Forse è il colore verde acido della costa, che tra le altre spicca sullo scaffale, a farci scegliere un libro: o, forse, è il titolo: quello delle raccolte poetiche, ad esempio, dice molto; richiama e incanta quasi fosse un canto omerico di sirene.
E il caso, poi, dove lo mettiamo il caso nella cosiddetta scelta? Magari il libro è poggiato lì sullo scaffale perchè il libraio non lo ha ancora opportunamente posizionato o intende , per qualche suo motivo, promuoverlo in questo modo o, addirittura, potrebbe trattarsi di un libro abbandonato, da qualche sconosciuto, lì su un prato, tra l’erba verde mossa dal vento. Potrebbe essere solo un libro fuori posto ma che in quel preciso momento, al nostro passaggio, si trova nel posto giusto.
Come vedete quindi sono tanti i modi “oggettivi” attraverso i quali i libri oppongono alla nostra, la scelta che loro fanno di noi lettori.
Poi vi è un modo, indiscutibilmente valido perchè “soggettivo” che è sceglire in base all’autore: il suo nome e quello che evoca in noi. E’ vero, noi vediamo, ascoltiamo e scegliamo per conoscere ma è altrettanto vero che noi vediamo ascoltiamo e scegliamo ciò che conosciamo, cioè quello che abbiamo imparato o quello che “già” sapevamo e abbiamo dimenticato. E in questo “già” c’è l’Anima.
Dopo questa breve inroduzione posso passare all’ argomento del post: l’IO e il doposcuola psicoanalitico di Walt Whitman: il termine scuola sarebbe stato pretenzioso e lo stesso poeta lo avrebbe disdegnato.
Tutto quello che ci accade giorno e notte-come ad esempio, imbatterci in un libro dalla costa color verde acido - non costituisce il nostro IO.
In disparte da quanto ci sollecita e ci urge sta ciò che noi veramente siamo e se ne sta divertito, compiacente, compassionevole, inerte, unitario a guardare all’ingiù volgendo di lato la faccia, incuriosito da quello che accadrà, partecipe ma fuori dal gioco; osserva e stupisce.
Ecco cosa fa il nostro amato Whitman[1], invita ad ascoltare noi stessi come se fossimo al di qua, ovvero, al di là di una porta, ad origliare dunque per entrare in contatto (percepire chiaramente!) una dimensione inattesa e differente da quella che sperimentiamo giorno e notte grazie ai nostri sensi e alla nostra “cultura” che è spirito del tempo; perché l’ ”io” secondo Whitman è diviso in tre parti [2] : il mio io, il vero io e la mia anima. Tale mappa psichica è del tutto originale ed irriducibile al modello d’inconscio freudiano o a qualunque altra mappa della mente.
Whitman inizia il suo Il Canto di me stesso [1] con un incontro tra il suo io e la sua anima come se fossero due amici: uno dei due amici (l’anima) appare all’altro come un’enigma, meglio, come una persistenza pre-esistente e che persisterà anche dopo l’ esistenza dell’io. Potremmo definire “carattere” questo enigma, in contrapposizione alla “personalità” propria dell’io.
Nel Canto di me stesso l’Io, la personalità (maschera= prosópon=persona) poetica dell’autore, si rivolge al vero Io ma qui accade che l’autore dia la chiara impressione di conoscere perfettamente sia la propria maschera poetica, sia il vero io ma di non conoscere quella che chiama anima mia perché l’anima non si può conoscere; all’anima si può solo credere.
L’anima quindi resta un rebus malgrado questo abbraccio armonioso e questo trasporto tra lei e l’io.
Leggendo Whitman scopriamo che il vero io è la parte migliore di noi, precedente alla Creazione, e che è questa parte a fare i conti e a intrattenere una relazione con l’io e l’anima che a questo punto si rivelano essere lo Spirito (non inteso in termini religiosi , quanto il combinato disposto weiliano di comprensione e percezione; di Ragione ed Emozione ) e la Natura: l’uno e l’altra devono rispettarsi e mai soccombere l’uno all’altra!
Credo in te, anima mia, e l’altro che io sono non dovrà mai umiliarsi a te,/come tu non dovrai umiliarti all’altro.
Il racconto poetico di questo abbraccio tra l’io, la persona Walt Whitman, e l’anima è una delle ragioni per cui leggere dovrebbe essere ritenuto un DOVERE. Leggere infatti serve a fortificare l’io e non è importante se si tratti dell’ ”io” che si trova da questa o dall’altra parte della porta. Non è importante sapere se abbiamo scelto quel libro per la sua copertina verde acido o per il titolo o perché ci è piovuto tra le braccia dallo scomparto in alto a destra dello scaffale o perché lo abbiamo casualmente trovato in mezzo a un prato: quel libro va letto perché leggerlo ci aiuterà a diventare più forti a dare più fiducia a noi stessi e, di conseguenza, donarla a quelli che incontriamo, a coloro che amiamo. Il libro serve ad avere fiducia e fede, e a dare fiducia e fede in quello che sarà.
Leggere, e in particolare leggere Walt Whitman, vuol dire “solo” dare più ascolto e più voce alla Vita: di qua e di la dalla porta.
Il canto di me stesso è costituito da 52 “pagine” di un diario ; pagine, quindi, scritte in gran segreto e destinate ad essere custodite in un cassetto se non fosse che chi le ha scritte, appunto, non è un “chi”, non è un io, non è una persona, ma un noi che attraverso il vero io riesce a tradurre ciò che l’Anima tace.
Di seguito riporto tolo le prime 6 “pagine” di questo diario abbandonato su un fazzoletto del Signore e sfogliato dal vento. Fogli d’erba sempre verde, a tutte le stagioni dell’io, alle non-stagioni del vero io; al dovunque-sempre dell’Anima.
1
Io celebro me stesso, canto me stesso, /E ciò che io suppongo devi anche tu supporlo /Perché ogni atomo che mi appartiene è come appartenesse anche a te.
Ozioso m’attardo e invito l’ anima mia,/Ozioso m’attardo a mio agio e mi curvo ad osservare un filo
d'erba estiva.
La mia lingua, ogni atomo del mio sangue, prodotto da questa terra, da quest’aria,/Qui nato, da genitori nati qui, i loro padri e i padri dei padri nati anche loro qui,/lo, a trentasettenne e in perfetta salute, incomincio,/Sperando di non cessare che alla morte.
Credi e scuole in sospensiva,/Un poco indietro ritrattomi, contento di ciò che essi sono, /ma non scordandoli ,/Accolgo il bene e il male, lascio parlare a caso,/La Natura senza freno e con la nativa energia.
2
Case e stanze son tutte profumate, gli scaffali gremiti di profumi/ Io stesso inalo la fragranza, e la conosco e l’amo,/La sublimazione potrebbe inebriare anche me, ma io non lo permetto./L'atmosfera non è un profumo, non ha la fragranza della sublimazione, è inodore,/E’ destinata per sempre alla mia bocca e io ne sono innamorato,/Andrò sulla scarpata presso il bosco, per mascherarmi, per denudarmi,/Sono pazzo dal sesiderio di venirne in contatto.
Il vapore del mio fiato,/Echi, increspature, soffocati sussurri, radice d'amore, filo di seta, biforcazioni, viticci,/ La mia respirazione e inspirazione, il pulsare del mio cuore, il transito del sangue e dell’aria per i miei polmoni,/L’odore delle foglie verdi e delle foglie secche, e della spiaggia, e delle brune rocce marine, e del fieno nel fienile,/Il suono delle parole vomitate, della mia voce affidata ai refoli del vento,/Pochi labili baci, una stretta, qualche braccio proteso,/Gioco di luci e d’ombre sugli alberi, quando oscillano i flessili rami,/La delizia di trovarsi solo, o tra la folla per strada, o nei campi, o sui fianchi d’una collina,/La sensazione di salute , il trillo del pieno meriggio, il canto di me che mi levo al mattino e vado incontro al sole.
Credevi che mille acri fossero molto? Credevi che la terra fosse molto?/Ti sei esercitato tanto per imparare a leggere?/Ti sei sentito così superbo perché intendevi il senso delle poesie?
Fermati oggi con me, fermati questa notte, e tu capirai l’origine di tutte le poesie,/Possederai il bene della terra e del sole (sono rimasti ancora milioni di soli,)/Non riceverai più le cose di seconda, terza mano, non dovrai più guardare attraverso gli occhi dei morti, né nutrirti di spettri nei libri,/Non dovrai guardare attraverso gli occhi miei, né ricevere sensazioni per mezzo mio,/Percepirai d’ogni parte suoni e li filtrerai attraverso te stesso.
3
Ho udito ciò che dicevano gli oratori che parlavano del principio e della fine,/Ma io non discuto né di principio né di fine.
Non vi fu mai più inizio di quanto vi sia ora,/Ne più gioventù o vecchiaia di quanta vi sia ora,/Non vi sarà mai perfezione maggiore di quanta vi sia ora,/Ne più cielo o più inferno di quanto vi sia ora./
Impulso, impulso, impulso,/Ognora il procreante impulso del mondo,/Dalla vaga lontananza eguali opposti avanzano, sempre so stanza e aumento, sempre sesso,/Sempre un intreccio d’identità, sempre distinzioni, creazioni di vita.
Elaborare a nulla giova, sapienti e ignoranti sentono che è così.
Sicuri come le cose più sicure, a fil di piombo i pilastri saldi i tiranti, rafforzare le travi,/ Forti come cavalli, affezionati, alteri, elettrici, /Io e questo mistero qui sorgiamo./
Chiara e dolce l’ anima mia, chiaro e dolce tutto ciò che non è l’anima mia.
Se manca uno, mancano entrambi, e l’invisibile è provato dal visibile,/Fino quando questo diventa invisibile e, a sua volta, viene provato.
A mostrare il meglio e a separarlo dal peggio un secolo dopo l’altro s’affatica,/Conoscendo l’assoluta giustezza, l’equanimità delle cose,/mentre quelli discutono io taccio e vado a bagnarmi e ad ammirarmi.
Benvenuto ogni organo e ogni mio attributo, e quello d’ogni uomo schietto e puro,/Non un pollice, né un frammento di pollice è vile, e nessuno deve essere meno familiare del resto.
Sono soddisfatto- io vedo, danzo, rido, canto,/Quando chi ha condiviso il mio letto e mi ha abbracciato e ha dormito al mio fianco, sul fare del giorno dilegua con passo furtivo,/Lasciandomi cesti coperti di bianche tovaglie, d’abbondanza m’impinguano la casa,/Devo posporre l’accettazione, la mia presa di possesso e urlare ai miei occhi che si volgano dal seguire chi si ritrae giù per la strada,/E subito stimino, e mi riferiscano, fino al centesimo,/Il preciso valore di uno, e il preciso valore di due, e quello che vale di più?
4
Gente che trama tranelli e pone domande mi attornia,/Gente che incontro, gli effetti su di me dell’infanzia, o del quartiere della città dove vivo, o il paese,/Gli ultimi avvenimenti, scoperte, invenzioni, società, autori vecchi e nuovi,/Il pranzo, il vestito, i compagni, l’aspetto, i complimenti, i canoni,/La effettiva o immaginaria indifferenza di qualche uomo o di qualche donna che amo,/La malattia di qualcuno della mia famiglia, o mia, o cattive azioni, o perdita o mancanza di soldi, o depressioni o esaltazioni,/Lotte, gli orrori della guerra fratricida, la febbre di dubbie notizie, eventi incerti,/Tutto questo m’accade giorno e notte e da me si allontana,/Ma non costituisce il mio io.
In disparte da quanto mi sollecita e m’urge sta ciò che io sono,/Se ne sta divertito, compiacente , compassionevole, inerte, unitario,/Guarda all’ingiù, si aderge, piega il braccio sopra un impalpabile ma sicuro sostegno,/Guarda volgendo di lato la faccia, curioso di ciò che accadrà,/Partecipe e fuori del gioco, osserva e stupisce.
Volgendomi indietro vedo i miei giorni, quando anch’io m’affannavo nella nebbia, con persone loquaci e inclini alle dispute,/Io non derido né discuto, ma osservo e attendo.
5
Credo in te, anima mia, e l'altro che io sono non dovrà mai umiliarsi a te,/Come tu non dovrai mai umiliarti all’altro.
Ozia con me sopra l'erba, libera la tua gola da ciò che l’impediva,/Non parole né musica né rime ti chiedo, né convenzioni né conferenze, sian pure le migliori,/Già mi soddisfa la cantilena, il cupo gorgoglìo della tua voce velata.
Ricordo di come una volta si giacque, un trasparente mattino d’estate,/Il capo tu mi posasti di sbieco sull’anca, e dolcemente su me ti volgesti,/Mi apristi la camicia sullo sterno, dardeggiando la lingua sino al cuore nudo,/Poi ti stendesti fino a sentire la mia barba, fino a tenermi i piedi.
Rapida sorse in me, e per me si diffuse la pace e la scienza, che superano ogni terrestre argomento,/E so che la mano di Dio è la promessa della mia,/E so che lo spirito di Dio è fratello del mio./E che tutti gli uomini ovunque nati sono anche miei fratelli, tutte le donne mie sorelle e amanti,/E che la controchiglia della creazione è l’amore/E che infine sono le foglie aderte o avvizzite nei campi,/E le formiche brune nelle piccole tane sotto esse,/E le muschiose incrostazioni delle staccionate tortuose, e i mucchi di pietre, il sambuco, il verbasco e la morella in grappoli.
6
Un bimbo mi chiese Che cosa è l’erba? Recandone a me piene mani,/Come rispondere al bimbo? Non ne so più di lui.
Penso debba essere l’emblema della mia inclinazione, tessuto della verde stoffa della speranza.
O penso sia il fazzoletto del Signore,/Un dono aulente, un ricordo, lasciato cadere apposta/Che reca il nome del proprietario in qualche angolo, onde possiamo vederlo e notarlo e chiederci Di chi sarà mai?
O penso che l’erba sia un bimbo, il bimbo nato dalla vegetazione.
O ritengo sia un geroglifico uniforme,/ Che significa, crescendo al pari nelle terre vaste come in quelle anguste/Crescendo tra i neri così come tra i bianchi,/Canaco, Mangiatuberi, Deputato o Moro a tutti dono ugualmente e ugualmente li accolgo.
E ora mi appare la bella capigliatura intonsa delle tombe.
Ti tratterò dolcemente, erba ricciuta,/Può darsi tu fiorisca dal petto di giovani uomini,/Che, avessi conosciuto, forse avrei amato,/Può darsi tu emerga da vecchi, o da bimbi anzitempo rapiti al grembo materno.
Quest’erba è troppo scura per spuntare dal capo canuto di madri anziane,/E’ ben più scura della sbiadita barba dei vecchi,/E’ scura per spuntare dal roseo palato delle bocche.
Vorrei poter tradurre gli accenni ai giovani morti, alle giovani morte,/E gli accenni ai vecchi, le madri, i bimbi anzitempo rapiti ai grembi loro.
Che cosa credi siano divenuti i giovani e i vecchi?/Che cosa credi siano divenute le donne e i bambini?
Sono vivi e stan bene in qualche luogo,/il minimo germoglio mostra che la morte non esiste,/E che se mai esiste, essa indusse alla vita, e non attese il termine per fermala,/E non cessò l’istante che apparve la vita.
Tutto continua e procede, mai nulla s’annulla,/Morire è ben diverso da quanto si pensi, e molto più fausto.
...Come non si può non continuare?
[1]- W. Whitman, Foglie d’erba, Einaudi, 1993
[2]- H. Bloom, Come leggere un libro (e perché), Rizzoli, 2001