lunedì 4 dicembre 2023

Resistenza e sparizione di tracce

Mi è parso di trovare nella poesia di Sergio Bertolino, forse per un lessico decisamente “famigliare”, tracce di quello che per millenni noi umani siamo stati (probabilmente per via di residue sequenze di DNA neandertaliano e denisoviano): cacciatori. Come dice bene Pontiggia nella postfazione di questo delizioso trattato di resistenza e sparizione (Avagliano Editore, 2023), “…il paesaggio che qui si profila è quello delle origini che già avevamo esperito nella raccolta precedente [di Bertolino, dal titolo La sete], ma non con la stessa selvatica virulenza di ora, la stessa «fame di radici» e di «arcano» che agisce in queste pagine…”.
E però a ben “sentire” forse non si tratta di sete e nemmeno di fame delle radici quanto, piuttosto, di soddisfazione d’acqua, sazietà di luce alta e di profondi nutrienti all’apice delle sorgenti, degli orizzonti e dei cieli: semplicemente qui si profila una crescita arborea, selvatica, celeste della poesia di Sergio. Il lessico, per questo, è molto più famigliare di quello precedente (a qualunque lessico) perché qui, il paesaggio, ci circonda e lo abbiamo sotto gli occhi, nelle orecchie, sulla pelle e viene usato come i cacciatori usavano gli alberi, per restare e sparire: Lì fuori, di vero, non c’è che l’intimità (pg. 51). Proprio così: tutto quello che, dentro, intimamente siamo, è lì fuori, tanto che la linea che unisce quello che vediamo a quello che sentiamo non è una linea di fuoco ma di…mira. Di sguardo. Di meraviglia. Mezzogiorno. Viva e capiente l’ombra/tra i polmoni. E io, che non so guardarmi sparire,/perché rimanga verde oltre la cinta/un filo d’acqua, fumo o non cedo all’evidenza//(si è benedetti senza lingua/se mente un salice al cervello),//e punto i piedi dove credo/ sia la traccia, per odiarmi.[pg.13] Qui, nel Mezzogiorno d’ Italia, più che da altre parti, homo “ricorda” di essere stato predatore. E nella poesia di Sergio la preda è la poesia. Nel corso dei prestorici inseguimenti abbiamo imparato a ricostruire le forme e i movimenti di prede invisibili e silenziose, da orme nel fango, rami spezzati, odori stagnanti. Il “cacciatore” fiuta, registra e interpreta tracce infinitesimali come fili di bava; impara a nascondersi per non farsi vedere dalla preda; s’abitua a resistere alla loro resistenza. Così Sergio, in un lampo dimostra come , attraverso indizi minimi si può ricostruire l’aspetto di un “animale” che non si è mai avuto, propriamente, sotto gli occhi. Il poeta evidentemente è depositario di un sapere di tipo venatorio. Ciò che caratterizza questo sapere “aptico” è la capacità di risalire da dati apparentemente trascurabilissimi. quasi del tutto …spariti, a una “realtà” complessa non sperimentabile direttamente come la poesia. E questi dati vengono sempre disposti dal poeta in modo tale da dar luogo a una sequenza narrativa la cui formulazione più semplice potrebbe essere: «resto qua ma non ci sono» oppure «sparisco ma sono qua». Il poeta è dunque colui che per primo «racconta una storia» in quanto abile a leggere nelle tracce mute o appena percettibili lasciate dalla “preda”, una serie coerente di eventi, perché il “decifrare” o il “leggere” le tracce delle prede è di per sé metafora. Forse è questo, dunque, il motivo per cui, come rileva acutamente Pontiggia, “…in più occasioni [nella poesia di Bertolino] ci si [imbatte] in parole come «segni», «traccia», che il poeta-cacciatore…cerca di decifrare…” anche se qualcosa di oscuro resta come qualcosa di acclarato sparisce. Nella tua fame di radici,/non sai, non puoi sapere,/com’è perdersi umani/lì dove un raggio è smisurato,/la non-parola che tradisce./Sono solo e vado a caccia./Sono il suono. L’idea fissa.[pg.73] Esiste un’arte araba antica - e la Calabria di Sergio Bertolino è stata terra di conquista, dominio e lingua arabe - che ricorda l’arte paleolitica della decifrazione di tracce. Si tratta della firāsa che designava quella capacità di passare in maniera immediata dal noto all’ignoto, sulla base di indizi. Il termine, tratto dal sufismo, veniva usato per indicare sia le intuizioni mistiche, sia la perspicace prontezza a trarre conclusioni. In pratica si trattava di un sapere indiziario come quello che da sempre viene colto nei nostri dialetti: non a caso Sergio riserva, nel trattato di resistenza e sparizione, una sezione a questi “indizi radicali e necessari” ai quali credo destinerà, sempre più, le sue prossime “battute” di caccia. Lo aspetteremo intorno al fuoco per mangiare e bere insieme. Nci mbrogghia l’occhi nu lapuni/quandu bbrisci. È russa e non è sangu/chi mbilena. Fridda e non è nivi/pari nenti – ‘a testa mbàscia/pi sintiri comu veni. Ma figghiu/quanta luci ntimurisci e dassa suli?// I troppo celu mori nu cardiddhu. [Gli intriga gli occhi un’ape/all’alba. È rossa e non è sangue/ che avvelena. Fredda e non è neve/sembra niente – il capo basso/per sentire come viene. Ma figlio/quanta luce intimidisce e lascia soli?//Di troppo cielo muore un cardellino.]