lunedì 24 febbraio 2025
Lo spettro di casa di Maria Luisa Vezzali
«I poeti [e le poete] esistono per essere citati [citate] e quello che si sa scrivere su di loro è, nella maggior parte dei casi, superfluo». Così scriveva Hannah Arendt facendo propria una convinzione del poeta W. H. Auden: «È probabile che il solo metodo di attaccare o difendere un poeta sia quello di citarlo. Altri tipi di critica…servono esclusivamente per definire [ o meno] il nostro apprezzamento…».
Dunque per parlare di Maria Luisa Vezzali e della sua ultima raccolta Lo spettro di casa (dal 2023 al 1977 e ritorno) [Puntoacapo Editrice, 2023] mi affiderò prevalentemente alla citazione
…
Il pavimento apre bocche atroci/
Senza comprendere prova/
a tradurre lo schisma delle giunture/
(Sposerà quella contusione indelebile)/
…
[ da FRONTE, PIANO TERZO, INTERNO 8, pg.42]
Sono versi tratti dal secondo capitolo [LA FINESTRA SUL CORTILE (ovvero la ragazza e la città)] di questa raccolta che si configura come una specie di romanzo scaturito da un ripiegamento sui ricordi personali causato dal lockdown durante l’epidemia di COVID-19: una “prova generale di catastrofe” globale che non poteva non richiamare piccole catastrofi individuali: la/il poeta canta per ricordare alla specie che la vita scampa sempre alle/dalle catastrofi!
1. Uno sguardo all’angolo fuori/
tra gli infissi della finestra//
Un gesto incerto infesta in attesa/
osserva il covo dell’interno//
proiettato da anni a venire/
Un risucchio mammifero dal foro//
Tutto quello che nasce – pensa –
produce calore
[da IL BUCO NEL TEMPO (ovvero lo spettro e la ragazza), pg.12]
Creare o ricreare mondi con le parole è una faccenda misteriosa e quella parola (schisma) con l’immagine del risucchio mammifero dal foro di un… “uovo”, associate a un’adolescente di 15 anni (un’albachiara), fanno ripensare ai primi tentativi davvero compiuti della poeta; fanno rivivere la timidezza, l’impulsività e la “fortuna” della principiante; fanno percepire una capacità magica di sfumare la realtà nel reale e viceversa, capacità che possiede ( o dalla quale è posseduta) un’apprendista stregona, una sibilla ellenica, una makar scozzese….una sacerdotessa rock.
Perché ritengo magico-rivelatorie le parole e le immagini nella poesia di Maria Luisa Vezzali? Perché nel ricordo di una presa di coscienza di quell’adolescente bolognese (un’apprendista poeta), le parole e le immagini suggeriscono l’importanza di un rito e di una scoperta.
Il rito è quello descritto dall’antropologo Gregory Bateson che durante gli anni ’30 del Novecento , mentre studiava gli Iatmul della Nuova Guinea si soffermò sull’importanza di un rituale chiamato naven. Si trattava di una particolare celebrazione di passaggio dall’adolescenza all’età adulta nel quale i familiari dei festeggiati si travestivano con gli abiti di sesso opposto. L’antropologo definì schismogenesi quell’insieme di relazioni che potrebbero dare origine a divisioni (schisma) tra gruppi e tra individui stessi.
La scoperta è quella condivisa con le altre poete - a cominciare da Adrienne Rich della quale la Vezzali è stata amica e traduttrice - e si tratta di una compartecipazione prettamente femminile a una consapevolezza: il processo poetico (il poiein) e l’evoluzione biologica sono necessariamente simili, governati entrambi da distinzioni e differenze, dal susseguirsi di fallimenti topologici e catastrofi:
a volte è così strano essere un corpo occupare uno spazio definito qui/
non là o altrove ovunque si percepisce un contatto con qualcosa di solido/
un suolo indesiderato e non galleggiare nella continuità a volte sembra/
più innato spontaneo persino inconsapevole provare la tribolazione/
con il resto invisibile eppure a suo modo caparbio non solo nello spazio/
ma ancor più in quella conversione gravitazionale che si associa allo spazio/
il tempo il flusso evaporante degli eventi percepire la tribolazione delle placche/
zattere che trasportano gli oceani sprofondare ansimante con le fosse/
sopportare la pressione di ambienti che mai hanno conosciuto/
la fotosintesi circondata da estensioni dentate e antenne luminescenti/
è così strano a volte ignorare dove avverrà la frana sembra di vederla/
abbattersi prima che il fango seduca la carreggiata di conoscere/
i patrimoni disfatti ricomposti i respiri spenti ricominciati tutte le colline/
fantasma le macchine ibridate brillato l’elio alla fine/
della sequenza principale
[ da NELL’ANNO ABBACINANTE (ovvero lo spettro ed io),pg.70]
Gli effetti delle catastrofi- che siano quiescienti salti antropologici, “semplici” passaggi adolescenziali o vere e proprie pandemie- diventano visibili troppo tardi, quando ormai hanno avuto luogo e per questo è necessario avere visione e memoria del passato, imprigionati (oggi come allora) nell’impossibilità di cogliere il futuro in immagini.
E di fronte alla “crudele” linearità del tempo progressivo, la Vezzali costruisce un “romanzo in versi” sull’anacronismo del…tempo, una metafora sull’emergenza che è necessario ricordare, attraverso nuovi montaggi, per poter ravvivare l’immaginazione.
Ed è Lo spettro di casa “ …un progetto architettonico complesso…[dalla Postfazione di V. Bagnoli] proprio di questo tipo, dove il rimontaggio di materiale, per così dire, d’archivio, mostra verità inosservate in un mare di immagini normali e travalicando i confini degli sterili dualismi della nostra contemporaneità
12. Inizia a sentire una voce nelle cose/
mentre il corpo dimentica lontano//
suoni di pioggia limatura di sbarre/
tra le sottolineature delle pagine//
Quando lo sciame degli echi detta all’unisono/
– dice – tu registra non c’è altro spazio//
è provvisorio questo sisma nel cosmo/
le foreste di sempre si affannano a svanire
lunedì 3 febbraio 2025
In Absentia, continua presenza
Se c’è una cosa che è possibile sperimentare “facilmente” con la poesia, soprattutto in presenza di testi brevi, è l’efficacia di una lettura completa fatta cioè con gli occhi, con la bocca (dunque voce e orecchie) e con la mente.
Per maggiore chiarezza diciamo che con il termine mente, non bisogna limitarsi al “nostro cervellino” ragionevole, quello che fa i calcoli, che guida l’auto o che vuole sapere come vanno a finire le cose. La mente nella poesia è sempre una questione di sensi-cuore-vita: è certamente testa ma unita a intuizione, percezione ed emozione.
In genere quando leggiamo un testo (saggistico, narrativo, giornalistico, etc…) sperimentiamo la lettura vorace degli occhi, soprattutto se si è animati da una sorta di automatismo a scoprire chi è, per così dire, …l’ ”assassino”. Raramente sperimentiamo la lettura con le labbra (o a voce alta) e meno che meno quella con il cuore.
Nella poesia invece accade - ripeto: per la natura breve del verso, delle strofe e del componimento - di poter fare ritorno più e più volte e in modalità differenti su ogni singola…parola, nota, intonazione e pausa.
Nel fare questo ci si accorge così che se, ad esempio, un poeta “parla del silenzio” di Dio, l’ascolto in primis diventa, fondamentale.
Nel caso di In absentia, l’ultima raccolta di Alessandro Canzian (Interlinea Edizioni, Novara, 2024) l’efficacia di questa lettura poetica, tripartita tra occhi, labbra e cuore risulta fondamentale.
Cerchiamo quindi di entrare in questi “dispositivi poetici” dei quali parla Martin Rueff nell’ottima post-fazione alla raccolta di Canzian.
Allora, prima di tutto, gli occhi. «Le poesie delle tre sezioni [Minimalia, In fondo e In absentia]sono per la maggior parte delle strofe di cinque versi (il francese usa la parola quintil) non rimate e costruite su una nitida opposizione drammatica…» dice Rueff, ma a me ( ai miei occhi) queste poesie brevi hanno subito richiamato dei tanka al di là dell’assenza del rigoroso susseguirsi di sillabe lungo i 5 versi del componimento classico giapponese (5-7-5-7-7).
Lo scopo della forma del tanka , come richiamato da uno dei suoi maggiori poeti moderni, il giapponese Tsukamoto Kunio (1922-2005), “…è quello di mostrare delle visioni”. E infatti questi pseudo-tanka di Canzian sono carichi di immagini filtrate dall’occhio della mente
Le lenzuola distese/
sono più casa delle case./
Grate, gronde e greppi./
Da lontano un geco/
le traversa mozzato./
[pg.21]
Tali visioni lasciano intravedere, paesaggi distrutti, corpi di ragazze sbrindellati, lenzuola, tovaglie piene di briciole, spighe di grano tra la polvere (Donbass, Gaza). Immagini di un universo caotico i cui frammenti non trovano ricomposizione alcuna in un’armonia vitale
Nulla di vivo si muove/
dicono dei nervi come/
delle rane, le rane scoppiate./
Le rane che rincorrevamo di notte/
come oggi l’inverno./
[pg.42]
I due versi finali dei quintil-tanka di Canzian possono sembrare esplicativi di quanto espresso nei primi tre, cioè possono argomentare o rafforzare il vano tentativo di recuperare un ordine, un’armonia o una senso almeno visivo, per lo meno quantitativo
Hanno spiantato per chilometri/
qualunque cosa viva/
alberi compresi./
Conta quanti loro morti/
valgono uno dei nostri./
[pg.46]
Ma allo steso tempo in altre testi, gli ultimi due versi possono essere contradittori , cioè quasi a smentire, negare o contrastare , ciò che si è espresso nei primi tre. È tipico del tanka questo dispositivo poetico ” basato sul contrasto fra una cosa vista e la sua iscrizione nella sensibilità…” come felicemente intuito da Martin Rueff
Lasciata la ragazza a terra/
senza jeans e maglietta e il resto/
della notte a venire/
con la pancia scoperchiata/
sembra una libertà./
[pg. 47]
Passiamo alle labbra o meglio a quel ticchettio appena percepito delle dentali e labiali che sbattono in bocca prima di farsi sentire. Senza farsi sentire troppo. Proprio come quel topo, figura misteriosa che Claudia Mirrione (https://imperfettaellisse.it/archives/4247) individua come correlativo oggettivo di Dio, un Dio che sussurra appena o tace del tutto, quasi a voler ricordare che il destino del poeta è da sempre quello di affrontare un corpo a corpo con il silenzio.
Già, il silenzio di Dio così…fragoroso dopo la creazione
Il quinto giorno Dio rimase/
In un silenzio attonito./
Per qualche istante/
il rumore dell’universo./
[pg.57]
Per il Dio di Canzian non esiste il settimo giorno, quello del riposo. Dio è sempre a lavoro e non può fermarsi nemmeno per una risposta, perché non ha tempo per ( e non è Tempo per) rispondere
Il sesto giorno riprendemmo/
a parlare, io e Dio./
«Usami come uno straccio/
da cucina» disse lui./
Per anni la cucina/
lasciata così com’era./
[pg.58]
Quando Giobbe (o il Poeta) in preda al dolore interroga Dio perché vorrebbe avere una risposta sulle ragioni della umana condizione, Dio gli risponde in mezzo alla tempesta:
“Dov’eri quando io mettevo le basi sulla Terra? Dillo se hai tanta sapienza”. Insomma Dio non risponde affatto alla domanda diretta di Giobbe ma lo invita piuttosto ad osservare la complessa architettura del creato. Per questo il Poeta è costretto ad assentarsi dal mondo: per osservare meglio.
Continua Dio, in absentia, a parlare con Giobbe: “Conosci tu il tempo in cui partoriscono le camozze? Hai osservato il parto delle cerve? Sai contare i mesi della loro gravidanza?...”. Nel testo biblico il discorso di Dio continua per tre capitoli: una vera e propria lezione di storia naturale.
Che bisogno c’è, ci si domanda. E perché mai questo lungo viaggio “into the Great Wide Open” costituisce un rimedio contro il silenzio e l’assenza?
Probabilmente perché la nostalgia di quello che stiamo perdendo deve essere sempre rinnovata se non, addirittura anticipata; perché ogni vita persa, anche quella più piccola, ad esempio, di un topo, esige di restare memorabile.
Allo stesso modo una poesia come questa di Alessandro Canzian esige di essere letta anche se nessuno la legge o pochi la leggeranno con gli occhi, le labbra e il cuore.
Perché come dice Giorgio Agamben “il destinatario di una poesia non è una persona reale ma un’esigenza”: continuare a dire e a fare sempre le medesime cose. In silenzio. In absentia.
lunedì 20 gennaio 2025
I Tanka di Fabrizio Bajec per le quattro stagioni
Tanka per le quattro stagioni (e altre poesie brevi) è il titolo della raccolta poetica di Fabrizio Bajec appena pubblicata per i tipi di Vydia Edizioni.
Il titolo sembra riecheggiare ( o fare il…verso a) quello della raccolta di Andrea Zanzotto, Haiku per una stagione. Ma vi è una differenza non solo nel riferimento a due generi della poesia orientale ( sui quali torneremo tra poco), ma anche in quello alle quattro stagioni di Bajec, rispetto all’unica di Zanzotto.
Haiku for a Season è stata l’ultima raccolta di Andrea Zanzotto. Il libro fu pubblicato postumo nel 2012, in edizione americana, e ripreso poi nell’edizione italiana da Mondadori nel 2019. In realtà la prima stesura risale alla primavera-estate del 1984, una stagione, appunto, particolarmente difficile per il poeta di Pieve di Soligo per via del suo “male oscuro”.
Zanzotto decise di scrivere queste brevi poesie che lui stesso definì pseudo-haiku utilizzando la lingua inglese, utile allo scopo in quanto ricca di monosillabi. La tradizione secolare dello haiku giapponese, infatti, prevede innanzitutto una forma chiusa in tre soli versi di 5, 7 e 5 sillabe rispettivamente.
A fianco a questa regola imprescindibile si affianca poi l’uso del cosiddetto kigo stagionale, una parola cioè che caratterizzi la stagione nella quale l’haiku è stato composto. E per finire all’interno di uno dei due versi si introduce il kireji la cosiddetta parola che taglia e che in qualche modo ribalta le aspettative (semantiche o concettuali) del breve componimento.
Il titolo di Zanzotto dunque allude a questa unica stagione interiore, senza stagioni esterne, e dunque senza bisogno necessariamente di diversificarsi attraverso un kigo né di ribaltarsi (semanticamente o concettualmente) grazie a un kireji.
I tanka di Bajec sono un’altra cosa. A detta dello stesso autore - ammesso che l’ “esistenza” di un autore di haiku sia… ammessa! - queste poesie brevi della raccolta si aprono a una vera e propria esperienza contemplativa che si svolge nell’arco di momenti stagionali precisi. Il primo tanka di Primavera ci aiuterà ad entrare nello spirito giusto della raccolta:
galleggiano e basta/
nubi e piante d’acqua dolce/
non conservano un bel niente/
seduto su un tronco neanch’io/
coltivo propositi
[pg.22]
Fabrizio Bajec scrive in francese e nella raccolta sono riportate le sue auto-traduzioni in italiano dei testi originali che meglio rispondono alla struttura classica di un tanka formato da 5 versi per un totale di 31 sillabe (5-7-5-7-7). Le prime 17 sillabe, cioè i primi tre versi (5-7-5) formano quello che poi da solo verrà chiamato haiku e che contiene la parola stagionale, il kigo. Nelle traduzioni in italiano le strutture sillabiche in effetti saltano, ma rimane lo spirito intrinseco a queste breve composizioni orientali che nel tanka riportato è già tutto rivelato.
Le brevi forme poetiche giapponesi intendono fotografare un evento naturale in un preciso momento stagionale, evento che però sia il più possibile svincolato dalle “costrizioni di un soggetto” (per questo si alludeva alla non ammissibilità di un autore come quello che viene tipicamente definito “poeta” dalla poesia occidentale).
In effetti lo haijin , colui che è parte dell’azione stessa dell’evento, è di fatto un viandante che “percorre una…via” molto più profonda e remota dello spazio e del tempo propri, una via che si illumina completamente attraverso una “presenza mentale “. È questo “qui e ora”, senza propositi, racchiuso nel testo, a essere importante.
“Io sono ciò che mi circonda” pare dirci in questo tanka Bajec. Come le nuvole e le piante d’acqua dolce anche “io” non conservo nulla e non sono fatto dei propositi che l’”io” coltiva.
Quando solitamente la “mente” viene ammorbata da dualismi come, ad esempio, fluido (l’acqua, le nuvole) e solido (il tronco, il corpo), non si potrà comprendere il medesimo galleggiamento, delle nuvole nel cielo, delle piante sull’ acqua dolce, del “mio” corpo posato sul tronco o…sull’Universo.
Questo tipo di inversione tra figura e sfondo tipico della poesia contemplativa di Bajec non resta però una semplice proiezione (frammentazione del mondo quale prodotto di un… pensiero in frantumi e viceversa) ma diventa vera e propria percezione come quella magnificamente mostrata nella poesia breve della Seconda parte della raccolta (Vasto cielo):
uguale a un fiocco di neve/
su un parabrezza di un camion/
questo mondo irreale/
che leggeri attraversiamo/
sorridendo per poco/
[pg. 69].
Fabrizio Bajec ha iniziato la pratica della meditazione nel 2008, frequentando varie scuole e tradizioni buddiste (zen vietnamita, buddismo theravada, zen giapponese). È stato ordinato monaco zen sôto nel 2022 e ha ricevuto la trasmissione del dharma (shiho) dal maestro Bernard Senryû Deverrière nel maggio 2023. Due libri sullo zen sono apparsi in Francia nel 2024: Le Moine et l’enfant (éditions Synchronique) e Le point zéro (L’originel-Accarias).
Attraverso questo suo particolarissimo percorso spirituale la poesia di Bajec sembra aver acquisito speciali capacità. La prima: evitare di proiettare sentimenti propri sul mondo. La seconda: regalare la vera percezione dell’evento senza l’intrusione di un sé.
Esempi di queste capacità sono il tanka d’Autunno a pg. 35:
le oche della Loira/
scaricano sterco dul molo/
presso il ristorante/
fluviale due donne inciampano/
nelle loro Ferragamo/,
dove persino l’inattività dello haijin non si impone e anzi si sottomette a una compassione che pervade tutta la scena senza alcun rilievo di tipo personale, ambientale, sociale o morale.
Nel testo seguente di pg. 67 si apprezza invece questa capacità di istituire la stessa azione (direbbe un critico occidentale: il poiein) a soggetto della poesia:
l’operaio fognario emerge/
abbagliato dal sole/
ma il telefono scivola/
e finisce nel buco/
dove lui ridiscende/
con lo sguardo di Sisifo/
gettato alla rinfusa/.
Attraverso queste sue capacità Bajec in definitiva ci restituisce una inattività della lingua che è propria della poesia. Abituati come siamo a una forma attiva di linguaggio (la comunicazione, l’informazione) le poesie brevi di Bajec riescono a ricordarci una modalità contemplativa della lingua. E di questi tempi, dove il caos informativo e comunicativo distrugge il silenzio, quello che Bajec riesce a far con “poche” forme della brevità, non è poco.
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