Nulla, Presenza dal Vuoto).
È su questa superficie che la catastrofe si fa emergenza. È su questa superficie che il Poeta attinge a quella “materia” necessaria all’espansione di universi futuri e al dispiegamento del suo canto.

Studi recenti sui sistemi complessi (dai quali derivano i concetti di catastrofe e di emergenza) sembrano affermare il concetto surrealista della natura poetico-rivoluzionario della realtà. Le ricerche hanno dimostrato che i sistemi costituiti da un grande numero di elementi ( atomi, molecole, individui di una specie,...) non tendono affatto verso l’equilibrio ma verso “belle” convulsioni chiamate “transizioni di fase”.
È bene comunque sottolineare il seguente aspetto:

il fenomeno emergente che distingue una fase dall’altra non è lo sviluppo di un ordine o, viceversa la sua perdita, ma la formazione o la distruzione di una superficie.

Nella sua ultima raccolta Il moto delle cose (Lo specchio, Mondadori 2017), Giancarlo Pontiggia è là, su quella superficie tra due fasi, due mondi differenti, a maneggiare quella materia che, per casualità o causalità, può benissimo appartenere all’uno o all’altro mondo o che può transitare da una fase informe, vorticosa e sconvolta da urti e esplosioni celesti a quella più accomodata e accomodante di un...cristallo trasparente, ordinato, tagliente come la più acuta delle teorie.


Ora è noto che un’emergenza segue sempre un “fallimento topologico” ( in matematica denominato, appunto, catastrofe), vale a dire che se il canto è un’emergenza, la catastrofe, da sempre, lo precede!
Il moto delle cose è il canto di Giancarlo Pontiggia, la sua emergenza, e attraverso questo canto si proverà a guardare in faccia la... Catastrofe che lo ha generato.

Fin dall’inizio Il moto si presenta come un corpo senza lingua - senza una voce quindi - tanto che, in un “vuoto cromosomico”, si assiste alla comparsa del canto

...nella vita che è, nel tutto/che s’invasa in uno, prima/di sfarsi nel crivello della mente...


Non essendoci una vera e propria identità - un corpo con una lingua - allora non esistono propriamente parole ma... stridi, becchi, blaterii/buchi di lingua, suoni/che si torcono, stipano,/si ammaccano.
Il canto dunque appare o, per meglio dire, emerge come l’eco di rovine di una catastrofe iniziale: lo scricchiolìo di un universo che esce dal guscio, il blaterìo di una galassia nascente, il c(a|o)lore sonoro di una radiazione di fondo appena percepibile, il rotolare di biglie, l’accodarsi di comete, il torcersi di ere fino allo stiparsi di specie.

Rovine, trombe, quando/chi siede, in un giardino/di pensieri e di aranci, sente/all’improvviso un urto, scricchia/il terso dei cieli, s’incavedia/il lume della vita – arco, stame//sfinge


E più ci si avventura nel leggere i segni della catastrofe più avvertiamo la necessità di un canto, di ritrovare cioè respiri più profondi di Big Bangs e Big Crunches dell’Universo

...cos’era - ti chiedi – questo/fervente agitìo,/questo mùgghio/di vite che premono, ansano,/che ribollono/nella gran pappa del mondo//il concime/della vita, la sua pasta/opaca, nera, che lievita, lievita/dal fondo delle cose/che furono, dal niente/che ritorna, dalla sua ombra/più lucente,/e si riveste/ di un nuovo, fulgido/se stesso//niente che germina dal niente/stesso che genera se stesso

Il canto di Pontiggia emergerebbe dunque per conservare memorie vegetali, geologiche, stellari e di Erebi universali; un canto che nasce quindi per ricordare un nostro (dell’uomo) particolare moto delle cose: la triste felicità che accompagna il processo di conoscenza.
L’ardore che sprigiona ogni poesia di questa raccolta è il risultato di una catastrofe che si è fatta emergenza. La scienza, lo studio della marea e dei relitti della catastrofe, potrebbe paradossalmente allontanarci dai moti naturali dello spirito e dall’Enigma inamovibile del moto delle cose

E noi ci perdemmo in questo/possente inizio delle cose/che fu per tutti la vita – la vita//com’è, quando ancora niente è in noi/se non caldo grembo, cibo, sonno,/suoni stranieri che rimbombano nel cavo//della mente

Il poeta è il primo testimone di uno sguardo che non vede più, di un pensiero che non rinuncia più a nulla se non all’Enigma in quanto tale, eliminandolo.
Il Poeta sa bene che l’emergenza non dice nulla della catastrofe; che il canto non può raccontare. Il mondo di oggi ci ha abituati a dire e ascoltare ogni cosa sulle cose ma niente sul loro moto . Crediamo di sapere come è stato costruito l’Universo, quali tecniche e materiali sono stati utilizzati, possiamo perfino descriverne ed esaltarne la bellezza, inventare una nostra Storia della sua Architettura ma tutto questo non dirà nulla sul perché e, soprattutto, nulla sulla catastrofe che lo ha preceduto.
Il Poeta non può fare altro che cantare. Da quella superficie può tuffarsi nella profondità dei mondi vecchi e nuovi; esplorare i fondali dell’antichità cosmica; accedere a quelli di futuri miti. E una volta riemerso non può fare altro che cantare.

È vero: come un uccello Pontiggia canta perché ha un organo vocale complesso e mappe neurali legate a specifici livelli ormonali; canta perché anche gli altri individui della sua specie emettono suoni, o cercano di imitare un canto ( come i merli che riescono ad imitare il canto di altre venti specie di uccelli) e canta anche perché questo gli permette di sottolineare un’ identità di specie.
Ma nel profondo il canto di Pontiggia serve a ricordare l’antico bulicame delle cose dal quale siamo emersi e il catastrofico poi in cui tuffarsi per riemergere.
Da una parte o dall’altra. Da Dio o dal Nulla. Dalla Presenza o dal Vuoto.



IL TUFFATORE
(Prima di ogni epilogo)

Una svolta, fine, poi.
È quel poi che lo assilla.
Come ferve, dietro di sé, l’antico
bulicame delle cose. Buttarsi non
buttarsi. Un ramo oscilla
sul ciglio dell’occhio che precipita
in un’ardesia di fuoco,

immane

martedì 1 maggio 2018

Come nasce un poeta

Avevo portato con me solo un libro da leggere durante il viaggio e lo avevo scelto con cura per due motivi: uno che conoscevo già, l’altro che avrei conosciuto solo al termine del mio soggiorno a Praga.
Questo il titolo del libro: Come nasce un poeta. Epistolario 1965-1982 [1].
A quei pochi affezionati lettori del Post delle Fragole dovrebbe essere ormai chiaro che quello dell’esperienza poetica - più della poesia criticata e della critica poetica - è il tema più ricercato e trattato su questo blog. Il libro curato da Federico Migliorati per la Minerva Soluzioni Editoriali di Bologna è il carteggio intercorso tra Roberto Pazzi e Vittorio Sereni, carteggio ritenuto dimezzato e perduto dall’autore, il ferrarese Pazzi, ma che è stato invece ricomposto nella sua unità temporale grazie al curatore e all’Archivio Sereni.
Così i pezzi di questa esperienza hanno trovato anche la loro unità spaziale.
Un libro che parla di “una” esperienza poetica, dunque, e che dovrebbe verosimilmente indugiare sull’urgenza di scrivere - imperiosamente avvertita da un giovane poeta – che, necessariamente, deve essere soddisfatta in un modo particolare.

Si può benissimo pensare che la magnificenza della vita sia pronta intorno a ognuno e in tutta la sua pienezza, ma velata, nel profondo, invisibile, lontanissima. È però non ostile, non riluttante, non sorda. Se la si chiama con la parola giusta, col nome giusto, viene”.[2]

Ho letto il libro , le lettere giovani, a tratti ingenue ma sempre riguardose di Roberto a Sereni e le risposte quiete, confortanti e comprensive di Sereni a Roberto e in un lampo (quei lampi che sempre sono piaciuti a Pazzi vedi la poesia Il bel ritorno a pg.170 del libro) ho avuto la prova di questa verità: la cultura è una collaborazione tra generazioni! Ma credo, e queste lettere lo dimostrano, anche una collaborazione tra anime che si mettono completamente a nudo. Quale è il miglior modo per farlo se non scrivere un diario, delle lettere o delle poesie?
Forme che rappresentano una sorta di harakiri di carta!
Oggi a quelle forme si sono sostituite le pagine facebook, le e-mail e i twitter. Riusciamo a trovare in questi nuovi strumenti altrettanta Solidità e Persuasione di questa?

“...ogni volta che mi sono trovato a parlare con Lei “qualcosa” accadeva (e non so cosa) per cui mi diventava difficilissimo parlare, dire il mio pensiero. Ogni volta c’è stato uno scarto (che mi ha fatto soffrire) fra quello che avrei voluto dirLe di me, dei miei problemi, della poesia, delle poesie che scrivo, e quello che le dicevo. Un senso d’imbarazzo, un dispetto per aver detto cose stupide più stupide di quelle (forse) che pensavo. E tutto si riduceva ogni volta alla fine a quell’argomento della pubblicazione, mentre - mi creda – non avrei voluto mai che fosse il solo argomento sostanziale dei nostri colloqui. Allora ogni volta mi dicevo: “Questa volta non sono riuscito a parlarGli, a comunicare con lui, ma la prossima sarà quella buona...” (corsivo mio; dalla lettera dell’agosto 1969, pg. 46).

Stupiscono di queste righe due cose, la prima: questa profondità della confessione del giovane poeta Pazzi, quel virgolettato di una lettera che, di per sé, è già un Tutto virgolettato, quasi fosse necessario ed urgente svelare quanto di più segreto ci fosse nel proprio animo (l’harakiri di carta!). E la seconda cosa che stupisce è quella forma di rispetto quasi religioso dello “Gli” che, pur riferendosi a un sé tra sé, s’erge al termine della parola “parlargli” come un’icona dinnanzi alla quale inginocchiarsi per pregare.
Forse qui tra queste forme, dubbi e certezze sospese comincia ad ardere l’esperienza poetica: in questa sorta di brodo primordiale, di punto singolare, di orizzonte degli eventi. Quasi si trovasse, l’esperienza poetica, in un Bardo dove la nostra anima sospesa, prima di reincarnarsi, si interroga sulla vita precedente per prepararsi a quella nuova.

Se la poesia come affermava Sereni ferma la verità di un attimo la Persuasione che avvertiamo in queste parole conferma e riafferma questa affermazione. Tutto il contrario di quello che accade con la Rettorica dei nostri nuovi strumenti di “comunicazione” che, pertanto, non sono in grado di af-fermare neanche un attimo di verità.
E passiamo ora alla seconda “ragione” per la quale avrei scelto questo libro da portare con me a Praga.
Questa mi si è rivelata in tutta la sua magnificenza nascosta tra le strade di questa citta, il suo Vicolo d’Oro e la mia memoria sopita: una lettera che Kafka scrisse alla sua amata Milena.
L’ho richiamata con la parola giusta ed è venuta.

E’ già tanto tempo che non Le scrivo, signora Milena, e anche oggi Le scrivo soltanto per caso: veramente non dovrei neanche scusarmi se non scrivo , Lei sa come odio le lettere. Tutta l’ infelicità della mia vita – e con ciò non voglio lagnarmi, ma soltanto fare una costatazione universalmente istruttiva – proviene, se vogliamo, dalle lettere o dalla possibilità di scrivere lettere. Gli uomini non mi hanno forse mai ingannato, le lettere invece sempre, e precisamente non quelle altrui, ma le mie. Nel caso mio si tratta di una disgrazia particolare, della quale non voglio dire altro, ma nello stesso tempo anche di una disgrazia generale.
La facilità di scrivere lettere – considerata puramente in teoria- deve aver portato nel mondo uno spaventevole scompiglio delle anime. E’ infatti un contatto fra fantasmi, e non solo col fantasma del destinatario, ma anche col proprio, che si sviluppa tra le mani nella lettera che stiamo scrivendo, o magari in una successione di lettere, dove l’ una conferma l’ altra e ad essa può appellarsi per testimonianza. Come sarà nata mai l’ idea che gli uomini possano mettersi in contatto fra loro attraverso le lettere? A una creatura umana distante si può pensare e si può afferrare una creatura umana vicina, tutto il resto sorpassa le forze umane
…”[3]

La poesia ha le sue ragioni che la ragione non conosce e l’esperienza poetica è tutta qua o se volete qua:

Ferrara, 8 Novembre 1981
A Vittorio Sereni

Per otto anni il mio orologio
ritardava un minuto e mezzo
ogni sette giorni.
Poi una mano lo aprì, e ora
anticipa di un minuto e mezzo
ogni sette giorni.
Risanato cammino, operato
invece che al cuore al tempo.
È una convalescenza da tutti
i ritardi sommati nelle mie arterie,
gli antipodi forse camminano così.
È spostato l’asse celeste del
cervello, di qualche grado in meno
inclinato sul piano della morte,
gioca con orbite di stelle più lontane.
Per fare i conti di quanto
debbo restituire di anni rubati
scrivo queste operazioni.

Roberto Pazzi

È vero : a una creatura umana distante si può solo pensare mentre si può afferrare una creatura umana vicina; ma queste lettere dal passato tra Pazzi e Sereni non appaiono essere un contatto tra fantasmi. Tutt’altro.
Queste pagine di diari intimi, questi harakiri di carta, sono invece strumenti per reincarnarsi, sono parole che provengono dal Bardo delle anime sospese tra vecchie e nuove vite, sono voci che non lasciano nessun altra scelta che spegnere il computer e tornare ad abbracciarsi.

Riferimenti

[1] – Roberto Pazzi e Vittorio Sereni, Come nasce un poeta. Epistolario 1965-1982 a cura di Federico Migliorati, Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna (2018)
[2] – Franz Kafka, Confessioni e Diari, I Meridiani Mondadori, Milano (2013)
[3] – Franz Kafka, Lettere a Milena, Oscar Moderni Mondadori, Milano (2017)

lunedì 9 aprile 2018

Quasi estate: la cavalletta di van Gogh

Vincent van Gogh mischiava en plein air il mondo ai colori, impastava per così dire la Natura all’Anima: «In tutta la natura, » - diceva - «negli alberi, ad esempio, vedo delle espressioni e...un’anima».
Non c’è da meravigliarsi dunque se una cavalletta vide sulla tela del pittore dei veri alberi d’ulivo dove posarsi. La storia, seppure recentissima, è nota: quella cavalletta, che nel 1889 si appoggiò sugli Ulivi di van Gogh - un verde tra verdi –, è rimasta lì nascosta, nel suo paradiso quadrato, per 128 anni. Van Gogh, senza accorgersene, la mischiò, letteralmente, al suo colore.

Accade lo stesso per la poesia e per quei poeti che mischiano le parole al mondo; può succedere cioè che distrattamente, senza averne reale volontà e coscienza, a un poeta, o come nel caso di Giovanna Menegus, a una poeta, succeda di intrappolare nella sua Poesia...una cavalletta.

La cavalletta (Natura) che si mischia all’Arte-Technè (Spirito) dell’uomo potrebbe di per sé rappresentare un fatto traumatico: si pensi all’invasione della tecnica nell’ambiente.
Mescolare è altra cosa. Integrare, mimetizzare: fingere! ...è tutta un’altra cosa.

Trappole da evitare facendo poesia:

finta profondità (sentenze ovvia filosofia)
finta leggerezza (svagatezza pretesa ironia)
facile impressionismo (acquerelli pastelli autoscatti
fotografia)
musicali consolazioni (rime assonanze magia
fantasia)
amore dolore fiore ardore (impronunciabili ormai,
suvvia)

Verificato d’essere in trappola
evitare dunque di fare poesia?

[Instance da la lettre, pg.82]


L’autentica poesia è figlia di un paradosso perché il poeta non possiede nulla a cominciare dalle sue contraddizioni per finire alle chiavi della sua trappola. Anzi il poeta è colui che pur sapendo d’essere in trappola, la arreda!
In una società dove l’unica cosa vera è la simulazione, la poeta (manco a dirlo) finge e finge così completamente che arriva a fingere che è profondità, leggerezza, amore, dolore, colore, gioia, la gioia, il colore, il dolore, l’amore, la leggerezza e la profondità che lei vive veramente.

I fiori della Menegus sono scuri. Gli uccelli della Menegus non cantano.
È lei il colore di quei fiori; è lei il canto di quegli uccelli.

I fiori e gli uccelli di cui parla la Menegus nelle prime due sezioni della sua raccolta,Quasi estate[1],sono gli... arredi della trappola: la Menegus sa bene che una Poesia è accettabile se si presenta come un vortice di immagini e di suoni e questi colori (dei fiori) risultano accettabili perché si presentano come l’evoluzione del buio; lo stesso vale per il canto appena accennato degli uccelli come evoluzione del silenzio.

Il trepido saliscendi dei merli
tesse le ultime foglie gialle e brune
dei ciliegi – ma lontani

affondano i corvi nella nebbia
senza un suono

lividi cachi
pendono tra i rami

[Fiori, pg.17]

Gli uccelli di Ornithology... gracchiano nomi umani (pg.35);... covano senza più un trillo o un frullo (pg.36);... esplodono in un rauco grido (pg.38) ma non cantano...figurarsi se possono accorgersi di una cavalletta che salta proprio davanti ai loro becchi!
Non possiamo certamente aspettare 128 anni per scoprirla questa cavalletta! Allora leggiamo e rileggiamo attentamente la Poesia di Giovanna. Ricominciamo dalla prima, anzi no dal Marzo proemiale a pg.9

Da dove è tornata ora questa luce

e dall’orlo celeste del visibile
gemmano bocci foglie ovunque premono

-membrana d’aria e luce che palpita si lacera
per tutta
l’alta cupola del cielo

guscio d’uovo
si crepa e schiude

genera rigenera

La Notte, prima deità del mondo, l’Erebo degli orfici, è anche l’ Uovo del mondo.
La cavalletta sta saltando nel...libro.

Notte e Uovo del Mondo dunque.

Perché non coniugarli come ha fatto la filosofa e saggista spagnola Maria Zambrano? Perché non coniugare la profondità della rivelazione dell’ “essere” nascosto, con la parola che rileva la luce della profondità dell’essere, la presenza del dio Fanes, che genera la pluralità nella notte e offre la parola a chi non ce l’ha?


Più voglio vedere, più serro gli occhi
e cresce il buio: addensa
in nera lava liquefatta
brace – Vedere la tenebra

Nel giorno ancora cerco
i bagliori infranti del suo
brulicare dietro le palpebre
e bruciare lungo gli orizzonti
-gli specchi opachi delle pozzanghere
che cieche luccicano
nell’asfalto-
e l’affiorare luce dalla notte
in fondo squarcio fiotto di fiamma
e a un tratto quieto
piano schiudersi:
creazione delle creature -che tutte hanno
ali d’ombra e tralci di foglie, fronte
dolce dentro l’alto buio
radioso

Ma l’insonne notte fin dentro il giorno
reca pelle e grande manto di serpente:
questa lucida liquida
guaina
nera-ardente
dove forme e esseri erompono
dall’oscurità

prigionieri sguainati lottano emergono

emergono

emergono

(Dylan Thomas, “Vision and Prayer” )

[Fiori, pg.20]


Diceva la Zambrano : «Si dimentica sempre la lacerazione e il patimento dell’Aurora, il suo parto, se non si tiene conto della Notte, se la si vede unicamente come l’annuncio del Giorno»[2].

Al Giorno splendente della coscienza individuale che, spesso, deborda in un pensiero calcolante, in una ragione unilaterale, fideistica o dogmatica, è meglio preferire la figura mitica di Aurora, sorella della Notte, promessa dell’alba (quasi giorno), così come promessa del silenzio, è la poesia.
Ed ecco i fiori quasi colorati, il quasi canto degli uccelli.
Ecco: Quasi. La cavalletta.
L’avevamo sotto gli occhi fin dall’inizio e come la cavalletta del quadro di van Gogh non l’abbiamo vista immediatamente e , probabilmente, Giovanna non sapeva neanche di averla...ricoperta di parole quando la mischiava, insieme a tutte le altre parole, al mondo.

Ma questa è l’abilità del vero...fingitore.

Chi scrive versi deve prima di tutto fingere nel senso di formare, modellare, rappresentare per mezzo di un materiale (marmo, colore, parola, suono) l’oggetto che sta realizzando senza lasciarsi distrarre da imprevisti come quello di un “insetto” che vuole posarsi sul foglio. Così l’immagine poetica, per essere comunicata, deve passare attraverso la finzione (non come un quasi qualsiasi!).
Dopo averle provate, le emozioni hanno bisogno di essere immaginate e quindi - dopo questo atto nel quale un quasi qualsiasi è diventato il quasi - saranno pronte per essere ...mischiate e rivissute.
Noi lettori, nel suonare la parola, attribuiamo al “letto” un ulteriore significato: non è più ad es. il quasi vissuto dalla poeta né il colore che la poeta ha finto ma si tratta di un quasi, un colore, che riguarda esclusivamente chi legge e il suo personale sdoppiamento: del quasi reale e di quello immaginato. Lo stesso vale per il canto accennato degli uccelli.

La poesia dunque sempre è frutto, sia nella scrittura che nella lettura, di un movimento a spirale generato dalla e-mozione (a cui le recenti scoperte neurobiologiche attribuiscono la funzione di...intuizione razionale) che prosegue poi attraverso la ragione (come atto creativo del fingere) e culmina nella cristallizzazione di un sentimento.
Una dialettica serrata tra mistero e conoscenza attraversa dunque la poesia di Giovanna Menegus. In tale processo creativo la poeta non si lascia vincere dalla suggestione di ciò che è indefinibile (il colore, il suono, etc...) ma cerca di penetrarvi con un costante lavorìo poetico. Tutti i suoi sforzi, così, sono orientati a uscire dal buio e dal silenzio per tendere verso la luce e la parola convincendoci che la bellezza non risiede tanto nel mistero quanto nel desiderio di penetrarlo, così come verrebbe penetrato e/o rotto il guscio di un...uovo.
Questa operazione biologica ma, diciamo pure, quasi misterica, trova nella poeta il suo Orfeo (il solitario) e nella Notte e nell’ Uovo del mondo la sua cosmogonia così ben stabilita e trasmessa da Aristofane negli ... Uccelli (vv. 693 e ss.)

«Nella Notte e sull’Erebo, naviga l’Uovo del mondo che si divide e moltiplica in una generazione infinita. E nel suo essere più recondito, germe della vita e dell’essere, il fuoco. Il fuoco che si fa fiamma, parola...». La vita che continua, di generazione in generazione, a penetrare, a farsi luce...
...quasi estate!

Ecco la cavalletta.

Quasi.

Presa.

IV

La bruna incandescenza del crepuscolo
che vibra intorno,
s’addensa ad ogni angolo:

luce febbricitante incendia
la lunga linea della notte,
nera e sottile come una ferita


[Orfiche, pg. 48]

Riferimenti
[1]- G. Menegus, Quasi estate, ExCogita,(2017)
[2]- M. Zambrano, All'ombra del Dio sconosciuto, a cura di E. Laurenzi, Pratiche-il Saggiatore, Milano (1997)


martedì 20 marzo 2018

Il cane di Raimondi

L’osservazione fisica si basa su dati di fatto rilevabili e misurabili, comprendenti, persino, l’inchiostro usato per scrivere una parola o il materiale usato per modellare una figura. Una osservazione metafisica, andando oltre questi elementi contingenti dell'esperienza sensoriale, presume di occuparsi di aspetti universali ritenuti addirittura più autentici e fondamentali della realtà materiale.
Da questo punto di vista l’osservazione attenta dell’opera di Alberto Giacometti, Il cane che dà il titolo all’ultima raccolta di Stefano Raimondi[1], può aiutare ad orientarci in una Poesia dell’abbandono. È indubbio che il cane di Giacometti è come l’usignolo di Keats: l’abbandono di cui parla il poeta è abbandono di tutti, a partire da questo cane scheletrico che ci viene incontro per strada.
Scrive Jean Genet nel suo L’Atelier di Alberto Giacometti[2]: «Il cane in bronzo di Giacometti, mirabile. Ancor più bello quando pencolava allo stato di materia grezza: gesso, filamenti intrecciati alla stoppa. La linea delle zampe davanti, senza articolazione marcata, e visibile tuttavia, così bella che decide da sola la docile andatura del cane». Questa è una osservazione fisica che però ben rappresenta la poesia di Raimondi. La parola/gesso, i versi/filamento che si intrecciano alla stoppa/testo senza una marcata articolazione si fanno così visibili e sonori da decidere una docile lettura . Veniamo così abbandonati a quei segni che intrattengono tra loro rapporti sfuggenti e allo stesso tempo determinanti. La maggior parte delle cose in Natura emerge in questo modo tra casualità e necessità: una stella, un cristallo, un embrione, un germoglio, una nuvola; sono tutti processi che si esplicano attraverso una nucleazione e una crescita.

E la poesia fa lo stesso.

Quante cose si possono dire, quante
per salvarsi in tempo, per salvare.
Non ci sono gesti da spiegare
senza mondo intorno:
angoli dove a svoltare
è solo un pezzo di luce inutile
una staffa senza caviglia
un salto senza rincorsa.
Non esiste una parola sola
che possa salvare in tempo
una frase, una bocca, la lentezza
inesorabile di un pane che si rafferma.
(pg.19)

Sembra che dopo... esserci nel primo verso (per ben undici volte il testo inizia con un Ci sono), Raimondi abbandoni le parole al loro borbottìo : in un certo senso ogni parola parla con tutte le altre che la riconoscono. Ogni parola viene così accolta soprattutto da quelle che presentano con lei affinità di significato, di metafora, di risonanza, di musicalità e ritmo.
Così come sembra accadere nel cane di Giacometti dove ogni singolo tratto viene accolto e integrato dal segmento precedente e quello successivo tanto da conferire una dinamicità naturale a un assemblaggio di materia inorganica.

Ci sono dei sogni, a volte
che ci si arriva col fiato grosso
con tutto quello che si vorrebbe fare.

Salvarsi dalle notti d’ossa
fa restare rasenti a tutto.

Tenersi vicini ci si racconta
come quando ci si corre incontro
e a stupirsi è solo il nostro pezzo felice.
(pg. 89)

Passiamo ora all’osservazione metafisica. Nel tentativo di superare gli elementi instabili, mutevoli, e accidentali della materia grezza – il gesso, il fil di ferro, la stoppa, il bronzo - la metafisica concentra la propria attenzione su ciò che considera stabile, necessario, assoluto, per cercare di cogliere le strutture fondamentali dell'essere. In quest'ottica, i rapporti tra metafisica e ontologia sono molto stretti, tanto che sin dall'antichità si è soliti racchiudere il senso della metafisica nell'incessante ricerca di una risposta alla domanda delle domande: «perché l'essere piuttosto che il nulla?». La scultura di Giacometti, quel cane così filiforme da essere trasparente -l’(a|e)ssenza del cane- pare porre in altri termini la stessa domanda: «Perchè, abbandonato, esisto? » o meglio ancora «Perchè, esistente, m’abbandono?»
Come la maggior parte delle sculture di Giacometti, Il cane del 1951 suggerisce l’apparizione di una vita a distanza, anzi osservata e persa nella distanza; è una scultura euclidea, anoressica per erosione di materia, ma nello stesso tempo ancora vibrante e nutrita.
La vita non è un cane rabbioso che morde, ma un cane che “si abbandona”.
Non si è abbandonati. Non abbandoniamo. Noi siamo nell’ abbandono.

Sono fatti così gli abbandoni:
restano fino a trovarti, fanno
fino a commuoverti in una parola sola
in poche cose, in quello che tieni
stretto tra le mani e non c’è già più
davvero.
(pg. 29)

La reazione a questa presa di coscienza è una cieca brama di sopravvivenza, un ostinato aggrapparsi al poco che è concesso, anche al nulla di una linea euclidea, certamente inesistente ma tanto affilata da ritagliare un mondo.
Jean Genet così continua: “Da principio scelto come segno di miseria e solitudine, il cane mi pare disegnato adesso come spettro armonico, la linea della schiena che risponde alla linea delle zampe, spettro che sa essere l’esaltazione suprema della solitudine” e proprio in questa
“...oscillazione tra solitudine, miseria e armonia, tra luce, stella, tremore e senso d’abbandono” che Fabio Pusterla individua il nucleo metafisico della Poesia di Stefano Raimondi.

Ma dopo tutte le corrette e inconfutabili osservazioni di carattere fisico e metafisico occorre individuare il particolare, quella osservazione unica, profetica e miracolosa che contrariamente alle prime due, non si occupa del generale o addirittura dell’assoluto. Quell’osservazione che concede l’accesso a un atto conoscitivo quasi sciamanico.
In effetti questo tipo di osservazione ci vede osservati più che osservatori, ci vede cioè compromessi con l’opera.
C’è un episodio della vita di Giacometti che fa capire questo aspetto: un giorno Alberto, disegnando nell’atelier di suo padre aveva attribuito a una pera una dimensione così minuscola da far apparire il foglio gigantesco e provocando per questo l’irritazione del padre che lo rimproverò: «Falla dunque come la vedi!». Ma era precisamente così che Alberto vedeva quella pera, cioè come una presenza. Non si trattava quindi di uno studio ma esattamente l’opposto: era l’aprirsi ad una apparizione.
Cosicché si comprende che l’esperienza dell’abbandono è l’abbandonarsi.
Leggiamo sul vocabolario, tra le definizione di abbandono, la seguente: “il lasciarsi andare, con valore positivo, l'affidarsi pienamente: a. in Dio; con valore negativo, perdita di fiducia, scoramento SIN sconforto: essere preso da un senso di a.
E questa definizione ci mostra non una ambiguità del termine ( lasciarsi andare) ma il... termine di un’ambiguità; e ci conduce, come spesso accade, in Oriente.
Chang Chung-yuan è uno dei pochi studiosi che ha visto nel saggio di Heidegger, L’Abbandono[3], un avvicinamento al pensiero orientale. Egli infatti ha tentato una comparazione tra il concetto di abbandono con il rispettivo concetto orientale di wu wei (non-azione). In un sua relazione Chang Chung-yuan [4] cita il seguente passaggio di Heidegger: “Vorrei chiamare questo contegno che dice al tempo stesso sì e no [...] con un’antica parola: l’abbandono di fronte alle cose”.
Questo abbandono richiama ciò di cui parla Chuang-tzu: “Colui che ha praticato intimamente il non-agire è tranquillo come la baia, silenzioso come il deserto, pacato come la melodia. [...] Ciò che fa si che le cose siano cose non è limitato dalle cose; tutte le cose hanno i loro limiti propri; è quel che si chiama il limite delle cose; [...] Ciò che si chiama la pienezza e il vuoto, la decadenza e la diminuzione; contenuto nella pienezza e nel vuoto, il Tao non è pienezza né vuoto; contenuto nella decadenza e nella diminuzione, il tao non è né decadenza né diminuzione” .
Questo è propriamente dire no e allo stesso tempo sì. Questo significa abbandonarsi di fronte alle cose. E da ultimo, questo è anche l’insegnamento di Chuang-tzu che conduce gli uomini alla libertà di fronte alle cose.
Il cane di Giacometti e, ça va sans dire, la Poesia di Raimondi “dicono” no e si allo stesso tempo così che nell’abbandono non sempre si è completamente abbandonati o ci lasciamo completamente andare.
L’abbandono cioè è e, contemporaneamente, non è sempre un ‘abbandono’: una visione del reale questa dove tutto si contiene nella pienezza e nel vuoto, nel cadere e nell’andare avanti, nella decadenza e nella diminuzione. Un segno dunque che invita a ricondurre lo sguardo all’altezza degli occhi di chi sa come procedere, nonostante tutto e nonostante il tutto: tranquillamente come una baia, silenziosamente come un deserto, pacatamente come una melodia.

Un po' come sembra procedere - a dispetto della fisica e della metafisica - il cane di Giacometti o il verso di Raimondi.


Ci sono parole appese a un filo
matasse ingarbugliate dalle mani


A volte ci si protegge dall’amore
con un altro amore, dalle onde
stando con la testa sotto l’acqua.

Dal dolore si passa facendosi sottili
come una luce d’alba che subito finisce.
(pg.99)


Riferimenti
[1] - S. Raimondi, Il cane di Giacometti, Marcos y Marcos (2017)
[2] - G. Jenet, L'atelier di Alberto Giacometti, il Melangolo (1992)
[3] - M. Heidegger, L'abbandono, il Melangolo (2004)
[4] - Chang Chung-yuan, The Philosophy of Taoism According to Chuang Tzu in Philosophy East and West Vol.27, N. 4 (Oct.1977)