giovedì 25 novembre 2021
Wystan Auden e l'Età dell'Ansia che ci interroga. Parte II
Tutti gli adulti, secondo Jung, sono dominati da una delle quattro funzioni della psiche, divise in funzioni valutative, (pensiero o sentimento, che influenzano il modo in cui prendiamo decisioni) e funzioni percettive, (intuizione e sensazione, che influenzano il modo in cui esperiamo il mondo esterno), nella duplice versione estroversa o introversa. Pensiero e sentimento sono funzioni speculari, così come intuizione e sensazione.
Ciascun personaggio de L’Età dell’Ansia mostra chiaramente il dominio di una specifica funzione (Quant = Intuizione, Malin = Pensiero, Rosetta = Sentimento, Emble = Sensazione) e sembra essere prigioniero di un ruolo che viene sentito come sempre più insoddisfacente da un punto di vista esistenziale.
L’Ansia del poema trova un esatto corrispettivo nella classica crisi di mezza età che per Jung è sintomo della necessità di integrare contenuti inconsci nella propria personalità. La ricerca di integrazione è un vero e proprio quest spirituale, che passa attraverso espressioni regressive, sintomi, queste, di una “malattia” ma che invece sono fasi necessarie per la riconquista di una personalità integrata.
Il processo di integrazione (che Jung chiama “individuazione”) inizia solo dopo che un individuo abbia trovato una sua collocazione nel mondo.
Et voilà. Auden nel suo poemetto racchiude l’esperienza della propria crisi di mezza età rappresentando la sua psiche e identificando il proprio stato dell’essere con quello di Rosetta - il più sentimentale dei quattro personaggi - proprio per compensare la sua personalità eccessivamente cervellotica ed intellettuale.
Cosicché L’Età dell’Ansia si trasforma in un vero e proprio mandala di guarigione che consentì ad Auden di integrare le sue funzioni latenti (e cioè Sentimento e Sensazione) e di affrontare le proprie proiezioni. Anche per me quel poemetto, nelle sue successive letture e approfondimenti, divenne un vero e proprio processo psichico di integrazione tra intelletto e sentimento.
Imparai così che il percorso dell’uomo in cerca del proprio sé, nel tentativo di recuperare la propria integrità, è un processo di individuazione spirituale (non necessariamente religioso). Anche per Jung, infatti, tutto ebbe inizio con una crisi personale e continuò con una ricerca di tipo spirituale.
In un viaggio in treno verso Schaffhausen, nel 1913, Jung ebbe la visione di una terribile alluvione che inondava l’Europa – migliaia di cadaveri e macerie galleggianti – che, come avrebbe detto più tardi, collegò ai disastri della Prima guerra mondiale.
Jung quarantenne, già affermato professionista, era in balia di queste visioni apocalittiche e non riusciva a interpretarle in maniera soddisfacente. Decise così, nel pieno di questa crisi personale, di effettuare un esperimento su sé stesso che sarebbe poi durato fino al 1930 e che definì “confronto con l’inconscio”. Sviluppò allora uno specifico metodo di esplorazione psicologica (immaginazione attiva) finalizzato , tra le altre cose, a tradurre le emozioni in immagini.
Così facendo gettò le basi per lo studio dei meccanismi universali della coscienza umana, andando alla ricerca di quei modelli di comportamento di carattere istintuale e culturale che definirà come “archetipi” e che oggi vengono indagati grazie alle neuroscienze e agli studi sulle emozioni effettuati dal neurofisiologo Antonio Damasio.
Auden trovò dunque in Jung la possibilità di vedere l’angoscia (o la nevrosi) dell’uomo sotto la luce positiva della possibilità di un cambiamento esistenziale in quanto essa preludeva al processo di individuazione e di recupero della propria integrità psichica.
L’intellettualismo di Auden, davanti a chi come Jung mirava decisamente a una riunificazione fra spirito e materia, era vicinissimo al mio intellettualismo di allora.
Riconoscermi in tutte queste cose, avvertirle, sentirle, leggerle, anzi: provocarle nella lettura, rappresentò per me un aiuto indispensabile per il percorso di guarigione.
Mostrare una fiamma che afferma fu una fase fondamentale per la costruzione e l’integrità della mia identità per trasformare cioè un’ansia da bisogno nel bisogno legittimo e necessario di un’ansia. Ma fu anche una scoperta, una di quelle due o tre rivelazioni delle quali parlava Brodskij: la rivelazione della Poesia quale strumento da continuare a perfezionare per sostenere un incomprensibile e misterioso, scopo antropologico.
lunedì 22 novembre 2021
Wystan Auden e l’Età dell’Ansia che ci interroga. Parte I
È stato un neuropsichiatra, nei primi anni ’80, a farmi capire la relazione tra ansia e panico e tra emozione e sentimento. È stato lui a farmi scoprire, in un sol colpo, la Psiche e la Poesia.
Per una serie di eventi (il terribile terremoto del 1980, la morte di mio padre, un persistente disturbo visivo) sviluppai una forma di ansia che quel dottore…multidisciplinato curò non solo con medicine e terapie ad hoc ma anche con le…parole.
Quell’ “ansia da bisogno di affermazione” - questa fu la diagnosi del dottore - mi parlava e mi interrogava. Pretendeva cioè da me un dialogo e delle risposte. Quel bravo neuropsichiatra mi fornì gli strumenti per rispondere. Tra questi strumenti c’erano le parole di quello che sarebbe diventato uno dei miei poeti preferiti: Wystan Hugh Auden.
…oh, che io possa, composto come loro/d’Eros e di polvere,/assediato dalla medesima/negazione e disperazione,/mostrare una fiamma che afferma [W. H. Auden, da 1° settembre 1939].
Quel bisogno di affermazione era solo una legittima domanda di…individuazione, di ricomposizione di una integrità fino ad allora posseduta. Detto in altre parole: quel bisogno che avvertivo e così comune - imparai - a tante altre persone, era “solo” la causa di uno smarrimento, di una frammentazione della psiche.
Fatto è che fu proprio quell’ansia patologica - visioni, incubi e attacchi di panico - e quell’appassionato dottore a mettere in moto la mia guarigione, a mostrarmi, parafrasando i versi del poeta, una fiamma che affermasse o riaffermasse qualcosa. Qualcuno.
The Age of Anxiety: A Baroque Eclogue è un poemetto scritto da Auden nel 1947 e pubblicato in Italia dalla Mondadori nel 1966 (L'età dell'ansia : egloga barocca) nella traduzione di Lina Dessì e Antonio Rinaldi e con una riedizione più recente del 1994 per il Melangolo alla quale, da ora in poi, mi riferirò.
Ricordo che dopo la lettura del testo annotai solo una cosa: “pg. 263, traduzione discutibile di nitrogen in nitrogeno e non, più correttamente, in azoto”. Allora studiavo fisica e ne ero completamente infatuato: non capivo perché i traduttori non avessero optato per il più docile e orecchiabile azoto.
Attribuii la cosa al solito provincialismo culturale italiano che riservava attenzione solo o quasi esclusivamente alla cultura umanistica declassando la scienza ad una cultura di secondo ordine. Non riconobbi allora di ignorare quasi tutto della Poesia: non sapevo nulla di allitterazione di versi accentuativi e sillabici e mi cullavo nella mia presunta formazione classica precedente a quella scientifica.
Reputai così un errore grossolano aver adottato il temine obsoleto nitrogeno al posto del più scientifico azoto.
Mi sbagliavo.
L’opera di Auden si apre sullo sfondo di uno scenario apocalittico: il corpo del mondo violentato dalla Seconda Guerra Mondiale, le menti confuse di fronte al fallimento della convivenza civile e, in generale, della cosiddetta civiltà liberale. All’inizio del poemetto, quattro individui, sconosciuti fra loro ma uniti dallo stesso disagio, vengono presentati, nella loro ricerca di un rifugio alle ansie collettive e personali, in un bar di Manhattan.
È la notte dei Defunti.
Auden soppesa l’ansia di questi quattro personaggi attraverso l’universo simbolico di ciascuno: Quant ha una personalità divisa fra il suo umile lavoro di commesso e lo slancio di una mente che trasfigura e sublima gli episodi banali della sua vita; Malin ci guida nella prima e seconda parte del poema attraverso un’analisi del malessere dell’uomo che per lui passa attraverso l’intelletto; Rosetta è preda di fantasie sentimentali che solo alla fine del poema cadranno lasciando posto a una presa di coscienza della realtà; infine Emble è un giovane marinaio di bell’aspetto e in cerca di una vocazione, il cui paesaggio simbolico, sembra essere quello del quest eroico con la difficoltà della ricerca di un proprio “graal”. A questi quattro personaggi si aggiunge poi la voce di una radio, personaggio di segno negativo con il suo linguaggio adulterato, propagandistico e pubblicitario. La radio è l’escamotage che Auden utilizza come collegamento con il mondo esterno. Inoltre se ne serve per sbeffeggiare quelle trasmissioni radiofoniche a cui aveva malvolentieri lavorato durante la guerra civile spagnola, quando, benché si fosse offerto volontario come autista di ambulanze, era stato invece assegnato al settore propagandistico.
Tutti questi personaggi, inclusa la radio, si esprimono per la maggior parte del tempo in un verso allitterativo ed è questo uno dei motivi per il quale nitrogen deve essere tradotto in nitrogeno e non in azoto!
L’allitterazione è una ripetizione - spontanea, ricercata per finalità stilistiche o per un semplice aiuto mnemonico - di un suono o di una serie di suoni, acusticamente uguali o simili, all’inizio (e, più raramente, anche all’interno) di due o più vocaboli successivi. Così nel verso incriminato a pg. 263:
Technicians sent north to get nitrogen from the ice-cap
[Tecnici furono spediti dal nord per estrarre nitrogeno dalla calotta gelata].
È evidente che azoto non può …allitterare con tecnici e con nord.
Il verso usato nel poema inoltre - altra cosa che allora non compresi - è accentuativo: invece di avere un numero fisso di sillabe, è il numero di accenti a essere predeterminato. In questo caso gli accenti sono quattro. Una cesura separa i due emistichi che tendono a formare una mini-unità logica. Le frasi si concludono spesso alla cesura (non alla fine del verso).
Rime appaiono sporadicamente e sono in genere interne. Nel singolo verso le sillabe accentate sono collegate fra loro dall’allitterazione che viene determinata dalla terza sillaba accentata. Tutte le vocali accentate allitterano fra loro.
Ogni accento sarebbe da considerare un vero e proprio beat musicale, simile a quello di un rap in cui le sillabe del testo hanno un valore temporale variabile in base all’andamento musicale.
Ma Auden, imparai un po’ alla volta, non scriveva per soddisfare solo l’orecchio. Come dice Valentina Vella (https://colum.academia.edu/ValentinaVella), al piacere musicale bisogna aggiungere «…le evidenti esplorazioni junghiane del poema: proprio per questo Auden intraprese la ricerca di un verso… archetipico della lingua inglese…», che potesse, da solo, racchiudere il modo di parlare dei quattro protagonisti, di estrazioni sociali e culturali così differenti, e della “radio”.
Il poema dunque è di fatto una vera e propria allegoria junghiana, nella quale i quattro personaggi rappresentano le quattro facoltà della psiche.[continua]
venerdì 12 novembre 2021
In viaggio con Brodskij: un monologo. Parte III
Durante la fase della scrittura ci sono momenti in cui sei quasi uno spettatore. Quando stai mischiando le parole a quelle due o tre idee, ti capita di ricevere cose che non sapevi nemmeno che esistessero là fuori. È a questo che ti conduce il linguaggio. Il linguaggio è uno straordinario acceleratore del processo cognitivo. Se la parola è ciò che ci distingue dalle altre specie, allora la poesia – l’operazione linguistica per eccellenza – è il nostro scopo antropologico. Chiunque consideri la poesia alla stregua di intrattenimento, di «lettura», commette un crimine antropologico, in prima istanza contro se stesso.
Oggi viviamo in un mondo in cui quelli che fino a trent’anni fa erano considerati valori, vizi e virtù (non vi suonano strane queste parole?) non dico che si siano scambiati di posto, ma quantomeno sono entrati in crisi o ci appartengono solo privatamente. Domande come questa: “ siamo sicuri che i nostri valori siano universali?”; o come quest’altra: “ in cosa credi?”, un tempo non sarebbero risultate oziose. I nostri predecessori avevano forse più cose in cui credere. Il loro Pantheon, i loro templi, erano più popolati dei nostri. Noi, in un modo o nell’altro, siamo tutti terribilmente agnostici. Ma ci sono agnostici e agnostici. E direi che i poeti, in ultima analisi, venerano una sola cosa, che non conosce altra incarnazione se non nelle parole, vale a dire…il linguaggio. Ed è attraverso il linguaggio che il poeta cerca di animare la mitologia, di trovare il senso alle storie che ha ereditato. È un lavoro di interpretazione e credo che questa sia una funzione importante della specie.
In un mio saggio ho scritto: «In certi periodi della storia solo la poesia è capace di confrontarsi con la realtà perché la condensa in un qualcosa di afferrabile, un qualcosa che altrimenti la nostra mente non saprebbe ritenere».
È probabile cioè che la poesia dia il meglio di sé come testimonianza della sensibilità umana cosicché, grazie alla poesia, il linguaggio acquisisce il potere della rinomanza (il kleos come la chiamavano i Greci) e della risonanza. Giusto per fare un esempio, prendiamo l’età augustea. L’idea che ci siamo fatti della sensibilità umana dell’epoca è basata su Orazio, per esempio, sulla sua visione del mondo, o su quella di Ovidio o di Properzio. Non abbiamo altre vere testimonianze, francamente. Il carpe diem è una soluzione tampone che mantiene in equilibrio…l’Impero Romano.
Cosa ha sempre offerto la poesia rispetto alla prosa , alla religione , alla filosofia e alla scienza? Cosa può fare la poesia per eludere il senso di caos e per difendere la nostra sensibilità dalla brutalità dei tempi?
Come ho già detto la parola è una reazione al mondo, un po’ come fare le smorfie nel buio o le boccacce a qualcosa o qualcuno di antipatico. È una reazione e in questo senso è funzionale. È protettiva? Ti protegge? No, forse no. In realtà, però, ti mette a nudo ed è molto probabile che esporsi in questo modo porti realmente a saggiare le proprie qualità, la propria… resilienza. Oggi come oggi riuscire a produrre un qualcosa di armonioso equivale quantomeno a dire in faccia al caos: «Vedi, non puoi spezzarmi, non ancora». E quel «mi», nel linguaggio, sta per ognuno di noi. La poesia è dunque solo il modo in cui per te la luce o il buio si rifrangono. Cioè, apri la bocca. Apri la bocca per gridare, apri la bocca per pregare, apri la bocca per parlare o solo per confessarti.
Beh, si presume che ogni volta ci sia qualcosa che ti costringe a farlo o a non farlo e, che ha fatto dire alla Szymborska: «al ridicolo di non scrivere poesie preferisco il ridicolo di farlo».
Auden ha scritto che la poesia non fa accadere nulla: sopravvive. E in questa sua sopravvivenza la poesia purifica la lingua e fa moltissime altre cose, come appunto metterci a nudo: mettere a nudo la comune condizione umana. Tanto per cominciare la poesia è un formidabile acceleratore mentale; ingloba poi una gran quantità di materiale, materiale razionale e irrazionale. Per questo mi piace paragonarla a una soluzione tampone come ho già detto: questa immagine ha un valore onnicomprensivo perché riguarda tanto una poesia scritta che una poesia letta; la sua qualità dipenderà dalla capacità di chi scrive nel tenere insieme tante cose e da quella di chi legge nel rintracciarle e rimescolarle per una propria personale “soluzione”.
Quella della soluzione tampone, poi, è una definizione lessicalmente intrigante perché potrebbe stare a significare anche ….risultato temporaneo e dunque suscettibile di ulteriore evoluzione e trasformazione ed è inutile che vi ricordi che se avete letto, in periodi diversi della vostra vita, L'infinito di Leopardi le vostre reazioni non saranno sempre le stesse.
Credo inoltre che la poesia sia, in termini assolutamente mondani, la forma suprema di eloquio umano e, in quanto tale, rappresenti lo scopo antropologico, o, se preferite, genetico della nostra specie. Ripeto: non si tratta di un semplice intrattenimento, una «lettura». Se il linguaggio ci distingue nella vita, la poesia ci impegna nella biologia e nella fisica in quanto è forma della materia che sostanzia se stessa.
E questa potrebbe ben rappresentare una di quelle due o tre rivelazioni che ho avuto nella mia vita.
Che cosa si sa dopo una rivelazione che prima non sapevi? Ecco, hai la certezza che stai facendo la cosa giusta. Dato che la conferma arriva da così lontano, è quasi – come dire? – avvertire che qualcuno si è dato la pena di istruirti dalle profondità dello spazio e del tempo. Comunque credo semplicemente che quando succede te ne accorgi. Non puoi negarlo. Cerchi di essere il più razionale possibile, ma non funziona. In realtà, credo che uno dei prerequisiti perché una rivelazione accada sia che…beh, di solito ti arrivano quando sei alla frutta. Un grande filosofo russo, Lev Šestov, sosteneva che esistono tre metodi cognitivi. Uno analitico, un altro intuitivo/sintetico e poi c’è il terzo metodo, quello, volendo, usato dai profeti e dalle incarnazioni divine, ed è la rivelazione. È un mezzo cognitivo anche questo. E secondo Šestov normalmente le rivelazioni si verificano quando la ragione viene meno.
La grande virtù della poesia è che nel processo creativo usi tutte e tre queste modalità cognitive contemporaneamente, se ti va bene. Se gettiamo uno sguardo schematico sul mondo e sui vari popoli che lo abitano, vediamo che in Occidente al momento l’enfasi è sulla razionalità, sulla «ragione». Mentre in Oriente dominano la riflessività e l’intuizione. Il poeta, di suo, è l’esemplare più sano che possa esistere, perché è una fusione di queste modalità.
Mi avvio a concludere questo viaggio, senza inizio e meta, con la poesia. La storia è testimone del fatto che in tutte le società i lettori di poesia non superano l’1% della popolazione. Un tempo i poeti erano costretti a gravitare intorno alle corti, sedi del potere come oggi gravitano intorno alle università, nei circoli letterari e nei lit-blog del web. Oggi dunque l’accesso alla poesia è, in pratica, geograficamente e storicamente, globale. Intanto però le radici della poesia sono sempre più profonde e lontane e se un contadino del Perù si arrischiasse - e oggi può farlo a differenza di ieri - a leggere i versi di un qualunque poeta moderno, non potrebbe che sentirsi perduto.
A tale proposito mi sento di proporre un metodo per affrontare il viaggio nella e con la poesia. È un semplice espediente che ho illustrato il 18 Maggio del 1988 nella prima edizione del Salone del libro di Torino. Innanzitutto leggere poesia è il modo migliore per affinare un gusto letterario. La poesia, come ho già detto, essendo la forma più ricercata di espressione umana, non è soltanto il mezzo più conciso e più denso per trasmettere l’esperienza umana: essa offre anche i canoni più alti per qualsiasi operazione linguistica, specialmente per quelle che si compiono sulla carta. Qui non vorrei essere frainteso: non sto cercando di sminuire l’autorità della prosa. La verità è che la poesia, semplicemente, è più vecchia della prosa e quindi ha camminato di più. Come molti, credo che la letteratura sia cominciata con la poesia, col canto di un nomade che precede tutti gli scarabocchi di un sedentario. Permettetemi a proposito di scarabocchi, di disegnare la seguente caricatura, perché le caricature accentuano l’essenziale. Immaginate un lettore che ha entrambe le mani occupate a reggere libri aperti. Nella sinistra tiene una raccolta di poesie, nella destra un volume in prosa. Vediamo un po’ quale è il libro che lascia cadere per primo. Bene, tanto per cominciare, l’oggetto nella sua mano sinistra sarà, con ogni probabilità, più leggero di quello che il nostro lettore tiene con la destra. In secondo luogo, come disse una volta Montale, la poesia è un’arte inguaribilmente semantica e per questo l’eventuale cialtroneria, in poesia, è quanto mai limitata. Dopo tre versi il lettore sa già che cosa tiene nella sinistra, perché la poesia si rivela rapidamente e la qualità del linguaggio si fa sentire immediatamente. Dopo questi tre versi il lettore può gettare un’occhiata a ciò che ha nella destra.
Se a questo punto gli accadesse di lasciar cadere questo libro, il merito, sarà dell’autore che stringe nella sinistra: vorrà dire che quella poesia ha davvero qualcosa da aggiungere a quel preciso istante e alla sua esistenza.
Concludendo, la poesia (scritta o letta) ha un passato ricco, ogni poeta (lettore) aggiunge una tappa al suo cammino secolare. Il viaggio della poesia procede proprio come un treno in corsa. Non si sa dove sia nata, e certamente non se ne conosce la destinazione. Se saliamo in vettura durante il tragitto può accadere di essere seduti in un posto lontano dal finestrino. La reazione più naturale – la più immediata e diffusa – potrebbe essere quella di voler scendere al più presto.
Ma il viaggio con la poesia deve tenere conto anche del prezzo del biglietto, della carrozza, del suo affollamento e dei compagni di scompartimento: magari resterete sorpresi proprio da piccole inaspettate rivelazioni; imparerete a cogliere segreti nel prestare ascolto e più attenzione a tanti piccoli particolari. E così piano, piano, comincerete anche voi a parlare, non fosse altro che per semplice reazione.
Comincerete magari a chiedervi cosa mai vorranno dire questi semplici versi di un famoso haiku giapponese, quello della rana:
lago vetusto/
una rana si tuffa/
rumore d’acqua/
e comincerete a …dubitare della vostra banalità nel giudicarlo banale. Magari comincerete a contare le sillabe e scoprireste così che sono solo 17, distribuite in due quinari e un settenario. Forse qualcuno dei viaggiatori che condivide il vostro stesso viaggio vi farà notare che la rana è un anfibio e che nelle culture antiche è un simbolo di rigenerazione. Rigenerazione: proprio quella sensazione che proviamo quando ci tuffiamo. Improvvisamente vi sorprendereste a pensare che la rana potrebbe invece rappresentare proprio la parola che si tuffa nella pagina per generare un suono. Un Do segnato sul pentagramma musicale che non si sente fino a quando non si suona! E ancora. La stessa rigenerazione, non potrebbe essere considerata una vera e propria reincarnazione? Dunque, il lago vetusto è il nostro corpo invecchiato e il rumore d’acqua la memoria di qualcosa, la rinomanza del nome, cioè quello che viene detto, suonato, interpretato, tramandato… E così via.
Insomma comincerete a scoprire quanto è piacevole condividere questo comune viaggio senza inizio e senza meta con un buon libro ben stretto nella sinistra.
domenica 7 novembre 2021
In viaggio con Brodskij: un monologo. Parte II
Molti pensano che la poesia abbia a che fare con l’inventiva, che debba cioè spingersi sempre oltre cercando forme nuove, sperimentando mezzi espressivi nuovi, servendosi di provocazioni e prove di abilità vocali, linguistiche, mnemoniche…Ma, di fatto, di forma ce n’è una sola e la crei con le parole e certe regole. Inoltre, gli schemi metrici non sono semplici artifici tecnici, sono formule magiche. I nostri corpi sono pentametri giambici, sono il blank verse inglese di Shakespeare, evoluzione dell’ endecasillabo italiano.
Gli schemi metrici sono vere e proprie entità spirituali, in ogni caso, oggetti magnetici che attraggono o respingono. La nostra natura, la nostra cultura non viene da luoghi e posti precisi ma dalla lingua e dal respiro. È bene ricordare che i romani usavano il verso di quindici sillabe per i canti militari proprio per la loro peculiare scansione con le brevi e le lunghe che accordava la marcia dei legionari. Nel passaggio dal latino al francese e alle altre lingue latine è successo che quelle 15 sillabe si sono ridotte a 14, a 12 e poi a undici. Cioè l’alessandrino francese e i versi che ne derivano, fino all’endecasillabo, non fanno che ripetere il rumore dei passi delle legioni romane.
Tutto questo per dire che non si può insegnare a scrivere una poesia (tutt’al più a marciare): puoi solo insegnare i trucchi tecnici per… vederci più chiaro, per illuminare, come un faro, tutto intorno, saltuariamente; per (ri)percorrere la scala delle cose e osservare le trasformazioni; dai triremi ai sommergibili, dai mari ghiacciati a quelli surriscaldati, dalle burrasche egee agli uragani mediterranei.
Il fascio luminoso dà conto di tutto questo.
Se volessimo parlare di un impegno civile del poeta bisognerebbe parlare di una poesia della civiltà e non c’è migliore poesia in grado di sostenere la civiltà di quella italiana.
Tanto per cominciare c’è Umberto Saba, un tradizionalista ma con tutta una serie di tranelli. Poi Giuseppe Ungaretti, che ha preso Mallarmé alla lettera e dunque non lascia troppe parole sulla sua pagina per via del…segreto. Poi, ovviamente, c’è Montale e Pavese (fondamentale per chiunque si occupi di poesia) e ancora Zanzotto e Penna. La poesia italiana, inoltre, va suggerita per le sue operazioni mentali e per la sua sottigliezza. Oltre alla raffinata educazione di stampo europeo che ricevono, i poeti italiani possiedono una esemplare familiarità con l’artificio e soprattutto con le …colonne che in Italia sono onnipresenti come gli alberi. Il risultato di questa situazione è che l’artificio è percepito come naturale, e viceversa, il naturale come artificio.
Il punto è che l’Italia, nell’immaginario collettivo, fornisce sempre qualcosa a cui anelare; la sua, è una poesia dell’occhio affamato, una scrittura che adotta una sorta di estetica barocca della curiosità, grazie alla quale fra tante parole, formule e altari, tace l’essenziale che deve essere scoperto, a volte inventato e che, a conti fatti, induce a guardare più attentamente.
La civiltà funziona così: per induzione.
Se dovessi dare un consiglio a un giovane poeta gli direi di leggere le cose antiche. Penso che nessuno abbia il diritto di prendere una penna in mano senza aver prima letto Gilgameš. O di scrivere in inglese prima di aver declamato le Metamorfosi di Ovidio. E lo stesso discorso vale per Omero e Dante. Dal mio punto di vista la letteratura contemporanea è un effetto di quella causa antica. Se vuoi imparare a respirare e insegnare un ritmo al tuo orecchio e alla tua lingua devi leggere Orazio. Se vuoi imparare una struttura di pensiero simbolico e vedere come “lavora” la metafora per animare la mitologia devi leggere Ovidio: nella sua versione di Eco e Narciso, entrambi appaiono nell’acqua, ma Narciso la scaccia; e quando Ovidio ti racconta la sofferenza della ninfa…Non è che ti metti a piangere…O magari sì.
Credo che a modificare l’attitudine o la percezione di certi fenomeni come per esempio “leggere” (vorrei dire fare) poesia è quella sorta di disposizione d’animo elevata, quella leggerezza della quale hanno parlato a più riprese Simone Weil e Italo Calvino.
L’equivoco da evitare è pensare di essere più avanti di quelli che non ci sono più, in quanto rivendichiamo una presunta modernità. Leggendo gli antichi ci rendiamo conto che questa idea è completamente sbagliata. Potrà al limite essere vera se riferita alla tecnologia, ma rispetto alla poesia ne usciamo decisamente ridimensionati. Se fossi più giovane, scriverei un libro di imitazioni. È un mio vecchio sogno, fare una raccolta di riscritture, in particolare della scuola alessandrina, soprattutto di un tizio che è il mio preferito e che fu una vera e propria ossessione per Salvatore Quasimodo: sto parlando di Leonida di Taranto, un tipo pieno di immaginazione.
Ma le cose belle nascono da una sorta di “intervento divino” e non ha senso preoccuparsi perché questo possa accadere o meno, non lo puoi controllare. Resta un segreto anche per te. Solo la possibilità di fare il male è sotto il nostro controllo. Uso il termine “intervento divino” come una sorta di metafora psichica ma quello che davvero intendo è l’intervento del linguaggio su ognuno di noi e in ognuno di noi. È come quel famoso verso di Auden su Yeats: la folle Irlanda ti ferì facendoti poeta. Ciò che ti ferisce e ti fa poeta è il linguaggio: non sono la tua filosofia personale o il tuo credo politico e nemmeno la tua spinta creativa o la giovinezza. Come ha più volte ricordato Auden, per essere poeta non devi usare le parole per dire qualcosa, ma ti deve piacere «bazzicare le parole, ascoltare quello che hanno da dire».
Per questo al culmine della mia cosmologia metterei il linguaggio, questa entità grandiosa e misteriosa. Dire che il poeta «sente la voce della Musa» non ha alcun senso, a meno che non si specifichi la natura della Musa. E se andiamo a vedere, la voce della Musa è la voce del linguaggio. O forse sarebbe ora di riconoscere nel linguaggio, nel suo gene e nel suo genio, l’imprescindibile Musa che genera le nove conosciute.
È tutto molto più terra terra di quanto non sembri: la poesia è la tua reazione a ciò che senti, a ciò che leggi.
Oggi l’unica cosa che mi sorprende davvero è quanto spesso ci imbattiamo, nonostante le circostanze, in esempi di decoro e raffinatezza. Perché la situazione di base, presa nella sua totalità, non aiuta certo a comportarsi in modo decoroso o corretto. Non credo nelle infinite capacità della ragione o della razionalità. Mi affido alla ragione solo nella misura in cui mi conduce all’irrazionale, perché è a questo che la ragione, in fondo, serve: a portarti il più vicino possibile all’irrazionale. Poi lì ti abbandona. Per un po’ sei preso dal panico. Ma è lì che dimorano le rivelazioni. Non che tu possa andarle a prendere a piacimento. Ma nella mia vita due o tre rivelazioni le ho ricevute, o quantomeno si sono posate sulla soglia della ragione e hanno lasciato il segno. So bene che tutto questo ha ben poco a che vedere con qualsiasi impresa religiosa ordinata. Il punto è questo: se per me esiste una divinità , questa è il linguaggio.
giovedì 4 novembre 2021
In viaggio con Brodskij: un monologo. Parte I
Iosif Aleksandrovic Brodskij (Leningrado, 24 Maggio 1940-New York, 28 Gennaio 1996). I primi anni della sua vita coincidono con quelli della Seconda guerra mondiale e con l'assedio di Leningrado. Il padre, fotoreporter di guerra, è quasi totalmente assente durante l'infanzia di Brodskij. Terminato l'assedio, il giovane poeta e sua madre sono evacuati a Čerepovec per poi tornare a Leningrado nel 1944. Non ancora sedicenne, abbandona gli studi per lavorare come apprendista tornitore nella fabbrica Arsenal di Leningrado. Nel 1964 fu arrestato con l'accusa di parassitismo e condannato a cinque anni di lavori forzati. Rilasciato dopo 18 mesi tornò a vivere a Leningrado. Nel 1970 fu costretto dalle autorità sovietiche a emigrare. Si stabilì in USA, dove tenne corsi in varie università. Brodskij ha esordito pubblicando nel 1958 alcune poesie in una rivista clandestina. Venne subito riconosciuto come uno dei lirici più dotati della sua generazione. Ebbe il sostegno di Anna Achmatova che gli dedicò una delle sue raccolte (1963). Dopo il rilascio seguito alla prima condanna, si dedicò soprattutto alla traduzione di poeti inglesi (Donne, Hopkins). La sua raccolta di versi Fermata nel deserto, uscì a New York nel 1970 confermando il suo straordinario estro poetico. Dopo l'emigrazione tenne corsi in varie università e svolse ampia attività saggistica (Fuga da Bisanzio, 1986) e poetica ( Elegie romane, 1982). Nel 1987 fu insignito del premio Nobel per la letteratura, e nel suo discorso a Stoccolma individuò le radici della sua opera di classico contemporaneo in quattro poeti: Anna Achmatova, Marina Ivanovna Čvetaeva, Robert Frost e Wystan Hugh Auden. Nel 1991 fu nominato poeta laureato degli Stati Uniti. Morì nel suo appartamento di Brooklyn il 28 gennaio 1996. Innamorato dell'Italia, espresse il desiderio di venire seppellito a Venezia, città di acqua e canali come la natale Leningrado, e lì ha trovato per sempre riposo.
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Il “monologo” seguente, diviso in tre parti, è una libera rielaborazione delle lezioni e interviste rilasciate da Iosif Brodskij e pubblicate in Italia da Adelphi.
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Sì è vero, prima di ricevere il premio Nobel per la letteratura sono stato in prigione.
Per quale motivo? Non lo so e non me lo sono mai chiesto: forse per lo stesso motivo per il quale mi hanno conferito il Nobel.
Si vede che sono cambiato e i cambiamenti spaventano. All’inizio ero considerato russo - da alcuni, non da tutti - ed ora sono diventato americano (per altri ma non per tutti).
Allo stesso modo, pur essendo nato uomo, mi sono trasformato, secondo gli accusatori sovietici, in un parassita; in un grande poeta, invece, per gli accademici di Svezia.
Per natura e per cultura cerchiamo sempre una causa dietro ogni fenomeno se non addirittura un vero e proprio complotto: c’è sempre qualcosa che sta dietro a qualcos’altro che è dietro a qualcos’altro ancora e così via. Alla fine, rendiamo tutto molto più complicato di quello che, nella realtà, è. Intendiamoci: a volte una causa c’è. Altre, nessuna o, viceversa, più di una.
Per esempio potrei ripetere tutti i capi di accusa che hanno portato alla mia condanna ma la sostanza, almeno per me, è semplicemente questa: se ti dai da fare per creare o soltanto esplorare dentro di te un mondo indipendente, sei destinato prima o poi a diventare un corpo estraneo nella società e, dunque, a essere assoggettato a tutte le leggi fisiche che riguardano i rifiuti.
Credo che il compito di un poeta sia di mostrare alla gente la visione reale della scala delle cose. In questo, l’attività di uno scienziato non si discosta molto da quella dell’artista: in tal senso un fisico è un poeta e viceversa!
Questo spiega perché Osip Mandel’ štam una volta disse: «Dante può essere compreso solo con l’ausilio della teoria dei quanti»! Entrambi, fisici e poeti, questi creatori o esploratori di mondi, cercano di mostrarci la vita come una lunga catena e sono capaci di indicare con precisione quale è il nostro anello in questa catena. Per lo meno dovrebbero condurre ognuno di noi verso questa possibilità: riconoscere quale sia il proprio anello nella catena.
In tutte le mie poesie ho in fondo ripetuto costantemente lo stesso messaggio: «sii tenace, persevera e resisti». Oggi tutto questo potrebbe essere inglobato nella parola resilienza. E la poesia, come le parole che la formano, è in fondo una soluzione tampone. In chimica una soluzione tampone indica un certo numero di sostanze tenute insieme seppur separate e distinte; così, oggi, la parola resilienza, per me, è il …versamento in un’unica soluzione di diverse sostanze distinte, in equilibrio tra loro, che si chiamano forza, recupero, perseveranza, fiducia, etc…
La mia è una filosofia della sopportazione, tutto qua. Quando sei in una brutta situazione, hai due modi per uscirne: mollare tutto oppure…entrarci dentro per attraversarla. La “materia” di cui (ci) siamo fatti permetterà di resistere il più a lungo possibile e io cerco di resistere più di tutti.
In una poesia del 1966 scrissi:
…Che c’è dinanzi a noi?/
Ci aspetta forse un’era diversa?/
Se è così, quale sarà l’impegno collettivo?/
Cosa mai dovremo portarle in sacrificio?
E vedo ora che questa èra diversa, è meno morale, più impersonale, oserei dire meno umana. Apparentemente tutto questo può essere raccontato solo da un verso libero perché questo nostro innominabile attuale, così variabile, relativistico e non gerarchico sembra proprio richiedere una forma altrettanto variabile, relativistica e anarchica. Ma la poesia non è solo l’espressione di sé o un elenco delle proprie impressioni o emozioni su ciò che ci accade. La poesia è anche un’arte che richiede pertanto una certa perizia tecnica. Parafrasando (ancora) Robert Frost, scrivere in versi liberi sembrerebbe quasi giocare a tennis con la rete abbassata. Cioè, non giocare propriamente a tennis.
Perché è apparso il verso libero? Come conseguenza di una forma determinata, chiusa?
Verso libero, libertà? Ma chi si è liberato e da cosa? Si è liberato, il poeta, da una specie di schiavitù? Per farlo dovrà pur aver sperimentato tale schiavitù; altrimenti non potrà riconoscere la libertà. E di quali libertà possiamo parlare se la libertà fisica è stata determinata dagli Stati, quella politica dalle dittature e persino quella religiosa è determinata, ad esempio, dalla legge del karma o dal giudizio universale? E, prima di tutto, la nostra libertà non è determinata forse dallo stato di salute?
Comunque tornando alla poesia come maestria tecnica sia chiaro che il …campo da tennis in ordine è molto importante, ma quello che accade nella esperienza poetica è che uno ha due, tre versi, a volte una parola e un paio di altre idee che gli frullano in testa. Si mette lì, buono buono, cercando di riversare tutto su carta, ma mentre lo sta facendo succede qualcosa: il risultato finale della poesia non è quello che aveva previsto all’inizio. Eppure quegli elementi di partenza, i versi, la parola le idee, vi sono inglobati.
Durante una delle mie ultime lezioni salutai i miei studenti con alcuni versi, per me molto significativi, di Wystan Hugh Auden:
Vieni nel nostro allegro deserto/
dove anche le bambole battono/
dove i mozziconi/
diventano amici fraterni/
e dove sono sempre le tre del mattino.
Una parola, due o tre versi e un paio di idee nella testa della più grande mente del ventesimo secolo.
Ed è poesia.
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