Non vi pare che nei cristalli
La natura si esprime in versi?
L. Sinisgalli[1]
La Natura produce i suoi oggetti formando legami (Buber[2] avrebbe detto Relazioni; oggi noi diciamo Link) tra costituenti di base: fa così con gli atomi che formano le molecole e con le molecole che formeranno macromolecole e materiali organici ed inorganici che formeranno stelle e esseri viventi.
Gli scienziati e gli intellettuali ci dicono tutto su questo modo di procedere, di come nell’arco di un secondo dalla singolarità del big bang, l’Energia Infinita iniziale si sia trasformata in un brodo di quarks ed elettroni che legandosi hanno formato i primi atomi ed elementi leggeri come l’idrogeno e l’elio attraverso la nucleosintesi. In questo sconfinato processo di espansione successivo al Grande Botto vi erano alcune discontinuità fatte di Vuoto (e quindi di Silenzio) che hanno poi reso possibile la formazione di galassie e delle stelle che in un secondo processo di nucleosintesi hanno prodotto gli elementi di cui siamo costituiti.
Ma STOP.
Non voglio andare avanti con questo film che, fotogramma per fotogramma, racconta la nostra Evoluzione attraverso la Storia della Ragione (o viceversa). Mi preme solo sottolineare la particolarità di questa indagine che la Natura svolge su se stessa attraverso l’Uomo: un’attività autoreferenziale che sembra avere a che fare solo con gli strumenti con cui si porta avanti l’indagine e non con un fine chiaro e preciso.
La Natura quindi ci ha messo nelle condizione di studiarla e noi tentiamo di imitarla principalmente per sfruttarla e dominarla: una gran parte della nostra attività è volta a costruire oggetti di complessità sempre più stupefacente, a creare macchine capaci di funzioni avanzatissime addirittura in grado di vivere e pensare. Oggi con le nanotecnologie vediamo e controlliamo l’atomo nel senso che possiamo afferrarlo con le dita e depositarlo su un foglio allo stesso modo come si deposita una... parola sulla carta: tutto questo è stupefacente se pensiamo (crediamo) che ha origine dal Vuoto e quindi dal Silenzio.
Chi può descrivere e spiegare meglio questa situazione se non un filosofo (magari Kierkegaard[3] con la sua maschera di Johannes de Silentio, o Ludwig [4] con la sua Settima). Ma sono proprio loro che ci hanno infilato in questo circolo vizioso secondo il quale l’esperienza della Fede è quella di vivere nel paradosso come quella della Scienza è di vivere nella tautologia: per questi motivi tanto la Fede che la Scienza devono contemplare una sospensione dell’etica! Tacere quindi.
Ma c’è qualcuno che piuttosto che descrivere e spiegare, piuttosto che tacere ci mostra, per così dire dall’esterno, la natura di tutto questo.
Se un poeta scrive [5]:
Persuasi di esplorare
navighiamo in realtà le stesse rotte,
e in circoli viziosi
rimestiamo ore ferme e senza tempo
nel silenzio del canto
messo a tacere dal chiasso degli echi.
qui si avverte che stiamo davvero cercando l’Anima tra le cose usando le parole come dita.
Questo processo non ha nulla da invidiare alla più sofisticata delle nanotecnologie che assembla le cose dal basso come fa la Natura. Grazie al poeta quindi entriamo in un mondo che è precedente a qualsiasi nanomondo perchè qui non stiamo parlando degli strumenti necessari a capire, a imitare, a costruire.
Qui non stiamo imitando la Natura ma i suoi procedimenti.
Qui non siamo alle prese con il perfezionamento incessante degli strumenti che consentirebbero la realizzazione dei fini ( il perfezionamento è quasi sempre funzione dell’ambiguità dei fini) no qui si prende atto del modo stesso di procedere della Natura, e probabilmente si corrisponde allo stesso fine, quello di immaginare e di creare.
Ma di notte si sogna,
e qualche sguardo s’allunga nel cielo
perdendosi in vertigini,
e va lontano, più lontano ancora
della luce che vaga
portando stelle e un modo per andarci,
poichè il mondo è un abisso
e l’anima quel colpo d’ala pronta,
a staccarci dal centro,
dall’idea fatta una volta per tutte.
Le parole come gli atomi sono cose, cose con un significato e così come tra un atomo e l’altro c’è del vuoto e quindi silenzio, lo stesso vale per le parole.
Assemblare dal basso gli atomi per farne materiali, per farne oggetti vuol dire manipolare il....vuoto. Il silenzio.
Allo scopo di difendere la caratteristica della parola poetica dalla distruzione del significato i poeti accentuano il lato materico del linguaggio, assemblando atomo dopo atomo i versi come farebbe un cristallo. Per questo Sinisgalli [1] si chiede: non vi pare che nei cristalli la natura si esprime in versi?
Quando le linee sfumano in distanze inesatte e i confini si sfarinano...i suoni raggiungono le lontananze del silenzio...all’alba il mondo si ridisegna...[e] …così a noi tra le mani rimane la friabilità di un sentimento…
La nanotecnologia della parola di cui si serve Andreotti è il processo di manipolazione del silenzio, l’assemblaggio corretto di ciò che vi era un secondo dopo il Grande Botto che ha collegato i quarks per formare elettroni, protoni e neutroni a loro volta in grado di immaginare una materia con dei battiti, dei ritmi propri che potessero tradursi in cristalli e in pensieri emersi da un brodo di silenzio e salire in superficie per entrare nella realtà delle emozioni.
Modulando il silenzio e il vuoto la natura emerge su se stessa e il poeta che opera così è quindi Natura in azione.
Oggi che a spaventarci non sono più i sani Timore e Tremore per l’horror vacui ma quelli per l’invadente horror pleni [6] dovremmo affidarci alla Natura che ha trovato la soluzione a questa moltiplicazione inarrestabile di oggetti , di informazioni, di parole; ha trovato chi provvede a tenere la ciotola vuota per poterla riempire; chi rimette insieme pezzi di vuoto e silenzio nascosti
…tra nuvole veloci e sguardi fermi…usando parole come dita
La Natura ha trovato poeti come Angelo Andreotti che non la imitano ma la creano.
Come uno sguardo in silenzio s’abbassa,
così il cielo si consegna,
e luci nere illuminano
lo spostamento dell’asse del mondo
su cui le anime passano
equilibrandosi l’una con l’altra.
Scende dal buio
l’enigma
e segue il passo dei sogni a venire,
cerca luce
trova terra
e tutto un alternarsi di confini,
un sovrapporsi esausto di orizzonti.
Venendo dalla schiuma della luna
gettata come un’onda sulla riva
gli angeli si avvicinano alla strada,
ai crocevia raggiungono i passanti
pronunciando nella notte
quel silenzio che mancava
all’imperfetta evidenza dell’ombra.
Riferimenti
[1] L. Sinisgalli Furor Mathematicus, Mondadori Milano 1950;
[2] M. Buber Il Principio Dialogico e altri saggi, S. Paolo Edizioni 2012;
[3] S. Kierkegaard Timore e Tremore Mondadori 2003;
[4] L.J. Wittgenstein Tractatus Logico-Philosophicus, Piccola Biblioteca Einaudi 2009;
[5] L’opera poetica di Angelo Andreotti costituisce un unicum e quindi si rimanda alla bibliografia completa aggiornata nel suo ultimo Dell’ombra la luce, L’arcolaio 2014;
[6] G. Dorfles Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore, Castelvecchi 2008
giovedì 29 maggio 2014
domenica 25 maggio 2014
La Follia di dire No
-Lei sa quale è stata la prima poesia?-
-No-
-Esatto!-
Dire No è facile e per alcuni bambini è la prima parola che si pronuncia e di sicuro quella che più frequentemente si ascolta e si vede rappresentare: - Questo non si fa- e via a muovere il ditino o a scuotere la testa a destra e sinistra.
Per via di questo semplice atto linguistico l’Uomo lascia, per così dire, il mondo ed entra nella realtà.
Il silenzio di Socrate, la disubbidienza di Thoreau che genererà l’approccio non violento di Gandhi e di Martin Luther King ma anche i dieci -Preferirei di no- dello scrivano di Melville o il gusto della disobbedienza di Emily Dickinson e, per finire, le rinunce di Francesco e Chiara di Assisi. Tutti questi sono esempi di come un semplice No possa trasformare un dato mondo in qualcosa di diverso.
Sono No lontanissimi da ogni forma di nichilismo, fuga o di malattia ma rientrano nella categoria della resistenza ad una condizione di ingiustizia, di rifiuto alle convenzioni, di difesa della propria libertà.
Per emergere dal mondo e per conoscere se stesso l’Uomo deve denudarsi e liberarsi della maschera della sua…persona (persona viene dal greco e vuol dire maschera).
Il No lo aiuta in questa operazione di smascheramento. Attraverso l’uso del linguaggio, delle metafore e del ritmo ( che , come ho detto in un altro post è fine e mezzo dell’arte) il poeta trasforma il mondo nel quale noi tutti respiriamo, mangiamo, ci riproduciamo in una realtà: il mondo non è costituito solo da stati di cose che sussistono, come per esempio il sole che splende o il vento che muove i pioppi cipressini, ma anche di stati di cose che non sussistono. E’ questa la differenza tra mondo e realtà: mentre nel primo ci sono solo fatti positivi, effettivamente sussistenti e sui quali tutti possiamo essere d’accordo (il sole splende), nella seconda “ci sono” anche i fatti non effettivamente sussistenti (potrebbe annuvolarsi). Un fatto positivo apre alla possibilità logica a qualcosa che al momento non è un fatto. Questo significa anche che solo se può presentarsi il pensiero del “cielo nuvoloso” posso desiderare il sole! Se Emily Dickinson scrive quindi [1]
Così mi sfilo le calze
Sguazzando nell’acqua
Per il gusto di disobbedire
Il ragazzo che visse per “Dovere”
Andò in cielo forse da morto
E forse non ci andò
Mosè non fu trattato bene
Anania nemmeno.
in effetti ci svela il segreto del poeta e della poesia che è il gusto di disobbedire e di andare contro le convenzioni a cominciare da quello dell’uso delle parole: esse non servono solo a descrivere un “Dovere”, un attenersi a leggi naturali e regole ma anche a mostrare quello che potrebbe non sussistere (andare in cielo da morti o da vivi? Tenere le calze o sfilarle?).
Qui nel tipico procedimento della Dickens viene mescolato profano e sacro quasi a volerci indicare che la disobbedienza, la negazione ci apre la porta a qualcosa che è più del mondo”animale”, la realtà, ma anche più di questa. Nelle due citazioni bibliche la Dickens sembra volerci suggerire : -In qualsiasi modo ti comporti il risultato è sempre lo stesso, tanto vale lasciare lo spazio al gusto di dire no!-. Ma questo No non è il bieco e mancato rispetto delle regole per un proprio tornaconto ma una scelta coraggiosa e rivoluzionaria: è una disobbedienza che impone di seguire più che le convenzioni e il mondo, la propria coscienza e una realtà di valori alti e universali.
Francesco d’Assisi compose il suo Cantico in volgare in un mondo in cui era imposto il latino: la prima opera poetica della letteratura italiana è conseguenza dei No di Giovanni di Bernardone a suo padre, a una chiesa votata al potere e a una lingua. Il messaggio di straordinaria modernità di Francesco e di tutti quelli che pronunciano un No autentico sta proprio in questa ribellione pacifica. In questi No vi è racchiusa una bellezza che bisogna definire poetica e spirituale perché apre a parole, atteggiamenti e comportamenti necessari ed indispensabili per riacciuffare un’umanità alienata da se stessa, irretita da un mondo evanescente, virtuale in cui è palpabile la solitudine e il Male sembra trionfare come unico stato sussistente di cose. Come dice Brodskij [2] “…se si considera l’ampiezza e l’intensità con cui [il Male] si manifesta nel mondo…” attraverso i suoi multiformi travestimenti di ingiustizia, iniquità, sfruttamento, razzismo e violenza, “…oggi possiamo dire che esso è un fenomeno fisico più che una categoria etica…”
Qui allora è necessario levare un No assoluto per riportare alla realtà della vita l’uomo di oggi, per ridare uno strumento operativo ai nostri giovani e sentite come procede il poeta, come “agisce” la poesia per fare questo:
“…Le mie parole hanno semplicemente lo scopo di suggerirvi una forma di resistenza che un giorno può esservi utile, che può aiutarvi…”
a trasformare il mondo nel quale siamo tutti immersi in una realtà
“…e a uscire dal vostro incontro [fisico, ormai fisico] con il Male meno sudici di quelli che vi hanno preceduto. Quello a cui che sto pensando, come avrete capito, è la famosa faccenda dell’altra guancia…Immagino che vi sia familiare il concetto di resistenza passiva o non violenta, che ha come cardine il principio di rendere bene per male, di non ripagare con la stessa moneta…Ma [a ben pensare] l’offerta dell’altra guancia equivale ad una manipolazione del senso di colpa dell’aggressore: in fondo la vittoria morale in sé potrebbe non essere tanto morale primo perché la sofferenza ha un suo aspetto narcisistico e secondo perché conferisce alla vittima una superiorità sul suo nemico, cioè la rende migliore di lui. Ora per quanto malvagio sia il nostro nemico, resta il fatto fondamentale che è umano; e noi, benché incapaci di amare il prossimo nostro come noi stessi, sappiamo nondimeno che il male mette radici quando un uomo comincia a pensare di essere migliore di un altro…”.
Quello che Brodskij vuol dire è che a volte dire No può anche non bastare per trasformare il mondo in una realtà. Allora per essere convincenti sull’autenticità di questo No e della nostra volontà di trasformazione, direi meglio di conversione, bisogna ribattere decisamente sul No. E infatti così viene fatto nel Discorso della Montagna del quale ricordiamo solo la faccenda dell’altra guancia e dimentichiamo, come hanno fatto Tolstoj, Thoreau, Gandhi, che dopo il versetto [3]:
“…ma se uno ti percuote sulla guancia destra porgi a lui anche l’altra”
il testo, senza alcuna pausa, continua con:
“e se uno vuole chiamarti in giudizio e toglierti la tunica, cedigli anche il tuo mantello. E se uno ti forza a fare un miglio, va con lui per due miglia.”
Citati per esteso questi versetti hanno ben poco a che fare con un semplice no alla violenza: in questi versetti vi è implicita l’idea che il male può essere reso assurdo per eccesso, vi è implicito il suggerimento di rendere assurdo lo stato sussistente di cose sminuendone le pretese ed esponendo al ridicolo la sua intrinseca insensatezza. E’ un effetto che conosciamo molto bene perché è legato ad ogni forma di produzione di massa. E quale attività umana può produrre un numero così cospicuo di No, una produzione pressoché illimitata da ridisegnare il mondo in una realtà?
La Poesia.
Come questa del poeta francese Michel Deguy nella traduzione di Mario Benedetti [4]:
Non uccidere
Non ucciderai affatto
Né i tuoi compagni di classe, né i tuoi professori
Né i vicini non ucciderai affatto né
A Srebenica né a Tel Aviv né a Jenin
Né perché Dio ti aspetta bevendo sotto la pergola
Né per la patria né per le tue idee
Non ucciderai affatto
– “affatto” vuol dire
Non ucciderai in nessun modo
Non ucciderai il prefetto Erignac
Sotto alcun pretesto nemmeno quello della gloria dimenticata di Paoli
Né perché Dio ti ha dato una parte
All’indomani della Genesi
Né perché Maometto e il suo asino
Hanno lasciato la terrazza sotto le ali dell’angelo
Non ucciderai per l’incasso della panettiera
Né per il fischio dell’acceleratore a 3,5 grammi di alcol
Né per la spiaggia dei protettori ritiratisi ai tropici
Non ucciderai né per godere
Né per vendicarti
Né perché “tu vali”
Come cantilena L’Oréal
Con i tuoi 300 000 anni non hai più l’età per fare il furbo
Né perché gli odori del vicino attraversano il pianerottolo
O perché il dio dirimpettaio suona la tromba
Non ucciderai
Non perché fu scritto sulle tavole della legge
Ma perché sei tu stesso a dirtelo
Spesso in pieno petto
E perché ti si dice: è meglio non uccidere,
Credici
Non ucciderai nemmeno il riccio che passa lento
E neanche il piccione di Saint-Sulpice e
Tanto meno la foca pelosa o il rinoceronte erotico
Né l’elefante che occupa tutto lo spazio
Né lo zibetto gastronomico
Non ucciderai affatto perché quelli che ti urlano di uccidere
Sono più cretini di quelli che ti dicono di non farlo
Hai l’età della ragione per capirlo
L’età della disobbedienza secondo Arendt
Agirai secondo coscienza e niente di buono
Te lo ordina
Perché non ci sono subumani
E non ce ne sono mai stati
Perché non c’è più la Voce che viene dall’alto
Né un piatto della bilancia per la vita eterna
Perché i morti non gridano vendetta
E d’altronde non gridano niente perché non esistono più
Perché non ne hai bisogno per “fare il lavoro del lutto”
(questo cliché opprimente di freudiana memoria tivù)
Perché non ci si rifà una vita
Perché tu non sei un altro perché “non degnarti di vedere”
Niente tranne il vortice delle nebulose
Perché questo è il primo e l’ultimo
E il solo comandamento.
Ora sappiamo quale è stata la prima poesia?
-No-
Esatto.
Riferimenti [1] E. Dickinson su www.emilydickinson.it [2] J- Brodskij “Il Canto del Pendolo” Adelphi 2a edizione (2011) [3] Il Vangelo Secondo Matteo [4] M. Deguy Arresti frequenti, Poesie scelte 1965-2006 Luca Sossella editore (2007)
-No-
-Esatto!-
Dire No è facile e per alcuni bambini è la prima parola che si pronuncia e di sicuro quella che più frequentemente si ascolta e si vede rappresentare: - Questo non si fa- e via a muovere il ditino o a scuotere la testa a destra e sinistra.
Per via di questo semplice atto linguistico l’Uomo lascia, per così dire, il mondo ed entra nella realtà.
Il silenzio di Socrate, la disubbidienza di Thoreau che genererà l’approccio non violento di Gandhi e di Martin Luther King ma anche i dieci -Preferirei di no- dello scrivano di Melville o il gusto della disobbedienza di Emily Dickinson e, per finire, le rinunce di Francesco e Chiara di Assisi. Tutti questi sono esempi di come un semplice No possa trasformare un dato mondo in qualcosa di diverso.
Sono No lontanissimi da ogni forma di nichilismo, fuga o di malattia ma rientrano nella categoria della resistenza ad una condizione di ingiustizia, di rifiuto alle convenzioni, di difesa della propria libertà.
Per emergere dal mondo e per conoscere se stesso l’Uomo deve denudarsi e liberarsi della maschera della sua…persona (persona viene dal greco e vuol dire maschera).
Il No lo aiuta in questa operazione di smascheramento. Attraverso l’uso del linguaggio, delle metafore e del ritmo ( che , come ho detto in un altro post è fine e mezzo dell’arte) il poeta trasforma il mondo nel quale noi tutti respiriamo, mangiamo, ci riproduciamo in una realtà: il mondo non è costituito solo da stati di cose che sussistono, come per esempio il sole che splende o il vento che muove i pioppi cipressini, ma anche di stati di cose che non sussistono. E’ questa la differenza tra mondo e realtà: mentre nel primo ci sono solo fatti positivi, effettivamente sussistenti e sui quali tutti possiamo essere d’accordo (il sole splende), nella seconda “ci sono” anche i fatti non effettivamente sussistenti (potrebbe annuvolarsi). Un fatto positivo apre alla possibilità logica a qualcosa che al momento non è un fatto. Questo significa anche che solo se può presentarsi il pensiero del “cielo nuvoloso” posso desiderare il sole! Se Emily Dickinson scrive quindi [1]
Così mi sfilo le calze
Sguazzando nell’acqua
Per il gusto di disobbedire
Il ragazzo che visse per “Dovere”
Andò in cielo forse da morto
E forse non ci andò
Mosè non fu trattato bene
Anania nemmeno.
in effetti ci svela il segreto del poeta e della poesia che è il gusto di disobbedire e di andare contro le convenzioni a cominciare da quello dell’uso delle parole: esse non servono solo a descrivere un “Dovere”, un attenersi a leggi naturali e regole ma anche a mostrare quello che potrebbe non sussistere (andare in cielo da morti o da vivi? Tenere le calze o sfilarle?).
Qui nel tipico procedimento della Dickens viene mescolato profano e sacro quasi a volerci indicare che la disobbedienza, la negazione ci apre la porta a qualcosa che è più del mondo”animale”, la realtà, ma anche più di questa. Nelle due citazioni bibliche la Dickens sembra volerci suggerire : -In qualsiasi modo ti comporti il risultato è sempre lo stesso, tanto vale lasciare lo spazio al gusto di dire no!-. Ma questo No non è il bieco e mancato rispetto delle regole per un proprio tornaconto ma una scelta coraggiosa e rivoluzionaria: è una disobbedienza che impone di seguire più che le convenzioni e il mondo, la propria coscienza e una realtà di valori alti e universali.
Francesco d’Assisi compose il suo Cantico in volgare in un mondo in cui era imposto il latino: la prima opera poetica della letteratura italiana è conseguenza dei No di Giovanni di Bernardone a suo padre, a una chiesa votata al potere e a una lingua. Il messaggio di straordinaria modernità di Francesco e di tutti quelli che pronunciano un No autentico sta proprio in questa ribellione pacifica. In questi No vi è racchiusa una bellezza che bisogna definire poetica e spirituale perché apre a parole, atteggiamenti e comportamenti necessari ed indispensabili per riacciuffare un’umanità alienata da se stessa, irretita da un mondo evanescente, virtuale in cui è palpabile la solitudine e il Male sembra trionfare come unico stato sussistente di cose. Come dice Brodskij [2] “…se si considera l’ampiezza e l’intensità con cui [il Male] si manifesta nel mondo…” attraverso i suoi multiformi travestimenti di ingiustizia, iniquità, sfruttamento, razzismo e violenza, “…oggi possiamo dire che esso è un fenomeno fisico più che una categoria etica…”
Qui allora è necessario levare un No assoluto per riportare alla realtà della vita l’uomo di oggi, per ridare uno strumento operativo ai nostri giovani e sentite come procede il poeta, come “agisce” la poesia per fare questo:
“…Le mie parole hanno semplicemente lo scopo di suggerirvi una forma di resistenza che un giorno può esservi utile, che può aiutarvi…”
a trasformare il mondo nel quale siamo tutti immersi in una realtà
“…e a uscire dal vostro incontro [fisico, ormai fisico] con il Male meno sudici di quelli che vi hanno preceduto. Quello a cui che sto pensando, come avrete capito, è la famosa faccenda dell’altra guancia…Immagino che vi sia familiare il concetto di resistenza passiva o non violenta, che ha come cardine il principio di rendere bene per male, di non ripagare con la stessa moneta…Ma [a ben pensare] l’offerta dell’altra guancia equivale ad una manipolazione del senso di colpa dell’aggressore: in fondo la vittoria morale in sé potrebbe non essere tanto morale primo perché la sofferenza ha un suo aspetto narcisistico e secondo perché conferisce alla vittima una superiorità sul suo nemico, cioè la rende migliore di lui. Ora per quanto malvagio sia il nostro nemico, resta il fatto fondamentale che è umano; e noi, benché incapaci di amare il prossimo nostro come noi stessi, sappiamo nondimeno che il male mette radici quando un uomo comincia a pensare di essere migliore di un altro…”.
Quello che Brodskij vuol dire è che a volte dire No può anche non bastare per trasformare il mondo in una realtà. Allora per essere convincenti sull’autenticità di questo No e della nostra volontà di trasformazione, direi meglio di conversione, bisogna ribattere decisamente sul No. E infatti così viene fatto nel Discorso della Montagna del quale ricordiamo solo la faccenda dell’altra guancia e dimentichiamo, come hanno fatto Tolstoj, Thoreau, Gandhi, che dopo il versetto [3]:
“…ma se uno ti percuote sulla guancia destra porgi a lui anche l’altra”
il testo, senza alcuna pausa, continua con:
“e se uno vuole chiamarti in giudizio e toglierti la tunica, cedigli anche il tuo mantello. E se uno ti forza a fare un miglio, va con lui per due miglia.”
Citati per esteso questi versetti hanno ben poco a che fare con un semplice no alla violenza: in questi versetti vi è implicita l’idea che il male può essere reso assurdo per eccesso, vi è implicito il suggerimento di rendere assurdo lo stato sussistente di cose sminuendone le pretese ed esponendo al ridicolo la sua intrinseca insensatezza. E’ un effetto che conosciamo molto bene perché è legato ad ogni forma di produzione di massa. E quale attività umana può produrre un numero così cospicuo di No, una produzione pressoché illimitata da ridisegnare il mondo in una realtà?
La Poesia.
Come questa del poeta francese Michel Deguy nella traduzione di Mario Benedetti [4]:
Non uccidere
Non ucciderai affatto
Né i tuoi compagni di classe, né i tuoi professori
Né i vicini non ucciderai affatto né
A Srebenica né a Tel Aviv né a Jenin
Né perché Dio ti aspetta bevendo sotto la pergola
Né per la patria né per le tue idee
Non ucciderai affatto
– “affatto” vuol dire
Non ucciderai in nessun modo
Non ucciderai il prefetto Erignac
Sotto alcun pretesto nemmeno quello della gloria dimenticata di Paoli
Né perché Dio ti ha dato una parte
All’indomani della Genesi
Né perché Maometto e il suo asino
Hanno lasciato la terrazza sotto le ali dell’angelo
Non ucciderai per l’incasso della panettiera
Né per il fischio dell’acceleratore a 3,5 grammi di alcol
Né per la spiaggia dei protettori ritiratisi ai tropici
Non ucciderai né per godere
Né per vendicarti
Né perché “tu vali”
Come cantilena L’Oréal
Con i tuoi 300 000 anni non hai più l’età per fare il furbo
Né perché gli odori del vicino attraversano il pianerottolo
O perché il dio dirimpettaio suona la tromba
Non ucciderai
Non perché fu scritto sulle tavole della legge
Ma perché sei tu stesso a dirtelo
Spesso in pieno petto
E perché ti si dice: è meglio non uccidere,
Credici
Non ucciderai nemmeno il riccio che passa lento
E neanche il piccione di Saint-Sulpice e
Tanto meno la foca pelosa o il rinoceronte erotico
Né l’elefante che occupa tutto lo spazio
Né lo zibetto gastronomico
Non ucciderai affatto perché quelli che ti urlano di uccidere
Sono più cretini di quelli che ti dicono di non farlo
Hai l’età della ragione per capirlo
L’età della disobbedienza secondo Arendt
Agirai secondo coscienza e niente di buono
Te lo ordina
Perché non ci sono subumani
E non ce ne sono mai stati
Perché non c’è più la Voce che viene dall’alto
Né un piatto della bilancia per la vita eterna
Perché i morti non gridano vendetta
E d’altronde non gridano niente perché non esistono più
Perché non ne hai bisogno per “fare il lavoro del lutto”
(questo cliché opprimente di freudiana memoria tivù)
Perché non ci si rifà una vita
Perché tu non sei un altro perché “non degnarti di vedere”
Niente tranne il vortice delle nebulose
Perché questo è il primo e l’ultimo
E il solo comandamento.
Ora sappiamo quale è stata la prima poesia?
-No-
Esatto.
Riferimenti [1] E. Dickinson su www.emilydickinson.it [2] J- Brodskij “Il Canto del Pendolo” Adelphi 2a edizione (2011) [3] Il Vangelo Secondo Matteo [4] M. Deguy Arresti frequenti, Poesie scelte 1965-2006 Luca Sossella editore (2007)
martedì 13 maggio 2014
La verità, vi prego, sull'amore
Sono
un po’ restio a credere che esistano poeti giovani (ovvero vecchi
poeti) primo perché non credo che esista una poesia giovane,
contrapposta a una poesia vecchia e secondo perché la poesia non ha
a che fare con Il Tempo, l’Età e le Stagioni.
La
poesia è qualcos’altro.Il giovane poeta è contemporaneo a quello vecchio perché la poesia non nasce e vive, la poesia non muore: la poesia inspira e spira contemporaneamente, si muove tra mare e sabbia, duna e onda; più salda di lei pare la fune di un funambolo, più sicura la caduta e il volo: tutto ciò è terribile, lo so, tutto è però meraviglioso.
Da sempre la poesia si cimenta con l’amore gli chiede “cos’é” , ne tenta una definizione e da sempre l’amore le risponde:
“Dicono alcuni che amore è un bambino/e alcuni che è un uccello,/alcuni che manda avanti il mondo/e alcuni che è un’assurdità...” [W.H. Auden]
Un’assurdità
come la morte di una persona cara, un’amica.
Alessio
Casalicchio a Matteo Bianchi non sono giovani poeti nel senso che pur
essendo giovani hanno LA risposta antica dei poeti : l’amore è
qualcos’altro e ne sono a tal punto convinti da intitolare così
questa bellissima raccolta poetica a due voci “L’amore
è qualcos’altro”
( Empiria Poesia-2013).
Anche
qui, anche questa volta non sapremo la verità sull’amore e di
conseguenza sulla vita e la morte anche se è proprio nella rinuncia
a sapere– è proprio nell’assenza di parole adatte a definire e a
circoscrivere amore, amicizia, dolore e morte- che la verità si
mostra (leggere per credere Gli
anni di viaggio di Wilhelm Meister,
o i Rinuncianti
di J. Wolfgang Goethe).
Come
dice Giancarlo Pontiggia nella nota “...la forza di questo libro
sta proprio nella diversità di due voci che non si
oppongono,...dialogano a distanza [con ] la sensazione che ogni
poesia sia una risposta a un'altra...[e] che tutte insieme rispondano
a un'intimazione più forte e più remota...”
Quello
che subito colpisce di questo dialogo poetico “di
quaranta poesie in camere separate”
è, per così dire, l’arredamento di ogni camera se non proprio la
camera in sé : lo studio/camera da letto di Alessio e il soggiorno
con angolo cottura di Matteo.Sono tutte quelle cose che non mostrandosi ci parlano della giovane età dei due poeti.
Riusciamo ad immaginare il primo intento ad osservare dalla finestra dello studio, oltre la sua immagine riflessa, il suo giardino dove “...non esistono più specchi/né le pozzanghere per raccogliere l'acqua piovana...”.
L’altro lo vediamo in cucina “sedotto” dall’ennesimo “caffè bruciato” ad osservare le cose che lo osservano e che gli parlano di quella volta che...
Ci pare di sentire in sottofondo anche delle musiche provenire da quelle camere, quel mix di Debussy, Bill Evans e Pink Floyd da quella di Alessio e i folk singers, cantautori italiani e il pop inglese da quella di Matteo. E’ vero, un poeta si riconosce come gli uccelli dal canto ma anche da cosa ascolta!
E’ una camera del sogno quindi quella di Alessio nella quale gli sembra di aver “perfino posseduta” l’amata su quel letto di fianco al comodino che accoglie Leopardi, Corazzini, Govoni, Sinisgalli, i poeti maledetti e Rilke.
E’ invece una camera dove i sensi si esaltano, quella di Matteo: i colori degli accessori, le mensole con i libri delle ricette e forse qualche intruso della beatitude generation, Corso, Kaufmann, Ferlinghetti e l’Omero delle Antille più ovviamente Ungaretti, Montale e una goccia di Brodskij (tutta gente che tra l’altro insegna i segreti per “levare dal piatto...” la puzza del pesce “...col limone”).
A questo punto diciamo che i due giovani autori – speriamo incoscientemente- rappresentano nelle loro camere così arredate il dialogo dei dialoghi quello che si parla dalla notte dei tempi tra ciò che è immanifesto (Thanatos) e quello che lo è (Eros) tra quello che ci aspetta (e per alcuni ci ha anche preceduto) e quello che resta.
Con il loro personale <<gusto dell’arredo e del design>>, Alessio e Matteo ci raccontano quasi seguendo le fasi canoniche di un rito, la commedia tragica della Seduzione-Amore-Abbandono che dai Lirici Greci fino alla storia di Don Giovanni è stata rappresentata per schegge, motivi , singoli quadri istantanei senza la preoccupazione di montare il film intero : lo sguardo dell’amata, l’approccio galante, le parole vecchie-sempre le stesse- versate in cuori giovani, il gesto invisibile e delicato dello scrivere la poesia all’amata (tutti, tutti lo hanno fatto!), i sogni e il desiderio- anche del sogno- le cene e gli amplessi a lei “sacrificati” ( come in un rito) e , infine, la disperazione e il pianto per un abbandono. Per l’Abbandono.
Questo è il modello di quanto è avvenuto da sempre ed avverrà altre innumerevoli volte nei vicoli, nelle piazze, nelle sale, nei bar, nei caffè di tutto il mondo. A dispetto del Tempo, dell’Età, delle Stagioni. Vivere, amare, morire.
Questo avviene, incomprensibile e senza fine, in una camera da letto, in una cucina e – fino a poco tempo fa impensabile- tra le maglie di una ragnatela digitale.
Ecco perché non può esistere una verità, sull’amore ( come sulla morte).
L’amore è qualcos’altro perché contrariamente a quello che si crede noi possiamo definire solo qualcosa di cui non sappiamo nulla e Alessio Casalicchio e Matteo Bianchi (rinuncianti!) questo lo sanno bene.
Loro sanno che potrebbero continuare a versare parole su Erica che è andata via, ma hanno preferito cantare insieme perché lei è vissuta. Loro sanno che potrebbero chiudere gli occhi nelle “camere separate” e immaginare la presenza dell’amica, ma hanno preferito tenere gli occhi aperti e mostrare ad Erica quello che lei ha visto.
I
giovani Alessio Casalicchio e Matteo Bianchi avrebbero potuto
ricordare il loro
amore, la loro amicizia e l’affetto per Erica ma hanno preferito...qualcos’altro.
Hanno
preferito mostrare a tutti noi l’Amore, la Vita e la Morte.
E’
quello che i Poeti sanno fare.“Riunito è tutto ciò che vedemmo,/ a prendere congedo da te e da me:/il mare, che scagliò notti alla nostra spiaggia,/la sabbia, che con noi l’attraversò di volo,/l’erica rugginosa lassù,/tra cui ci accadde il mondo.” [P. Celan]
giovedì 8 maggio 2014
Buon sangue.Non Mente
Dopo aver "attraversato" l'ultimo libro di Valerio Magrelli (Il sangue amaro, Einaudi 2014) sono arrivato qua.
Oggi noi chiamiamo
tecnica,
quella che i Greci chiamavano arte
e riteniamo che essa identifichi l’insieme degli strumenti utili a
svolgere una data attività. Ma è un errore: questa è la
tecnologia. La tecnica è, secondo una felice intuizione di
G. Ungaretti [1]
“...un’impresa
sorta dalla memoria [...] ...il risultato di una catena temporale di
sforzi coordinati... necessari a porre ordine in una materia caotica.
La tecnica è cioè un metro, una misura intrinseca alla memoria; è
un ritmo...”
una regolarità in
grado di marcare, preservare e tramandare una Identità.
Quando diventa necessario marcare una
identità e salvaguardare una memoria si ricorre al ritmo.
La téchne,
quindi l’arte, nasce dalla
memoria.
Come non essere d’accordo con
questa ispirata intuizione!
La tecnica astronomica nasce
dalla memoria del cielo, dalla regolarità del moto dei pianeti e dei
cerchi intorno alla stella polare. E dalle stagioni che si succedono
a un ritmo prestabilito nasce la tecnica agricola che è memoria
della terra. La tecnica sportiva e ogni danza rituale, emerge dalla
ripetizione del gesto, dalla recita dei passi. La tecnica poetica
nasce dallo scorrere regolare (in greco reo,
da cui ritmo e rima) delle parole che è memoria in sé.
Allo stesso tempo
però la tecnica è sempre stata vista come un artificio, un trucco e
quindi come tale una potenziale minaccia per l’ Identità. Tale
cosa vien ben espressa da questo brano di Chuang-tzu [2]:
“...Se uno
utilizza macchine, allora compie macchinalmente tutti i suoi atti;
chi compie macchinalmente tutti i suoi atti, ha alla fine un cuore di
macchina; ma se uno ha un cuore di macchina nel petto, perde la pura
semplicità; uno che abbia perso la pura semplicità, diviene incerto
nei moti del suo spirito...”,
diventa incerto
della sua identità.
E infatti Ungaretti [1] espande la sua precedente intuizione
fino a farne una profezia: la tecnica seppure sorta dalla memoria:
“... è allo
stesso tempo in antinomia” con essa.
La tecnica quale
artificio (la tecnologia),
è minaccia per
la memoria.
Non è
un caso infatti che la tecnica venga percepita anche come prodromo
della distruzione e della scomparsa di un mondo precedente, cioè di
una identità e una memoria. E’ stato così con la televisione che
doveva uccidere la radio e il cinema; con il web che a sua volta
avrebbe dovuto uccidere la televisione e che dire dell’ e-book
bibliofago sterminatore della carta stampata e del subdolo blog,
dell’insinuante cinguettio killers designati della frase fatta e
compiuta.
Lo stesso passaggio
dalla parola orale a quella scritta è stato visto come una minaccia
alla memoria e all’identità perché impresa che nasce per
la memoria e non da
essa. Basta rileggere il seguente brano dal Fedro di Platone [3]:
“[...]
Socrate – Ho
sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dèi
del paese, il dio...di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei
numeri, [d]
del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del
gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere
dell’alfabeto. Re dell’intiero paese era a quel tempo Thamus, che
abitava nella grande città dell’Alto Egitto che i Greci chiamano
Tebe egiziana e il cui dio è Ammone. Theuth venne presso il re, gli
rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano esser diffuse presso
tutti gli Egiziani. Il re di ciascuna gli chiedeva quale utilità
comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che
gli sembrava [e]
negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte,
dice la storia, Thamus aveva molti argomenti da dire a Theuth sia
contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli. Quando giunsero
all’alfabeto: “Questa scienza, o re – disse Theuth – renderà
gli Egiziani piú sapienti e arricchirà la loro memoria perché
questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria”. E il
re rispose: “O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza
creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno
e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E cosí ora
tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei [275 a]
inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché
esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi
cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto
richiameranno le cose alla mente non piú dall’interno di se
stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai
trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla
mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo
l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di
molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi,
mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà [b]
una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che
sapienti...”.
In questo passaggio
dalla parola orale a quella scritta -da una tecnica ad un’altra, da
un’ Età all’altra- come nel passaggio da un padre a un figlio e
da una Identità ad un’altra, diventa importante costruire e
contare sulla struttura di un buon ponte. Un ponte fisico, genetico,
culturale, spirituale che ci permetta di tenere unite due sponde e
poter trasportare quello che abbiamo ammassato (anche in modo
frammentario e disordinato) su una sponda – l’arte, la scienza,
la memoria, l’identità e gli altri pezzi del puzzle...di
un mondo organico, vivente...-
sull’altra sponda.
Quale p o n t
e può aiutarci nell’attraversamento? E chi sarà così attento da
predisporre le giuste pile
per reggere saldamente un’anima piena
fino ai reni dell’arco
e alle spalle
sull’argine? Chi ne sarà il collaudatore che certificherà e
garantirà l’accesso agevole e sicuro all’altra sponda per tutti
noi?
Il p o e t a più di
tutti gli uomini, come il p o n t e più di tutte le costruzioni “...
è il tenutario, lo spettatore del
teatro di un io contingente...” [4],
è quello che sorregge le identità
effimere, le biografie che passano da una sponda ad un’altra.
“...tutti i poeti sono erranti...“
come tutti i ponti non sono abitabili se non da ....erranti!
Queste considerazioni di Maria Calandrone si riferiscono a un
poeta/ponte e alla sua ultima raccolta/costruzione: Il
sangue amaro di Valerio Magrelli [5] .
La Calandrone dice
espressamente che sta parlando di un poeta/ponte [4] :
“...quando
abbiamo ormai attraversato l’intero libro.... a un passo dalla
chiusa...” o, potremmo dire,
dall’altra parte del ponte, “...Magrelli
si scaglia contro l’Io...” cioè
quell’ansiosa identità di “....bradi
animali umani che circolano continuamente tra dentro e fuori...”
.
Ci pare di vederli
gli erranti dell’Età dell’Ansia in cerca di un guado o magari
di un ponte nuovo, un piccolo ponte con pile
binate- che sono da preferire per
estetica e trasparenza agli altri tipi di pile- con un appoggio
razionale sotto le anime.
(Indifferentemente si potrebbe parlare di pile binate dei versi per
via della loro estetica e trasparenza così come anche dell’appoggio
razionale su cui le anime dei versi s’ergono e si reggono!)
Il Poeta/Ponte
Magrelli si
costruisce in questa raccolta per
trasportarci sull’altra sponda e consegnarci alla nostra nuova
Identità di uomini sfiniti dall' estenuante e interminabile Età
dell’Ansia, disillusi dall’Età della Tecnica e
smemorati/smarriti di fronte all’Età della Tecnologia.
Natale, credo,
scada il bollino blu/del motorino, il canone URAR TV,/poi l’ICI e
in più il secondo/acconto IRPEF-o era INRI?
Nessuna arte
potrà mai nascere da questo rumore di
acronimi moderni fatti per
la memoria; meri artifizi che impongono una sorta di carpe
diem allo scadenzario delle ansietà
moderne. Come diventa evocativo e ritmico quell’INRI
posto alla fine della prima quartina! ( Alla fine di una
crocefissione?)
La password, il
codice utente, PIN e PUK /sono le nostre dolcissime metastasi./Ciò è
bene, perché io amo i contributi,/l’anestesia, l’anagrafe
telematica,/
Senza renderci conto
veniamo invasi, minacciati da tutto ciò che dovrebbe aiutare la
nostra identificazione: i pin, i puk, le userid, le password, le
loro scadenze e successive riproposizioni, diventano i nostri codici
a sbarre
per definirci per ricordare e ricordarci.
Italo Calvino sostiene [6]
che due
“...sono le
condizioni necessarie dell’identità: [la] prima [e’] che io sia
in grado di ripetere un’esperienza, sapendo di ripeterla, per
esempio riconoscermi guardandomi allo specchio; [la] seconda [è]
che gli altri siano in grado di capire, da una volta all’altra, che
io sono sempre io...”
Oggi più che
specchiarci ci
guardiamo e vogliamo essere guardati; su uno schermo, quello di uno
smartphone, quello di un notebook. Lì su quella “bacheca”, su
quello specchio cinematografico, lasciamo da una volta all’altra,
da un istante all’altro (senza più nessuna attenzione al ritmo e a
una regola/ regolarità) il nostro cambiamento.
Per svolgere le nostre attività non
abbiamo più bisogno di ritmo ma di istante,
non di tecnica ma dell’uso veloce di strumenti, di tecnologia
dunque. La tecnica è stata arte perché impresa sorta dalla
memoria ma l’artificio per
la memoria -la tecnologia- è lì per sostituire al ritmo l’istante
con la conseguente perdita di identità:
ma sento che
qualcosa è andato perso/e insieme che il dolore mi è rimasto/mentre
mi prende acuta nostalgia/per una forma di vita estinta: la mia.
Magrelli con sangue
amaro porta a termine questo viaggio
verso l’ Identità dell’Uomo dell’Età post- tecnologica e lo
fa dopo due tappe importanti nelle quali ha seguito ( ha osservato)
l’evoluzione dell’Identità che , prima, nei Disturbi
del sistema binario [7], cerca di
emergere tra coppie concettuali ed emotive dialettiche e contrapposte
( a volte irriducibili come la famosa anatra-lepre di Wittgenstein);
successivamente, nella Geologia di un
padre [8] viene ricercata, l'identità,
scientificamente, scavando nel profondo, quasi si trattasse di
un’impronta fossile, un segno indelebile che ci precede e ci
segue per definirci in ogni istante intermedio.
Il sangue amaro
è la fine di questo processo analitico e psicoanalitico, di questa
impresa sorta dalla memoria collettiva ed individuale che
(ri)-conduce ad un identità primitiva: l’Uomo ama rievocare se
stesso e la propria origine perché sente la mancanza di sé.
Cosa è quella
cicatrice della figlia [5]
...che una sua
compagna/tracciò sopra la guancia...
se non una
rievocazione?
Perché la
guardo? Solo per ripetermi che il Tempo/lì è trascorso, affidando
il saluto ad un’unghiata.
Quel segno fortuito
è il contraltare dei “tatuaggi” di Facebook, dei “piercing”
di Twitter di quei segni per la memoria che le tecnologie impongono
quale affermazione di una Identità: un segno dalla
vita contro i segni per
la vita.
Non è primitivismo questo?
Come è importante
che il Tempo trascorra con un suo ritmo! E invece, oggi, l’ansia e
la tecnica erodono e demoliscono tutto ciò che precede e segue.
Hanno creato aritmie temporali, linguistiche, emotive per concentrare
tutto nell'/sull'/all’istante senza più riguardo per il passato e
futuro. Come dice Jonathan Franzen [9]:
“...siamo ormai
abitanti di un epoca che ha perso la propensione a essere
posterità...i tecnici hanno demolito il ponte e il futuro è ciò
che segue automaticamente....ci troviamo a passare la maggior parte
del nostro tempo a mandare SMS, e-mail, tweet ...Ci dicono che per
rimanere competitivi [in tutti i sensi] dobbiamo dimenticare le
discipline umanistiche e insegnare ai nostri figli “la passione”
per le tecnologie digitali ...ma [non abbiamo capito] che se due più
due fa davvero quattro, questo è dovuto al fatto che Goethe ha
scritto la poesia Bonaccia....”
E Magrelli nel
recupero di un' Identità psicoanalizzata e nanotecnologica non
trova di meglio che rintracciare nel primitivismo [5] questo
possibile ennesimo approdo di sé.
Ponti/poeti
I ponti! Quanti
ponti nella storia, ancora in costruzione o già in rovina!/Davanti
al loro gesto connettivo, davanti al loro amore pontificale,/ripenso
ai tanti riti celebrati in tanti luoghi di passaggio e guado./Per
Ellade, nel ponte a Finisterre, fu sepolto un bambino, mentre Pont
d’Os,/situato nella Loira, sorgerebbe sui resti di invasori
sconfitti/e trasformati in fondamenta. Tali efferate pratiche
miravano/a fare delle vittime anticorpi, segreti spiriti protettori
dell’opera./Vennero poi liturgie meno brutali, per addomesticare
questa pena./Così, ad esempio, nell’antica Roma, prima di
fabbricare un nuovo ponte,/le vergini Vestali gettavano nell’acqua
bamboline di giunco/(si tratta del medesimo sistema che Eliade scorse
nel brahmanesimo,/con l’impiego di effigi o figure di pane, invece
di creature sacrificali).
Nella sua impresa
autoreferenziale di
farsi ponte per rievocarsi ed attraversarsi, Magrelli è consapevole
che a scrivere, a costruire il ponte, è lui in quanto esemplare di
uno sciame di [6]
“...bianchi
eurocentrici consumisti petrolifagi e alfabetiferi...”
con le fondamenta
delle identità ben piantate in una colonia di cromosomi affini
che abitano le nostre cellule e che sentono una solidarietà e
comunanza tra loro mentre un rapporto di aggressività esiste tra
cromosomi avversi.
L’Età dell’Ansia è congenita
La nostra
individualità è attraversata da una continuità genetica che si
frantuma e miscela incessantemente secondo stratificazioni
“geologiche” che hanno radici sia nella casalinga
nascita di un nuovo individuo che nel profondo big-bang spazio
temporale. L’Età della Tecnica è congenita.
E allora per non
scoraggiarci nella vana ricerca di un nuovo IO non possiamo che fare
questo passaggio a un neoprimitivismo post-tecnologico : nella Età
della Tecnologia dove qualunque ritmo è minacciato dalla presenza
dell’istante l’unica sponda
raggiungibile è la Natura, vale a dire recuperare il
sentire di una popolazione dell’Alto
Volta che nella persona umana distingue nove componenti [6] :
“...1) il corpo
che si riceve dalla madre, 2) il sangue [amaro?],
che si riceve dal padre, 3) l’ombra che il corpo proietta, 4)
calore e sudore, 5) il respiro, 6) la vita, o meglio una particela
della vita, che è un’entità in cui tutti gli esseri viventi sono
immersi, 7) il pensiero, suddiviso in intendimento e coscienza, 8) il
doppio, che è la parte immortale , che può compiere e subire le
stregonerie ( si stacca dal corpo ogni notte per vagare nei sogni, e
poi definitivamente qualche anno prima della morte per andare nel
villaggio dei morti dove avrà altre due vite e altre due morti da
morto e finalmente si incarnerà in un albero), 9) il destino
individuale...”
Se
Tutto si tiene è perché i poeti, come i ponti, tengono le sponde:
erti sulle loro pile reggono l’anima, riempiono il vuoto e
alleviano il passaggio.
Se tutto dovesse
andar bene,
ma veramente bene, senza incidenti o crolli,
infine arriverà la tremarella.
Vedo amici più anziani che
vibrano
il mento scosso, le mani inarrestabili.
Parliamo allora di questo movimento,
un vento che soffia da
dentro
per scuotere le foglie delle dita
e non si ferma più.
E’ questo stormire
neurologico
di fronde che dunque mi attende
se tutto, proprio tutto, dovesse andare bene.
E mi tramuterò in una betulla
o in
un cipresso sul bordo del fiume,
con quel tremore di luci
alzate dalla brezza.
Mi farò soffio, mi farò
soffiare,
panno lasciato al sole ad asciugare.
Riferimenti
[1]-G. Ungaretti,
lettera scritta a Leonardo Sinisgalli per il primo numero di Civiltà
delle Macchine, Gennaio 1953;
[2]-Chuang-tzu, Zhuang-zi,
Biblioteca Adelphi 1982, 5ª ediz.;
[3]-Platone, Fedro
Piccola Biblioteca Einaudi-Classici 2011;
[4]-M. Calandrone,
Poesia
Aprile 2014 N° 292;
[5]-V. Magrelli,
Il sangue amaro, Einaudi 2014;
[6]- I. Calvino, Civiltà
delle macchine, XXV, 1977;
[7]-V. Magrelli, Disturbi
del sistema binario, Einaudi, 2006;
[8]-V. Magrelli, Geologia
di un padre Einaudi,2013;
[9]-J.Franzen, Internazionale,
n°1022, 2013 ;
sabato 3 maggio 2014
Il vaso rosa
La copertina di Internazionale, oggi in edicola, è dedicata al Presidente Uruguayano José "Pepe" Mujica.
Ne approfitto per riproporre un mio vecchio Post delle Fragole su questo grande uomo.
Oggi so solo che non ha senso
sacrificare una generazione
promettendo la felicità
per quella successiva
[José Mujica]
Un tempo si imparavano le poesie a memoria anche solo per allenare il “muscolo” della memoria. Oggi leggere una poesia - attività sempre più rara - significa ritrovare una memoria di tempi (ed emozioni) dimenticati e questo significato è tanto più vero per la poesia ispanoamericana. Se, in una sorta di approccio antropologico, dovessimo tornare ancora più indietro, agli albori, cioè, del canto poetico, non potremmo che constatare un fatto: la Poesia era lo strumento per ricordare. Si potrebbe citare il caso delle Tavole di Gortina sull’isola di Creta, delle leggi cioè che venivano “cantate” dalla popolazione per ricordare al corpo sociale della comunità quale fosse il diritto di ognuno (anche se, trattandosi di Greci, meglio sarebbe parlare di “giustizia equa” piuttosto che di “diritto”) e quale il dovere. Potremmo continuare ancora con l’Iliade in cui sono descritte poeticamente e, per questo, più facili da imparare e ricordare, le istruzioni per ormeggiare una nave o salpare da un porto. E così via. Ma senza andare troppo lontano e consentendomi una digressione personale si potrebbe ricorrere a questi due esempi. Ho conservato nella mia memoria cinquantenne due brani poetici che hanno a che fare con le api: il primo è una filastrocca di A. Gentili [1] intitolata appunto L’Ape che ho imparato nei primi anni della scuola elementare; la seconda è una strofa di una poesia di F. Garcia Lorca intitolata Gli incontri di una lumaca avventurosa [2]. La prima poesia, con piccole varianti, recita così (a memoria):
C’era un’ape piccolina, dentro un fiore stamattina,
Che suggeva che suggeva mentre il sole risplendeva
Poi l’ho vista via volare fino al suo bell’alveare
L’ho sentita che ronzava forse il miele fabbricava
Quel bel miele dolce e biondo che ai bambini piace un mondo
Ancora oggi mi meraviglio del fatto che questa sia una delle poche poesie che mi sia rimasta infissa nella memoria e mi chiedo <perché proprio questa? Per il ritmo?Le rime? L'argomento?>. Sicuramente anche per questo, ma prima di tutto perché il fine ultimo di questa poesia, quando la imparai, era solo ed sclusivamente quello di esercitare la memoria. Allora, all’età di 7-8 anni non potevo preoccuparmi o intendermi di ritmo e rima ma di sicuro avevo visto volare e sentito ronzare un’ape e di sicuro avevo assaggiato del miele. Quella poesia, quindi, senza alcuna ambiguità, “mi” ricordava e serviva a ricordare e ancora oggi mi ricorda e serve a ricordarmi bambino.
Nel tempo in cui imparavo la poesia a memoria, nel tempo in cui l’Uomo riteneva utile farlo, non si soffriva, per dirla con Einstein [3], <il problema dell'ambiguità dei fini>. Detto in altri termini: per quanto i mezzi possano essere o sembrare perfetti – basti pensare ai devices digitali a disposizione per r(e)icordare qualunque cosa- a nulla valgono se i fini restano ambigui. E il fine della poesia non è ambiguo in quanto è il suo mezzo.
La poesia non pretende nulla : ...non è un filtro delle cose/né un raro sortilegio né un consiglio preciso/non è costretta a dare un messaggio profondo/né a strappare all’oblio le parole superflue/.../tutto ciò che non è riempie una lunga lista/.../invece ciò che è incide il suo segno/...[4] e predispone a un nuovo paesaggio. Inventa la realtà e un nuovo modo di vederla.
Anche una semplice filastrocca come una preghiera o un mantra, senza pretendere null’altro che la ripetizione, può modificare e modificarci.
L’altro brano che ricordo a memoria e che, per così dire, mi ha inciso profondamente nella sua ripetizione lungo il corso degli anni è, come anticipato, questo piccolo, prezioso frammento di Garcia Lorca [2]:
Per l’aria dolce
è volata un’ape.
La formica agonizzante
avverte la sera immensa
e dice :
<Ecco chi viene a portarmi su una stella!>
Quindi la Poesia non serve soltanto a ricordare (senza costringerci a farlo) che le “api fanno il miele”- basta ripetere tante volte la filastrocca di prima ed è fatta- ma ci porta anche a destinazione e, nello stesso modo di prima, lo fa senza alcuna costrizione e senza indicarci una strada ma lasciandoci liberi di guardare il paesaggio e di percorrerla alla velocità che desideriamo.
La Poesia dunque è ricerca e contemporanea scoperta di un luogo da chiamare casa : alla fine del sentiero, sia procedendo lentamente come il caracol, la lumaca di Lorca, o più speditamente come formiche o ancora volando come api, “qualcosa” ci condurrà a casa.
Sembrerà strano ma quel “qualcosa” potrebbe essere un oggetto inaspettato come ad esempio un vasino rosa, si, proprio il nostro vasino nel quale da bambini ci accomodavamo per fare la pipì mentre ripetevamo una cantilena.
Parte II : la Memoria della Poesia
Ci sono cose che non vanno dimenticate e la Poesia più di qualunque altra cosa ce le ricorda.
In un tempo in cui non impariamo più nulla a memoria perché tutto sembra essere a nostra disposizione (nel video di un cellulare, nell’hard disk di un personal computer), la Poesia può aiutarci a trovare la memoria di tempi dimenticati perché, come detto e dimostrato, mezzi e fini, strada e casa sono, per lei, interscambiabili se non sovrapponibili.
Forse è nella poesia ispanoamericana che si tocca l’apice di questa sovrapponibilità dei ruoli dove anche la parola, la struttura semica dei versi trasmette l’essenza vivida del significato e del significante.
Anche “il viaggio avventuroso della lumaca” di Lorca o, come vedremo più avanti, una poesia d’amore del poeta uruguayano Mario Benedetti, racchiudono ed esauriscono l’identità di Paesi costruiti attraverso la lotta contro la dittatura, contro la violazione dei diritti umani e che portanto, quindi, all’interno della loro modernità i segni delle ingiustizie subite, della privazione di libertà, dell’esilio non solo da una terra ma dalla stessa anima comune , dall’umanità.
Si può sfuggire a una dittatura allontanandosi “volontariamente” dalla propria terra come fu costretto a fare Mario Benedetti che lasciò l’Uruguay per rifugiarsi tra Cuba, Perù, Messico e Spagna, oppure le si può sfuggire come farebbe una lumaca: senza correre e quindi, se catturata, senza incolpare di questo chi è stato più veloce di lei.
José <Pepe> Mujica “sfuggì” alla dittatura facendosi catturare, torturare e imprigionare per 14 anni nella prigione di Punta Carretas di Montevideo. Un uomo non avrebbe potuto sopravvivere in fondo ai pozzi di isolamento di quella prigione ma una lumaca si.
Per sfuggire alla dittatura, per venire fuori da quel pozzo buio, senz’acqua, senz’aria e quasi senza vita dove le ossa friggevano ancora per le botte ricevute, il cervello cedeva al più naturale dei pensieri, i polmoni e il cuore all’inutilità del respiro successivo e di un altro battito e i reni, i reni si prosciugavano in un corpo ormai deserto, per uscire fuori da lì, bisognava costruirsi una tattica ed una strategia.
Quale può essere una buona tattica per un uomo costretto e dimenticato in fondo ad un pozzo, senza niente? Una buona tattica potrebbe essere ad esempio quella di “avventurarsi lungo il sentiero per vederne la fine”; fermarsi a parlare con le formiche e i ragni di giorno e i grilli e le rane di notte; una buona tattica potrebbe essere ancora quella di scegliere tra follia e compassione, tra un esilio definitivo da sè e la comprensione di tutto e tutti anche di coloro che ti hanno precipitato in fondo al pozzo perchè anche loro come te, in fondo, sono stati esiliati da un’anima comune e sono vittime della follia; una buona tattica potrebbe essere quella di imparare a memoria e ripetere filastrocche, cantilene, poesie, preghiere e soprattutto quella di bere ogni giorno, ogni santo giorno, quello che il tuo corpo riesce a produrre, raccoglierlo come il bene più prezioso nello stesso vasino che usavi da bambino, uno di quei vasini rosa che si tenevano sotto al letto per non avventurarsi da soli al freddo e al buio nel gabinetto fuori dalla casa.
E la strategia?
La strategia non può che essere una, profonda e semplice più che mai: credere che un giorno qualunque, non si sa come, né si sa con quale scusa, qualcuno avrà bisogno di te.
E quel giorno per fortuna è arrivato: il giorno in cui tutti noi abbiamo avuto bisogno di Pepe Mujica!
Quando nel 1985 finisce la dittatura militare in Uruguay, Mujica lascia il pozzo con in mano il suo vasino rosa pieno di margherite : come la lumaca avventurosa, dopo aver visitato la fine del sentiero, torna nella sua casetta a mezz’ora di distanza da Montevideo e comincia a coltivare gladioli. In una casetta simile vive ancora oggi, da Presidente dell’Uruguay, insieme alla sua compagna di sempre , a una cagnetta con tre zampe e, potete giurarci, con un vasino rosa sotto al letto.
Oggi la prigione di Punta Carretas non esiste più. Al suo posto c’è il centro commerciale di Punta Carretas e per il pensiero purificato di Mujica probabilmente anche coloro che sono “imprigionati” dalla civiltà dei consumi e dalla dittatura del mercato avrebbero bisogno di una tattica e di una strategia per venire fuori da questo “pozzo”.
Per questo vale la pena rileggere questa poesia di Mario Benedetti [5], per ritrovare, cioè, una memoria comune che possa aiutarci ad inventare ed inventarci una realtà più sobria. Se con niente - un semplice vasino rosa o una poesia recitata a memoria - si può essere stati felici dentro ad un pozzo, c’è da credere, che si può continuare ad esserlo con molto poco anche fuori.
Tattica e strategia
La mia tattica è
guardarti
imparare come sei
amarti come sei
l a mia tattica è
parlarti
e ascoltarti
costruire con le parole
un ponte indistruttibile
la mia tattica è
fermarmi
nel tuo ricordo
non so come né so
con quale scusa
ma rimanere in te
la mia tattica
è
essere onesto
e sapere che tu sei onesta
e che non ci vendiamo
simulacri
affinché tra noi due
non ci sia un sipario
né abissi
la mia strategia
invece è
più profonda e più
semplice
la mia strategia
è
che un giorno qualunque
non so come né so
con quale scusa
avrai bisogno di me.
Riferimenti
[1]-A. Gentili L’Ape
[2]-F.G. Lorca Tutte le poesie Garzanti (2001)
[3]-A. Einstein : “I problemi dell’umanità non sono legati alla imperfezione dei mezzi ma all’ambiguità dei fini.”
[4]-M. Benedetti Poesía (1979)
[5]-M. Benedetti Inventario, Poesie 1948-2000 a cura di M.L. Canfield , Firenze (2001)
Oggi so solo che non ha senso
sacrificare una generazione
promettendo la felicità
per quella successiva
[José Mujica]
Parte
I : la Poesia della Memoria
Un tempo si imparavano le poesie a memoria anche solo per allenare il “muscolo” della memoria. Oggi leggere una poesia - attività sempre più rara - significa ritrovare una memoria di tempi (ed emozioni) dimenticati e questo significato è tanto più vero per la poesia ispanoamericana. Se, in una sorta di approccio antropologico, dovessimo tornare ancora più indietro, agli albori, cioè, del canto poetico, non potremmo che constatare un fatto: la Poesia era lo strumento per ricordare. Si potrebbe citare il caso delle Tavole di Gortina sull’isola di Creta, delle leggi cioè che venivano “cantate” dalla popolazione per ricordare al corpo sociale della comunità quale fosse il diritto di ognuno (anche se, trattandosi di Greci, meglio sarebbe parlare di “giustizia equa” piuttosto che di “diritto”) e quale il dovere. Potremmo continuare ancora con l’Iliade in cui sono descritte poeticamente e, per questo, più facili da imparare e ricordare, le istruzioni per ormeggiare una nave o salpare da un porto. E così via. Ma senza andare troppo lontano e consentendomi una digressione personale si potrebbe ricorrere a questi due esempi. Ho conservato nella mia memoria cinquantenne due brani poetici che hanno a che fare con le api: il primo è una filastrocca di A. Gentili [1] intitolata appunto L’Ape che ho imparato nei primi anni della scuola elementare; la seconda è una strofa di una poesia di F. Garcia Lorca intitolata Gli incontri di una lumaca avventurosa [2]. La prima poesia, con piccole varianti, recita così (a memoria):
C’era un’ape piccolina, dentro un fiore stamattina,
Che suggeva che suggeva mentre il sole risplendeva
Poi l’ho vista via volare fino al suo bell’alveare
L’ho sentita che ronzava forse il miele fabbricava
Quel bel miele dolce e biondo che ai bambini piace un mondo
Ancora oggi mi meraviglio del fatto che questa sia una delle poche poesie che mi sia rimasta infissa nella memoria e mi chiedo <perché proprio questa? Per il ritmo?Le rime? L'argomento?
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