Gregory Corso parlando degli anni di carcere , scrisse [1]: “A volte l’inferno è un buon posto – se serve a dimostrare che esistendo quello, deve esistere anche il suo contrario, il paradiso. E cos’era questo paradiso? La Poesia.”
Il Paradiso. La Poesia.
Un poeta come Gregory corso sapeva bene che nessuno può dire propriamente il proprio pensiero e questa è, in generale, la ragione per cui ciascun poeta dà molto spazio all’immaginazione in modo che chi legge possa partecipare alla poiein (al fare, al creare) e quindi lasciarsi travolgere nella spirale della Poesia.
La Poesia infatti non emerge dai dati di fatto, dall’inchiostro usato per scrivere, dalle parole così ben allineate e scandite nel loro ritmo, dal fruscio del libro e dallo scorrere degli occhi sulla pagina. La Poesia è l’unica cosa che non può emergere perché non ha nulla in comune con la genesi ma sta nel fiume del divenire come un vortice e trascina nel ritmo suo proprio il materiale genetico della nascita.
Se infatti supponiamo che qualcosa cominci assolutamente ad esistere, dobbiamo stabilire un istante in cui “prima” non esisteva e questo istante può essere riferito solo a ciò che esiste già, cioè a qualcosa che è già “dopo” quel prima. Detto in altri termini l’inizio di qualunque cosa nel nostro mondo non può stare in absolutus cioè sciolto da ogni altra cosa: per potersi porre come inizio, esso esige una condizione. Quello che la scienza (e lo scienziato) fa è solo far coincidere l’inizio con la condizione: tempo e velocità iniziali, temperatura e pressione, una distribuzione di probabilità. La Poesia (e quindi il poeta) questo no lo fa, non prende cioè a testimonianza della sua verità il mondo stesso e i suoi fatti ma, per così dire, si adegua ad essi come farebbe l’Angelus Novus di Walter Benjamin [2],
“...quell’angelo che sembra in procinto di staccarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo...”. Ha la bocca aperta: canta dunque. Ha gli occhi spalancati: vede quindi. “...Le sue ali possono distendersi per volare in alto. Ha il viso rivolto al passato...”, a qualunque passato, quello dell’ universo, del cielo, della terra, dell’uomo. Della parola e anche al “prima” di tutto questo. “...Dove noi vediamo una catena di eventi”, lui vede una sola apocalisse che accumula frammenti su frammenti come ci dice bene Zbiniegw Herbert [3]:
Breviario
Signore,
Ti rendo grazie per tutta questa cianfrusaglia del-
la vita, in cui annego senza scampo dai tempi im-
memorabili, mortalmente assorto nella continua
ricerca di minuzie.
Sii lodato per avermi dato bottoni discreti, spilli,
bretelle, occhiali, rivoli di inchiostro,fogli di carta
sempre pronti, custodie trasparenti, cartelle pa-
zienti in attesa.
Signore, Ti rendo grazie per le siringhe con l’ago
spesso o fine come un capello, per le bende, per
ogni tipo di cerotto, per l’umile impacco, grazie
per la flebo, i sali minerali, le cannule, e soprattut-
to per le pasticche di sonnifero dai melodiosi no-
mi di ninfe romane,
che sono buone perché chiamano, ricordano, sos-
tituiscono la morte.
Il poeta-angelo “...si affretta allora a chiudere le ali per non essere soffiato via dalla tempesta che spira dal Paradiso per ricomporre l’infranto e arrivare salvo nel futuro a cui lui volta le spalle.”
E nel futuro, inutile dirlo, c’è quella cosa lì. La morte ma anche il Paradiso.
Mi permetto un'autocitazione[4] (è la prima volta che lo faccio su questo blog):
Il poeta
le lenzuola sono
volate via
oltre il filo che
le reggeva
nel blu turchese
all’arcobaleno
appese
non è mai veramente
quieta
la quiete dopo
la tempesta
l’aria è ancora
carica
e la corrente
veloce scorre
dai rami
elettrica
ai fili d’erba
fuori c’è chi corre
ad afferrare
ciò che resta
bianco
prima che tocchi
terra
Ma cosa è veramente questo vento se non lo sregolamento di tutti i sensi di cui parla Rimbaud nella sua lettera del veggente?[5]
E non è forse questo lo stesso vento che spira e s’impiglia tra le ali dell’Angelo di Benjamin?[2]
“...Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui nel cielo. Ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta.”
Sì, forse questa tempesta che spira dal paradiso è la stessa tempesta che sconvolge l’Angelo di Benjamin e quindi, chiedendo scusa per l’eresìa, il Progresso non può che essere Poesia.
Riferimenti
[1] – Dalla Introduzione di G. Menarini su Gregory Corso-Poesie, Bompiani (1978)
[2] – W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi (1995)
[3] – Z. Herbert, L’epilogo della tempesta, Adelphi (2016)
[4] – G. Ferrara, inedito
[5] – A. Rimbaud, La Lettera del Veggente a Paul Demeny a Douai (Charleville, 15 maggio 1871)
giovedì 15 dicembre 2016
venerdì 28 ottobre 2016
La Casa sull'Albero
C’è una poesia di Kathleen Jamie che mi fa sentire a casa, una casa grande e accogliente molto più grande di quanto si possa immaginare. Una casa che confina a sud con la Lucania e a Nord con la Scozia. Non è propriamente La casa sull’albero ( questo è il titolo della raccolta di poesie scelte curata da Giorgia Sensi) [1] che desideravamo avere da bambini, ma provoca le stesse sensazioni di allora e ne riproduce lo stesso senso di conforto e protezione.
Questa poesia della poetessa scozzese, nella ri-creazione -così come dovrebbe intendersi la traduzione-di Giorgia Sensi è Glaciale (pg.151)
Una scarpinata di trecento metri, poi un cumulo di vecchie pietre-/un lavoro manuale,/e sempre lo stesso fiume, che scintillava/laggiù/quando i Romani vennero, videro,/e ben presto ci ripensarono.//Troppe montagne, troppe/tribù minacciose/le cui abitudini non ci garberebbero granché/(ma che forse riusciremmo a uguagliare)/troppo grigiore nordico, troppa neve in lontananza.//Su, facciamo una sosta qui, riprendiamo fiato/e inaliamo quel dolce profumo di ginestra/che è in fiore oggi//guardiamo laggiù in fondo per miglia, da ora/e fino a che non ritornerà la lince, e il lupo.
Perché mi fa sentire a casa (e, credo, che riesca a far sentire a casa tutti noi europei)? Prima di tutto perché attinge ad una nostra storia comune risalente, è vero, ai tempi dei Romani ma, che lo si voglia o meno, una Nostra Comune Storia. In secondo luogo ci fa sentire a casa perché mostra paesaggi e territori familiari e riconoscibili da tutti. Ci mostra cioè “casa nostra”.
I Romani sono arrivati fino qui in Scozia, fino qui in Lucania. Hanno costruito strade per raggiungere questi luoghi, strade che ancora oggi percorriamo e che portano nomi familiari per tutti gli europei (via Claudia, Via Augusta,via Appia, via Devana e il Vallo di Adriano).
Su queste strade hanno marciato i soldati di Cesare. È d’obbligo a questo punto ricordare [2] il verso di quindici sillabe che i latini usavano per i canti militari, a margine della loro scansione con le brevi e le lunghe. Nel passaggio dal latino al francese e alle altre lingue latine è successo che quelle 15 sillabe si sono ridotte a 14, a 12 e poi a undici. Cioè l’alessandrino francese e i versi che ne derivano, fino all’endecasillabo, non fanno che ripetere il rumore dei passi delle legioni romane.
E forse questa è un’altra e più calzante ragione, radicata nel ritmo della storia, per la quale questa poesia mi fa sentire a casa : A thousand-foot slog, then a cairn of old stones-
Ma tutta la poesia con quelle immagini vivide del cumulo di vecchie pietre, le troppe montagne, le tribù minacciose, la troppa neve là in lontananza, il profumo di ginestra e, per finire il lupo, mi suggerisce un luogo d’origine riconoscibilissimo : "Ma qui- mi sono detto-si parla della mia terra, della Lucania!". Sono quindi salito su questa casa sull’albero, mi sono accomodato e le sorprese non sono finite.
Kathleen Jamie non parla solo al nostro passato, alla nostra storia e alla nostra geografia ma anche alla nostra scienza e al nostro futuro: quando le parole nel mondo e, viceversa, il mondo nelle parole risuonano così tanto, ciò che in realtà vibra è la Poesia:
...Certo, fu avventato, un loch così grande, la marea,/ma siamo vivi – e abbiamo perfino fatto figli/con donne e uomini non ancora incontrati/quella notte che uscimmo, e reclamammo come nostri/il cielo e l’acqua salmastra, i colli feriti/che i mirtilli tempestavano di nero,/le nostre cavigliere luccicanti nell’acqua bassa/mentre issavamo i remi e saltavamo giù,/per tirare la barca in secco sulla spiaggia del cottage. [da Attraversando il loch (pg.33)]
Questa è una poesia sulla paura...nucleare e su quello che l’Uomo sta facendo al Grande Loch che è la Terra (dallo spazio gli Oceani non sembrano forse grandi loch e giganteschi firth gli estuari?).
Nella frase poetica della poetessa scozzese, perfettamente riprodotta nella sua ri-creazione italiana, le sfere di risonanza si armonizzano per addizione, amplificando il campo di suggestioni come accade per esempio in Spirea a pg.67 preceduta da questo esergo: Secondo la tradizione certe poete gaeliche/venivano sepolte a faccia in giù.
Così la seppellirono, e si volsero verso casa,/un salmo uggioso/li avvolgeva come nebbia,//non sapevano che il liquido/che gocciolava dalle sue labbra/si sarebbe fatto strada là sotto,...
E nel verso un salmo uggioso li avvolgeva come nebbia, si capisce che non sempre le parole sono vive mentre la saliva e i semi impigliati nei capelli della strega-poetessa continuano, nel silenzio tombale, a vivere e a produrre ancora vita e altre parole.
Queste stesse sfere di risonanza possono anche annullarsi per lasciare un residuo di senso più preciso: per esempio nella Le lune di Galileo (pg.133) i satelliti di Giove ruotano intorno al pianeta come i figli della poetessa girano intorno alla mamma ma nessun strumento sarà in grado di rassicurare tanto gli uni che gli altri. Qualunque balletto sia esso di perline, di timidi giovani talenti, delle lunicelle di Galileo, seguirà il proprio inalterabile passaggio sulla scena.
Spesso queste due forme di armonizzazione sono simultanee: è quello che i logici chiamano il gioco di estensione e comprensione e che il Poeta, specialmente quando è un grande Poeta, gioca spontaneamente come un bambino che sale sulla casa costruita sull’albero e da lì domina l’Universo.
...-ma bacche rosse//di biancospino si tendevano verso di me,/e tra le fogli cadute/sbocciavano fiorellini bianchi/tardivi. Cercai//di chiamarti, o credo/di averlo fatto, ma il tuo nome/mi si appassì sulla lingua,/...
Potreiscomparire per una vita,/forse sette anni!-/e una joie de vivre così repentina/che quando un fosso mi si spalancò//davanti all’improvviso/lo saltai, leggera come una ragazzina-/sì, lo saltai di netto,/senza neppure pensarci su. [da Incantesimo (pg.141)]
Qui evidentemente si allude ad un’esperienza privilegiata tra l’uomo e il mondo di cui la poetessa si fa carico, istintivamente, di ravvivare: la relazione che consente di sentire prossimi e connessi elementi che la nostra quotidianità porta ad isolare e ad analizzare separatamente; la relazione che permette di superare gli ostacoli- saltare un fosso che si spalanca davanti all’improvviso- senza neppure pensarci su.
In questa poesia la Jamie riconosce e rispetta le forme primitive, meglio sarebbe dire primordiali, quelle forme cioè anteriori all’egemonia razionale, al pensiero analitico e salvate da questo strapotere per preservare integra una cosmovisione magica (lo stupore) e lasciare che le cose si manifestino senza interferenza da parte del poeta che ne sente l’ardore e se ne lascia impregnare: questi sono i princìpi estetici della tradizione poetica che discende per così dire dall’incanto magico e quindi dal potere della parola. Dal potere della Natura.
È noto che quando un bardo voleva punire un re per non aver rispettato i patti - per esempio non compensando a dovere i suoi servigi - poteva ricorrere ad un terribile rito incantatorio: dopo aver digiunato sulla terra del re, accompagnato da altri sei bardi, al sorgere del sole si sistemava insieme agli altri sotto un biancospino con un suo ramoscello e una pietra da fionda tra le mani. Insieme i 7 bardi intonavano un incantesimo sulla spina e sulla pietra. Se erano in torto la collina li inghiottiva. Ma se il loro potere magico era più forte, la terra ingoiava il re, la regina, i loro figli e i cavalli, i cani da caccia, le armi e le vesti. [3]
Se tutti noi oggi, dopo aver letto la sua Poesia, non concedessimo il giusto tributo a Kathleen Jamie, comportandoci da insolventi o indifferenti alla sua opera, potremmo rischiare di precipitare dalla casa sull’albero e sprofondare nel baratro che si aprirebbe inevitabile sotto i nostri piedi al canto di un incantesimo della makar [4] scozzese.
Prima del vento (pg.77)
Dovessi capitare su quel colle
dove crescono le ciliege selvatiche
sarà meglio sia presto, o verranno
ad attaccar briga gli uccelli dagli occhi gialli,
rivendicando i frutti per se.
Selvatiche significa noccioli a malapena
rivestiti di polpa, ma è buffo
detto da me. Una bocca
contiene una ciliegia, una ciliegia
un nocciolo, un nocciolo
il ramo in fiore
che devo trovare prima che il vento
sparpagli ogni traccia di fioritura,
e venga il frutto, e gli uccelli dagli occhi gialli.
[1] – K. Jamie, La casa sull’albero a cura di G. Sensi, Giuliano Landolfi Editore (2016)
[2] – R. Daumal, Poesia nera e poesia bianca, Castelvecchi (2014)
[3] – J. Brosse, Storie e leggende degli alberi, Edizione Studio tesi (1989)
[4] - Termine che indica poeti o bardi che spesso lavoravano alla corte dei re scozzesi.
Questa poesia della poetessa scozzese, nella ri-creazione -così come dovrebbe intendersi la traduzione-di Giorgia Sensi è Glaciale (pg.151)
Una scarpinata di trecento metri, poi un cumulo di vecchie pietre-/un lavoro manuale,/e sempre lo stesso fiume, che scintillava/laggiù/quando i Romani vennero, videro,/e ben presto ci ripensarono.//Troppe montagne, troppe/tribù minacciose/le cui abitudini non ci garberebbero granché/(ma che forse riusciremmo a uguagliare)/troppo grigiore nordico, troppa neve in lontananza.//Su, facciamo una sosta qui, riprendiamo fiato/e inaliamo quel dolce profumo di ginestra/che è in fiore oggi//guardiamo laggiù in fondo per miglia, da ora/e fino a che non ritornerà la lince, e il lupo.
Perché mi fa sentire a casa (e, credo, che riesca a far sentire a casa tutti noi europei)? Prima di tutto perché attinge ad una nostra storia comune risalente, è vero, ai tempi dei Romani ma, che lo si voglia o meno, una Nostra Comune Storia. In secondo luogo ci fa sentire a casa perché mostra paesaggi e territori familiari e riconoscibili da tutti. Ci mostra cioè “casa nostra”.
I Romani sono arrivati fino qui in Scozia, fino qui in Lucania. Hanno costruito strade per raggiungere questi luoghi, strade che ancora oggi percorriamo e che portano nomi familiari per tutti gli europei (via Claudia, Via Augusta,via Appia, via Devana e il Vallo di Adriano).
Su queste strade hanno marciato i soldati di Cesare. È d’obbligo a questo punto ricordare [2] il verso di quindici sillabe che i latini usavano per i canti militari, a margine della loro scansione con le brevi e le lunghe. Nel passaggio dal latino al francese e alle altre lingue latine è successo che quelle 15 sillabe si sono ridotte a 14, a 12 e poi a undici. Cioè l’alessandrino francese e i versi che ne derivano, fino all’endecasillabo, non fanno che ripetere il rumore dei passi delle legioni romane.
E forse questa è un’altra e più calzante ragione, radicata nel ritmo della storia, per la quale questa poesia mi fa sentire a casa : A thousand-foot slog, then a cairn of old stones-
Ma tutta la poesia con quelle immagini vivide del cumulo di vecchie pietre, le troppe montagne, le tribù minacciose, la troppa neve là in lontananza, il profumo di ginestra e, per finire il lupo, mi suggerisce un luogo d’origine riconoscibilissimo : "Ma qui- mi sono detto-si parla della mia terra, della Lucania!". Sono quindi salito su questa casa sull’albero, mi sono accomodato e le sorprese non sono finite.
Kathleen Jamie non parla solo al nostro passato, alla nostra storia e alla nostra geografia ma anche alla nostra scienza e al nostro futuro: quando le parole nel mondo e, viceversa, il mondo nelle parole risuonano così tanto, ciò che in realtà vibra è la Poesia:
...Certo, fu avventato, un loch così grande, la marea,/ma siamo vivi – e abbiamo perfino fatto figli/con donne e uomini non ancora incontrati/quella notte che uscimmo, e reclamammo come nostri/il cielo e l’acqua salmastra, i colli feriti/che i mirtilli tempestavano di nero,/le nostre cavigliere luccicanti nell’acqua bassa/mentre issavamo i remi e saltavamo giù,/per tirare la barca in secco sulla spiaggia del cottage. [da Attraversando il loch (pg.33)]
Questa è una poesia sulla paura...nucleare e su quello che l’Uomo sta facendo al Grande Loch che è la Terra (dallo spazio gli Oceani non sembrano forse grandi loch e giganteschi firth gli estuari?).
Nella frase poetica della poetessa scozzese, perfettamente riprodotta nella sua ri-creazione italiana, le sfere di risonanza si armonizzano per addizione, amplificando il campo di suggestioni come accade per esempio in Spirea a pg.67 preceduta da questo esergo: Secondo la tradizione certe poete gaeliche/venivano sepolte a faccia in giù.
Così la seppellirono, e si volsero verso casa,/un salmo uggioso/li avvolgeva come nebbia,//non sapevano che il liquido/che gocciolava dalle sue labbra/si sarebbe fatto strada là sotto,...
E nel verso un salmo uggioso li avvolgeva come nebbia, si capisce che non sempre le parole sono vive mentre la saliva e i semi impigliati nei capelli della strega-poetessa continuano, nel silenzio tombale, a vivere e a produrre ancora vita e altre parole.
Queste stesse sfere di risonanza possono anche annullarsi per lasciare un residuo di senso più preciso: per esempio nella Le lune di Galileo (pg.133) i satelliti di Giove ruotano intorno al pianeta come i figli della poetessa girano intorno alla mamma ma nessun strumento sarà in grado di rassicurare tanto gli uni che gli altri. Qualunque balletto sia esso di perline, di timidi giovani talenti, delle lunicelle di Galileo, seguirà il proprio inalterabile passaggio sulla scena.
Spesso queste due forme di armonizzazione sono simultanee: è quello che i logici chiamano il gioco di estensione e comprensione e che il Poeta, specialmente quando è un grande Poeta, gioca spontaneamente come un bambino che sale sulla casa costruita sull’albero e da lì domina l’Universo.
...-ma bacche rosse//di biancospino si tendevano verso di me,/e tra le fogli cadute/sbocciavano fiorellini bianchi/tardivi. Cercai//di chiamarti, o credo/di averlo fatto, ma il tuo nome/mi si appassì sulla lingua,/...
Potreiscomparire per una vita,/forse sette anni!-/e una joie de vivre così repentina/che quando un fosso mi si spalancò//davanti all’improvviso/lo saltai, leggera come una ragazzina-/sì, lo saltai di netto,/senza neppure pensarci su. [da Incantesimo (pg.141)]
Qui evidentemente si allude ad un’esperienza privilegiata tra l’uomo e il mondo di cui la poetessa si fa carico, istintivamente, di ravvivare: la relazione che consente di sentire prossimi e connessi elementi che la nostra quotidianità porta ad isolare e ad analizzare separatamente; la relazione che permette di superare gli ostacoli- saltare un fosso che si spalanca davanti all’improvviso- senza neppure pensarci su.
In questa poesia la Jamie riconosce e rispetta le forme primitive, meglio sarebbe dire primordiali, quelle forme cioè anteriori all’egemonia razionale, al pensiero analitico e salvate da questo strapotere per preservare integra una cosmovisione magica (lo stupore) e lasciare che le cose si manifestino senza interferenza da parte del poeta che ne sente l’ardore e se ne lascia impregnare: questi sono i princìpi estetici della tradizione poetica che discende per così dire dall’incanto magico e quindi dal potere della parola. Dal potere della Natura.
È noto che quando un bardo voleva punire un re per non aver rispettato i patti - per esempio non compensando a dovere i suoi servigi - poteva ricorrere ad un terribile rito incantatorio: dopo aver digiunato sulla terra del re, accompagnato da altri sei bardi, al sorgere del sole si sistemava insieme agli altri sotto un biancospino con un suo ramoscello e una pietra da fionda tra le mani. Insieme i 7 bardi intonavano un incantesimo sulla spina e sulla pietra. Se erano in torto la collina li inghiottiva. Ma se il loro potere magico era più forte, la terra ingoiava il re, la regina, i loro figli e i cavalli, i cani da caccia, le armi e le vesti. [3]
Se tutti noi oggi, dopo aver letto la sua Poesia, non concedessimo il giusto tributo a Kathleen Jamie, comportandoci da insolventi o indifferenti alla sua opera, potremmo rischiare di precipitare dalla casa sull’albero e sprofondare nel baratro che si aprirebbe inevitabile sotto i nostri piedi al canto di un incantesimo della makar [4] scozzese.
Prima del vento (pg.77)
Dovessi capitare su quel colle
dove crescono le ciliege selvatiche
sarà meglio sia presto, o verranno
ad attaccar briga gli uccelli dagli occhi gialli,
rivendicando i frutti per se.
Selvatiche significa noccioli a malapena
rivestiti di polpa, ma è buffo
detto da me. Una bocca
contiene una ciliegia, una ciliegia
un nocciolo, un nocciolo
il ramo in fiore
che devo trovare prima che il vento
sparpagli ogni traccia di fioritura,
e venga il frutto, e gli uccelli dagli occhi gialli.
[1] – K. Jamie, La casa sull’albero a cura di G. Sensi, Giuliano Landolfi Editore (2016)
[2] – R. Daumal, Poesia nera e poesia bianca, Castelvecchi (2014)
[3] – J. Brosse, Storie e leggende degli alberi, Edizione Studio tesi (1989)
[4] - Termine che indica poeti o bardi che spesso lavoravano alla corte dei re scozzesi.
lunedì 24 ottobre 2016
La Poesia ai tempi di Twitter
Nel romanzo di G. G. Marquez, L’amore ai tempi del colera, il protagonista ASPETTA per mezzo secolo l'unica donna che ha amato. Florentino è un impiegato telegrafista, un uomo malinconico e tranquillo appassionato di Poesia. È innamorato di Fermina, ma il padre di lei non approva l’unione e predispone il matrimonio della giovane con il ricco medico della città.
Il matrimonio di Fermina, nato senza amore, diventerà con il tempo e le avversità un rapporto solido e felice.
Florentino si butterà a capofitto nel lavoro per poter essere degno dell’amore di Fermina e inizierà una brillante carriera all’interno dell’azienda dello zio, la Compagnia Fluviale dei Caraibi.
Nonostante la folla di amanti che accumulerà negli anni, Florentino si sentirà legato solo a Fermina. E aspetterà decenni per vedere realizzato il suo amore: alla morte del medico, Florentino dichiarerà ancora una volta il suo amore a Fermina e lei, dopo tanti anni di indifferenza, accetterà le sue attenzioni.
Insieme faranno un viaggio in uno dei battelli della Compagnia Fluviale e, per la prima volta dopo 50 anni d’amore, faranno l’amore.
Poiché ho sempre creduto che la Poesia sia una incontro che viene fatto a tempo e luogo debito , ho sempre ravvisato, da lettore di questo romanzo, un significato riposto diverso da quello letterale: a Florentino ho voluto associare la figura del Poeta, a Fermina quella della Poesia e al ricco medico quella del mondo caotico che li circonda.
Ora immaginare che il Poeta ASPETTI per tanto tempo l’unica donna che ha amato, la Poesia, mi permette di introdurre l’argomento di questo Post.
Le forme brevi di poesia ci sono sempre state e probabilmente, oggi più che mai, riprenderanno vita e vigore (come già ho avuto modo di dire nel Post dedicato a Valentino Zeichen). Quello che però oggi, ai tempi di twitter, viene a mancare è questa dimensione insostituibile e indispensabile dell’attesa: il Poeta è colui che resta in attesa di incontrare la sua Visione. Non solo. Incontrandosi Poeta e Visione, nel luogo e nel tempo debito, si riconoscono e si amano; non è assolutamente detto che altri, nello stesso tempo e luogo, possano ugualmente riconoscerli nel loro amore o che potranno dettare tempi e luoghi diversi per il loro amore. Questo è tanto più vero quanto più gli altri dimenticano, un po' alla volta, cosa sia l’ATTESA per la Parola giusta. Per il giusto verso.
Già ma quale è, quali sono le parole giuste della Poesia? Quale è il giusto verso della Poesia, se esiste, ai tempi di twitter? Sicuramente non sono parole distratte e veloci che sfrecciano via, che si scrivono, si copiano-incollano e vengono rapidamente tagliate e sostituite da altre senza il tempo necessario per riempirle. Già perché le parole, in Poesia, non sono suoni che si scrivono ma silenzi che si riempiono.
Detto in un altro modo, la Poesia non vomita parole perche la Poesia non mangia -oltre al fatto risaputo che non dà da mangiare- le parole; lei, cioè non fa uso di parole. La Poesia si ciba di silenzio.
Quando dico silenzio, voglio dire qualcosa di più che tacere, smettere di parlare. Così come quando un poeta dice giorno per intendere non solo che il sole è sorto ma anche l’assenza della notte. Per silenzio quindi intendo quell’attesa necessaria per imparare nuovamente a parlare con l’unico scopo di nominare, senza nessun altro fine; senza alcuna strumentalizzazione. Si pensi ai linguaggi di oggi usati in pubblicità, nella scienza, nell’economia, nella psicoanalisi, nel giornalismo e anche in tanta poesia: non sono forse vere e proprie invenzioni per un fine diverso da quello di nominare le cose con il loro nome?
Sono linguaggi che usano le parole, che creano le parole, per fini di potere, linguaggi alla periferia di quello naturale; parole come fragole fuori stagione, che non sanno di niente non perché senza sapore ma perché non “accadono” nel tempo debito.
E oggi il destino di twitter o il suo torto è questo: parlare o troppo tardi o troppo presto; parlare cioè senza lasciare un margine per attendere un prima o un dopo; quando sarebbe proprio necessario riflettere del ritardo o sull’anticipo.
E così, ai tempi di twitter, può accadere che una notizia venga data prima che sia accaduta o troppo tardi: Bob Dylan ha vinto ovvero non ha vinto il premio Nobel per la Letteratura.
Un altro Florentino che più di 50 anni fa incontrò per la prima volta la sua Fermina.
Anche dell’Accademia Svedese il fato o il torto è solo e sempre questo, uguale a quello di twitter. E così una notizia attesa arriva o troppo tardi o troppo presto.
Nel febbraio del 1964, Dylan disse ai propri compagni: Rimbaud aveva capito tutto. Il poeta fa veramente di sé stesso un visionario per mezzo di un lungo, prodigioso e razionale sconvolgimento dei propri sensi...Cerco di raggiungere l'ignoto, e anche se, impazzito, finisco per smarrire il senso delle mie visioni perlomeno, le ho avute. Ecco il genere di roba che significa veramente qualcosa, ed ecco ciò che ho intenzione di scrivere, d'ora in poi.
E oggi mentre Dylan continua a masticare silenzio possiamo quindi leggere questo:
Campane di libertà
Lontano tra la fine del tramonto e lo scampanìo spezzato di mezzanotte
ci riparammo in un androne mentre il tuono esplodeva con fragore
e mentre maestose campane di lampi colpivano ombre negli abissi
come se fossero lampeggianti campane di libertà
lampeggianti per i guerrieri la cui forza è non combattere
lampeggianti per i rifugiati sull' inerme via di fuga
E per ognuno e per tutti i poveri soldati nella notte
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà
Attraverso la fornace disciolta della città inaspettatamente guardammo
con visi nascosti mentre i muri si restringevano
mentre l'eco delle campane nuziali prima della pioggia sferzante
si dissolveva nello scampanare dei fulmini
che suonavano per il ribelle che suonavano per il miserabile
che suonavano per lo sfortunato l'abbandonato e il rifiutato
che suonavano per l'escluso messo costantemente al rogo
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà
Attraverso il folle mistico martellare della selvaggia incessante grandine
il cielo esplodeva i suoi poemi in nuda meraviglia
che il tintinnare delle campane della chiesa soffiava lontano nella brezza
lasciando solo le campane di fulmini ed il loro tuono
che colpiva per il gentile, che colpiva per il mite
che colpiva per i guardiani ed i protettori della mente
ed il poeta ed il pittore lontano oltre questo giusto tempo
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà
Nella deserta cattedrale della sera la pioggia svelava lunghe storie
per le nude forme senza volto nè posizione
e suonava per le lingue con nessun posto in cui portare i propri pensieri
tutte costrette in situazioni scontate
suonava per il sordo ed il cieco e suonava per il muto
per la bistrattata madre senza marito la prostituta ingiuriata
per il delinquente da poco incatenato ed imbrogliato ed inseguito
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà
Sebbene la bianca cortina di una nuvola mandasse bagliori in un angolo lontano
e l'ipnotica nebbia acquiginosa si stava lentamente alzando
lampi elettrici ancora colpivano come dardi lanciati
non per quelli condannati a vagare oppure per quelli impossibilitati a vagare
e suonavano per quelli che cercano sui loro sentieri di ricerca senza parole
per gli amanti con la solitudine nei cuori con una storia troppo personale
e per ogni gentile anima innocua messa ingiustamente dentro una prigione
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà
Con gli occhi splendenti di sorriso ricordo quando fummo presi
in trappola dal non scorrere delle ore perchè stavano sospese
mentre ascoltavamo un'ultima volta e guardavamo con un ultimo sguardo
incantati e sommersi finchè cessò lo scampanìo
che suonava per i malati le cui ferite non possono essere lenite
per le schiere dei confusi, accusati, maltrattati quelli disillusi o peggio
e per ogni uomo imprigionato nell'intero universo
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà
Forse siamo arrivati troppo tardi o troppo presto: Florentino-Dylan e Fermina-Poesia si sono già incontrati e sul battello della Compagnia Fluviale hanno fatto per la prima volta l’amore dopo essersi rincorsi e attesi per 50 anni.
La poesia ai tempi di twitter è già accaduta.
Il matrimonio di Fermina, nato senza amore, diventerà con il tempo e le avversità un rapporto solido e felice.
Florentino si butterà a capofitto nel lavoro per poter essere degno dell’amore di Fermina e inizierà una brillante carriera all’interno dell’azienda dello zio, la Compagnia Fluviale dei Caraibi.
Nonostante la folla di amanti che accumulerà negli anni, Florentino si sentirà legato solo a Fermina. E aspetterà decenni per vedere realizzato il suo amore: alla morte del medico, Florentino dichiarerà ancora una volta il suo amore a Fermina e lei, dopo tanti anni di indifferenza, accetterà le sue attenzioni.
Insieme faranno un viaggio in uno dei battelli della Compagnia Fluviale e, per la prima volta dopo 50 anni d’amore, faranno l’amore.
Poiché ho sempre creduto che la Poesia sia una incontro che viene fatto a tempo e luogo debito , ho sempre ravvisato, da lettore di questo romanzo, un significato riposto diverso da quello letterale: a Florentino ho voluto associare la figura del Poeta, a Fermina quella della Poesia e al ricco medico quella del mondo caotico che li circonda.
Ora immaginare che il Poeta ASPETTI per tanto tempo l’unica donna che ha amato, la Poesia, mi permette di introdurre l’argomento di questo Post.
Le forme brevi di poesia ci sono sempre state e probabilmente, oggi più che mai, riprenderanno vita e vigore (come già ho avuto modo di dire nel Post dedicato a Valentino Zeichen). Quello che però oggi, ai tempi di twitter, viene a mancare è questa dimensione insostituibile e indispensabile dell’attesa: il Poeta è colui che resta in attesa di incontrare la sua Visione. Non solo. Incontrandosi Poeta e Visione, nel luogo e nel tempo debito, si riconoscono e si amano; non è assolutamente detto che altri, nello stesso tempo e luogo, possano ugualmente riconoscerli nel loro amore o che potranno dettare tempi e luoghi diversi per il loro amore. Questo è tanto più vero quanto più gli altri dimenticano, un po' alla volta, cosa sia l’ATTESA per la Parola giusta. Per il giusto verso.
Già ma quale è, quali sono le parole giuste della Poesia? Quale è il giusto verso della Poesia, se esiste, ai tempi di twitter? Sicuramente non sono parole distratte e veloci che sfrecciano via, che si scrivono, si copiano-incollano e vengono rapidamente tagliate e sostituite da altre senza il tempo necessario per riempirle. Già perché le parole, in Poesia, non sono suoni che si scrivono ma silenzi che si riempiono.
Detto in un altro modo, la Poesia non vomita parole perche la Poesia non mangia -oltre al fatto risaputo che non dà da mangiare- le parole; lei, cioè non fa uso di parole. La Poesia si ciba di silenzio.
Quando dico silenzio, voglio dire qualcosa di più che tacere, smettere di parlare. Così come quando un poeta dice giorno per intendere non solo che il sole è sorto ma anche l’assenza della notte. Per silenzio quindi intendo quell’attesa necessaria per imparare nuovamente a parlare con l’unico scopo di nominare, senza nessun altro fine; senza alcuna strumentalizzazione. Si pensi ai linguaggi di oggi usati in pubblicità, nella scienza, nell’economia, nella psicoanalisi, nel giornalismo e anche in tanta poesia: non sono forse vere e proprie invenzioni per un fine diverso da quello di nominare le cose con il loro nome?
Sono linguaggi che usano le parole, che creano le parole, per fini di potere, linguaggi alla periferia di quello naturale; parole come fragole fuori stagione, che non sanno di niente non perché senza sapore ma perché non “accadono” nel tempo debito.
E oggi il destino di twitter o il suo torto è questo: parlare o troppo tardi o troppo presto; parlare cioè senza lasciare un margine per attendere un prima o un dopo; quando sarebbe proprio necessario riflettere del ritardo o sull’anticipo.
E così, ai tempi di twitter, può accadere che una notizia venga data prima che sia accaduta o troppo tardi: Bob Dylan ha vinto ovvero non ha vinto il premio Nobel per la Letteratura.
Un altro Florentino che più di 50 anni fa incontrò per la prima volta la sua Fermina.
Anche dell’Accademia Svedese il fato o il torto è solo e sempre questo, uguale a quello di twitter. E così una notizia attesa arriva o troppo tardi o troppo presto.
Nel febbraio del 1964, Dylan disse ai propri compagni: Rimbaud aveva capito tutto. Il poeta fa veramente di sé stesso un visionario per mezzo di un lungo, prodigioso e razionale sconvolgimento dei propri sensi...Cerco di raggiungere l'ignoto, e anche se, impazzito, finisco per smarrire il senso delle mie visioni perlomeno, le ho avute. Ecco il genere di roba che significa veramente qualcosa, ed ecco ciò che ho intenzione di scrivere, d'ora in poi.
E oggi mentre Dylan continua a masticare silenzio possiamo quindi leggere questo:
Campane di libertà
Lontano tra la fine del tramonto e lo scampanìo spezzato di mezzanotte
ci riparammo in un androne mentre il tuono esplodeva con fragore
e mentre maestose campane di lampi colpivano ombre negli abissi
come se fossero lampeggianti campane di libertà
lampeggianti per i guerrieri la cui forza è non combattere
lampeggianti per i rifugiati sull' inerme via di fuga
E per ognuno e per tutti i poveri soldati nella notte
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà
Attraverso la fornace disciolta della città inaspettatamente guardammo
con visi nascosti mentre i muri si restringevano
mentre l'eco delle campane nuziali prima della pioggia sferzante
si dissolveva nello scampanare dei fulmini
che suonavano per il ribelle che suonavano per il miserabile
che suonavano per lo sfortunato l'abbandonato e il rifiutato
che suonavano per l'escluso messo costantemente al rogo
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà
Attraverso il folle mistico martellare della selvaggia incessante grandine
il cielo esplodeva i suoi poemi in nuda meraviglia
che il tintinnare delle campane della chiesa soffiava lontano nella brezza
lasciando solo le campane di fulmini ed il loro tuono
che colpiva per il gentile, che colpiva per il mite
che colpiva per i guardiani ed i protettori della mente
ed il poeta ed il pittore lontano oltre questo giusto tempo
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà
Nella deserta cattedrale della sera la pioggia svelava lunghe storie
per le nude forme senza volto nè posizione
e suonava per le lingue con nessun posto in cui portare i propri pensieri
tutte costrette in situazioni scontate
suonava per il sordo ed il cieco e suonava per il muto
per la bistrattata madre senza marito la prostituta ingiuriata
per il delinquente da poco incatenato ed imbrogliato ed inseguito
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà
Sebbene la bianca cortina di una nuvola mandasse bagliori in un angolo lontano
e l'ipnotica nebbia acquiginosa si stava lentamente alzando
lampi elettrici ancora colpivano come dardi lanciati
non per quelli condannati a vagare oppure per quelli impossibilitati a vagare
e suonavano per quelli che cercano sui loro sentieri di ricerca senza parole
per gli amanti con la solitudine nei cuori con una storia troppo personale
e per ogni gentile anima innocua messa ingiustamente dentro una prigione
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà
Con gli occhi splendenti di sorriso ricordo quando fummo presi
in trappola dal non scorrere delle ore perchè stavano sospese
mentre ascoltavamo un'ultima volta e guardavamo con un ultimo sguardo
incantati e sommersi finchè cessò lo scampanìo
che suonava per i malati le cui ferite non possono essere lenite
per le schiere dei confusi, accusati, maltrattati quelli disillusi o peggio
e per ogni uomo imprigionato nell'intero universo
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà
Forse siamo arrivati troppo tardi o troppo presto: Florentino-Dylan e Fermina-Poesia si sono già incontrati e sul battello della Compagnia Fluviale hanno fatto per la prima volta l’amore dopo essersi rincorsi e attesi per 50 anni.
La poesia ai tempi di twitter è già accaduta.
giovedì 15 settembre 2016
La Poesia è una passeggiata
La genesi come movimento formale è la cosa essenziale di qualunque creazione; anche di quella poetica[0].
In tale fase, prima di qualunque inizio, la forma esterna, la superficie di separazione tra “nulla” e “qualcosa” è secondaria, derivata. Non è grazie ad essa che una cosa nasce e prende forma, al contrario è necessario che questa superficie di separazione tra “interno” ed “esterno”, si rompa continuamente: spazio e contenuto, Natura e Storia, nascono insieme.
Questo significa che segno e significato di qualunque opera vengono creati insieme e insieme quindi vanno cercati, perché lo spazio è contenuto e il segno è significato.
La Natura è Storia.
Da questo deriva che anche la poesia, come atto creativo, SI fa cammin facendo e anzi potremmo concludere, con Archibald Randolph Ammons, che la Poesia è una passeggiata [1].
In una passeggiata la separazione tra un punto di partenza e uno di arrivo, una origine e una fine, è secondaria: non è grazie a questa distanza che la passeggiata prende forma ma vi è piena identità tra il movimento e quello che stiamo realizzando. Tra la Natura del movimento e il risultato, la Storia, appunto, di questo movimento.
La poesia è proprio questa identità, nell’atto creativo, tra movimento e opera, tra Natura e Storia.
E questo ci porta ad un’altra caratteristica della Poesia come atto creativo: essa non emerge solo perché è stata scritta; perché è stata creata; ma anche perché viene letta; cioè dopo la sua genesi essa è anche la sua evoluzione.
È sempre ancora una volta una questione di eliminare o attraversare quel sottile diaframma che separa chi scrive da chi legge, chi crea da chi è nella creazione, quasi a voler aprire una porta per andare oltre la pagina, oltre le parole (la porta[2] è una immagine molto appropriata della poesia in quanto rappresentazione del passaggio da una condizione a un’altra e in fondo nella passeggiata noi attraversiamo numerose porte invisibili).
Questo concetti vengono resi perfettamente in modo chiaro ed esplicito in Digging ( Scavando) di Seamus Heaney [3]
Scavando
Tra l’indice e il pollice riposa
La mia penna tozza e comoda come una pistola.
Sotto la finestra il suono netto e stridulo
Della vanga che affonda nella terra ghiaiosa:
Mio padre, che scava. E guardo giù
Finché la schiena gli si abbassa fra le aiuole
E torna su come vent’anni di prima
Piegandosi a tempo tra le piante di patate
Dove stava scavando.
Con lo stivale rozzo annidato sul vangile
Spostava l’asta fermamente contro
La parte interna del ginocchio. Sradicava le piante
Affondando la lama lucida e noi raccoglievamo
Le nuove patate, ci piaceva
Sentirle fredde e dure fra le mani.
Per Dio, il vecchio sapeva maneggiare la vanga.
Proprio come il suo vecchio.
Tagliava più torba mio nonno in un giorno
Di ogni altro uomo nella torbiera di Toner.
Una volta scesi a portargli il latte
In una bottiglia col tappo di carta. Si alzò
Lo bevve, e si rimise subito al lavoro
Incidendo e tagliando nettamente, sollevando
Zolle sulla spalla, e scendendo sempre più giù
Per trovare quella buona. Scavando.
E mi torna in mente l’odore freddo della terra
Delle patate, lo scalpiccio sulla torba fradicia,
I colpi risoluti della vanga tra le radici vive.
Ma io non ho la vanga per seguire uomini così.
Tra l’indice e il pollice
Ho la penna.
Scaverò con quella.
Vediamo in che modo questa poesia è una passeggiata.
Per prima cosa il testo usa il corpo interamente proprio come si fa quando si passeggia: mani, gambe, respiro, sensi. E lo fa dichiarandolo dal primo verso con quella penna che riposa tra l’indice e il pollice e che le permette di scriverSI.
Una passeggita, appunto, SI fa.
Una seconda somiglianza è che questa poesia, come ogni passeggiata, è irriproducibile perché legata a persone, topologie, etimologie e antropologie specifiche: i calli delle mani del padre di Seamus, la schiena curva sul campo di patate, il nonno che taglia in un giorno più torba degli antenati di Tober nelle antiche torbiere d’Irlanda. Non c’è nessun altro che potrebbe riprodurre questo stesso identico percorso, che possieda cioè la stessa Natura e Storia (lo stesso passo!) di Seamus Heaney.
Poi questa poesia, come qualunque passeggiata che si rispetti, svolta una o più volte per poi ritornare indietro. L’origine è davvero la meta, anche se noi non siamo più quelli che eravamo all’inizio della lettura, della passeggiata.
Vi è infine un’altra importante somiglianza tra questa poesia e una passeggiata: il movimento , il suo accadere nel corpo di chi cammina e nel corpo delle parole; e per capire questo movimento, senza limitarsi a guardarlo dall’esterno, c’è solo un modo: entrarvi dentro.
La penna stilografica “tozza e comoda come una pistola”, tenuta tra l’indice e il pollice, serve al poeta come attrezzo di scavo. Nettissimo il proposito: continuare a scavare come gli antenati nelle torbiere ma con un altro tipo di vanga.
Nella sua raccolta più importante, North, Heaney [4] è riuscito a presentare la genesi della questione irlandese partendo dalle origini quasi mitiche del mondo celtico, delle incisioni sulla roccia e dei sacrifici umani.
I corpi degli antenati, mummificati e conservati intatti nella torbiera, parlano di se stessi e di questa origine che si perde nella preistoria. C’è una racconto di P. Auster [5] in cui un uomo, sciando s’ imbatte in un corpo perfettamente conservato dal freddo e che si rivelerà essere quello di suo padre che su quella pista era scomparso molti anni prima. L’esperienza di rivedere se stesso giovane, di essere cioè ritornato indietro, segna il protagonista nel suo rapporto tra la sua natura e la sua storia personale.
Così è successo nella torbiera di Tober come ci ricorda Franco Buffoni [6] nel suo bellissimo saggio su Seamus Heaney:
“...North era stato anticipato pochi mesi prima dall’uscita presso Rainbow Press di una plaquette composta di otto poesie e intitolata Bog Poems (Poesie della palude). Il libretto era corredato da una diecina di impressionanti riproduzioni fotografiche, tratte dal volume del danese Peter V. Glob, dedicato al popolo delle paludi, apparso a Copenaghen nel 1965 e a Londra quattro anni più tardi.
Impressionanti i primi piani dei corpi di uomini e donne conservatisi intatti nella torba dall’età del ferro, grazie all’acidità dell’acqua, con gli ornamenti, le suppellettili, persino i capelli. Tanto da apparire body più che corpse...
...Il 1969, l’anno in cui Heaney scopre il volume di Glob, è anche l’anno in cui riprende sanguinosamente il conflitto nord-irlandese. Le parole introduttive di Glob, che individua in gran parte dei corpi sepolti nella torba delle vittime sacrificali, propiziatorie alla fertilità della dea del territorio, associate alle immagini, sortiscono sul poeta un doppio effetto. Quei corpi raccontavano una storia del passato remoto, ma – morti violentemente come erano: sacrificati – costituivano anche la metafora concreta, tangibile di quanto in Irlanda avveniva ogni giorno in quegli anni. Il sacrificio umano alla divinità assurda dell’antica etnia appariva pertanto al poeta come connesso all’alterigia dei nuovi padroni. Da qui – da questo rapporto violento tra natura e storia, da questa analogia per contrasto tra antichi bog people e contemporanei cittadini dell’Ulster massacrati – scaturisce il senso profondo della poesia di Heaney...
...I corpi, gli oggetti e le parole vengono quasi posti sullo stesso piano, trattati allo stesso modo. Nel senso che il poeta soppesa il suono e l’etimologia delle parole che lo emozionano, come se fossero pietre. E nel contempo, sfiorando gli oggetti, li rende impalpabili, irreali, astratti, come se fossero concetti o suoni. Parole come bog (palude) o ban-hus (fattoria, casa bianca) finiscono col giungerci talmente materializzate alle proprie radici etimologiche da divenire esse stesse “la cosa”. Oggetti come la vanga abbandonata dallo scavatore di torba, rinvenuta per caso dal poeta avvolta nel muschio, umida e silenziosa, diviene parola e poi persona, grazie alla sensualità che il poeta sa infondere all’atto del suo ripenetrare nella terra dopo anni, e persino del suo uscire dal verde facendo mollemente schiudere le labbra alla vegetazione...
...Più in generale si può osservare come Heaney, nel solco della più alta tradizione anglosassone, miri esemplarmente alla precisione lessicale (botanica, scientifica). Egli non scrive “alberi”, bensì ontani, tigli, betulle. Allo stesso modo, se si chiama “vangile” l’escrescenza in legno del badile su cui preme il piede del contadino, egli scrive vangile. Peccato per chi conosce poche parole....”
Peccato per chi fa poche passeggiate.
Nel 1984 Heaney pubblica un altro libro fondamentale Station Island, [7] dal nome di una isoletta situata nel centro del piccolo lago irlandese , il Lago Rosso. Questa isola era meta di pellegrinaggi fin dall’Alto Medioevo, dopo che San Patrizio, ispirato da Dio, tracciò col suo bastone un ampio cerchio proprio nel mezzo dell’isola, e la terra si staccò e sprofondò formando un pozzo. Chi fosse entrato attraverso questa porta del Purgatorio avrebbe potuto espiare le pene da vivo.
Solo pochi di coloro che decisero di sottoporsi alla prova ne uscirono vivi perché il rosso del lago era il sangue di mostri d’acqua e serpenti che furono uccisi da san Patrizio.
Station Island è la “passeggiata” che Seamus Heaney compie nel fondo della propria coscienza chiedendosi come dovrebbe vivere e scrivere un poeta. E’ una passeggiata che gli permette di guardare il paesaggio e nel contempo di ...andare e tornare indietro, cioè di ritrovare se stesso nella sua identità tra Natura e Storia.
Dopo questa raccolta Heaney decise di trasferirsi dall’Ulster a Dublino e di non scrivere più in gaelico, ma in inglese.
Così alla fine di una “semplice” passeggiata l’Irlanda diventa l’isola che scompare, “The Disappearing Island”, come recita il titolo di una delle poesie più note della raccolta The Haw Lantern (La lanterna del biancospino)[8] e un contadino cattolico irlandese diventa uno dei più grandi poeti di lingua inglese.
Tornando indietro, come si conviene ad una passeggiata, siamo all’origine , anzi alla genesi della creazione anche di questo post che passo dopo passo ha rinvenuto l’origine e l’evoluzione di Seamus Heaney e della sua Poesia nonché il proprio punto di partenza.
La genesi come movimento formale è la materia essenziale di qualunque creazione. Anche di questa[0].
Riferimenti
[0] – Questo Post
[1] – A. K. Di Franco, A Poem is a walk, The Oxford Encyclopedia of American Literature, Volume 1 Oxford University Press (2003)
[2] - Da sempre la porta viene utilizzata con un valore simbolico di passaggio. L’espressione doors of perception del poeta inglese William Blake (1757-1827), per indicare l’accesso dal nulla al qualcosa e viceversa, ispirò Jim Morrison (1943-1971) per il nome della sua band musicale The Doors.
[3] – S. Heaney, Digging da Death of a Naturalist, Faber & Faber (1966)
[4] – S.Heaney, North, Faber & Faber (1975)
[5] – P. Auster, Trilogia di New York, Einaudi (2004)
[6] – F. Buffoni http://www.francobuffoni.it/testo_a_fronte/seamus_heaney_scavando.html
[7] – S. Heaney, Station Island, Faber & Faber (1984)
[8] – S. Heaney, The Haw Lantern, Faber & Faber (1987)
In tale fase, prima di qualunque inizio, la forma esterna, la superficie di separazione tra “nulla” e “qualcosa” è secondaria, derivata. Non è grazie ad essa che una cosa nasce e prende forma, al contrario è necessario che questa superficie di separazione tra “interno” ed “esterno”, si rompa continuamente: spazio e contenuto, Natura e Storia, nascono insieme.
Questo significa che segno e significato di qualunque opera vengono creati insieme e insieme quindi vanno cercati, perché lo spazio è contenuto e il segno è significato.
La Natura è Storia.
Da questo deriva che anche la poesia, come atto creativo, SI fa cammin facendo e anzi potremmo concludere, con Archibald Randolph Ammons, che la Poesia è una passeggiata [1].
In una passeggiata la separazione tra un punto di partenza e uno di arrivo, una origine e una fine, è secondaria: non è grazie a questa distanza che la passeggiata prende forma ma vi è piena identità tra il movimento e quello che stiamo realizzando. Tra la Natura del movimento e il risultato, la Storia, appunto, di questo movimento.
La poesia è proprio questa identità, nell’atto creativo, tra movimento e opera, tra Natura e Storia.
E questo ci porta ad un’altra caratteristica della Poesia come atto creativo: essa non emerge solo perché è stata scritta; perché è stata creata; ma anche perché viene letta; cioè dopo la sua genesi essa è anche la sua evoluzione.
È sempre ancora una volta una questione di eliminare o attraversare quel sottile diaframma che separa chi scrive da chi legge, chi crea da chi è nella creazione, quasi a voler aprire una porta per andare oltre la pagina, oltre le parole (la porta[2] è una immagine molto appropriata della poesia in quanto rappresentazione del passaggio da una condizione a un’altra e in fondo nella passeggiata noi attraversiamo numerose porte invisibili).
Questo concetti vengono resi perfettamente in modo chiaro ed esplicito in Digging ( Scavando) di Seamus Heaney [3]
Scavando
Tra l’indice e il pollice riposa
La mia penna tozza e comoda come una pistola.
Sotto la finestra il suono netto e stridulo
Della vanga che affonda nella terra ghiaiosa:
Mio padre, che scava. E guardo giù
Finché la schiena gli si abbassa fra le aiuole
E torna su come vent’anni di prima
Piegandosi a tempo tra le piante di patate
Dove stava scavando.
Con lo stivale rozzo annidato sul vangile
Spostava l’asta fermamente contro
La parte interna del ginocchio. Sradicava le piante
Affondando la lama lucida e noi raccoglievamo
Le nuove patate, ci piaceva
Sentirle fredde e dure fra le mani.
Per Dio, il vecchio sapeva maneggiare la vanga.
Proprio come il suo vecchio.
Tagliava più torba mio nonno in un giorno
Di ogni altro uomo nella torbiera di Toner.
Una volta scesi a portargli il latte
In una bottiglia col tappo di carta. Si alzò
Lo bevve, e si rimise subito al lavoro
Incidendo e tagliando nettamente, sollevando
Zolle sulla spalla, e scendendo sempre più giù
Per trovare quella buona. Scavando.
E mi torna in mente l’odore freddo della terra
Delle patate, lo scalpiccio sulla torba fradicia,
I colpi risoluti della vanga tra le radici vive.
Ma io non ho la vanga per seguire uomini così.
Tra l’indice e il pollice
Ho la penna.
Scaverò con quella.
Vediamo in che modo questa poesia è una passeggiata.
Per prima cosa il testo usa il corpo interamente proprio come si fa quando si passeggia: mani, gambe, respiro, sensi. E lo fa dichiarandolo dal primo verso con quella penna che riposa tra l’indice e il pollice e che le permette di scriverSI.
Una passeggita, appunto, SI fa.
Una seconda somiglianza è che questa poesia, come ogni passeggiata, è irriproducibile perché legata a persone, topologie, etimologie e antropologie specifiche: i calli delle mani del padre di Seamus, la schiena curva sul campo di patate, il nonno che taglia in un giorno più torba degli antenati di Tober nelle antiche torbiere d’Irlanda. Non c’è nessun altro che potrebbe riprodurre questo stesso identico percorso, che possieda cioè la stessa Natura e Storia (lo stesso passo!) di Seamus Heaney.
Poi questa poesia, come qualunque passeggiata che si rispetti, svolta una o più volte per poi ritornare indietro. L’origine è davvero la meta, anche se noi non siamo più quelli che eravamo all’inizio della lettura, della passeggiata.
Vi è infine un’altra importante somiglianza tra questa poesia e una passeggiata: il movimento , il suo accadere nel corpo di chi cammina e nel corpo delle parole; e per capire questo movimento, senza limitarsi a guardarlo dall’esterno, c’è solo un modo: entrarvi dentro.
La penna stilografica “tozza e comoda come una pistola”, tenuta tra l’indice e il pollice, serve al poeta come attrezzo di scavo. Nettissimo il proposito: continuare a scavare come gli antenati nelle torbiere ma con un altro tipo di vanga.
Nella sua raccolta più importante, North, Heaney [4] è riuscito a presentare la genesi della questione irlandese partendo dalle origini quasi mitiche del mondo celtico, delle incisioni sulla roccia e dei sacrifici umani.
I corpi degli antenati, mummificati e conservati intatti nella torbiera, parlano di se stessi e di questa origine che si perde nella preistoria. C’è una racconto di P. Auster [5] in cui un uomo, sciando s’ imbatte in un corpo perfettamente conservato dal freddo e che si rivelerà essere quello di suo padre che su quella pista era scomparso molti anni prima. L’esperienza di rivedere se stesso giovane, di essere cioè ritornato indietro, segna il protagonista nel suo rapporto tra la sua natura e la sua storia personale.
Così è successo nella torbiera di Tober come ci ricorda Franco Buffoni [6] nel suo bellissimo saggio su Seamus Heaney:
“...North era stato anticipato pochi mesi prima dall’uscita presso Rainbow Press di una plaquette composta di otto poesie e intitolata Bog Poems (Poesie della palude). Il libretto era corredato da una diecina di impressionanti riproduzioni fotografiche, tratte dal volume del danese Peter V. Glob, dedicato al popolo delle paludi, apparso a Copenaghen nel 1965 e a Londra quattro anni più tardi.
Impressionanti i primi piani dei corpi di uomini e donne conservatisi intatti nella torba dall’età del ferro, grazie all’acidità dell’acqua, con gli ornamenti, le suppellettili, persino i capelli. Tanto da apparire body più che corpse...
...Il 1969, l’anno in cui Heaney scopre il volume di Glob, è anche l’anno in cui riprende sanguinosamente il conflitto nord-irlandese. Le parole introduttive di Glob, che individua in gran parte dei corpi sepolti nella torba delle vittime sacrificali, propiziatorie alla fertilità della dea del territorio, associate alle immagini, sortiscono sul poeta un doppio effetto. Quei corpi raccontavano una storia del passato remoto, ma – morti violentemente come erano: sacrificati – costituivano anche la metafora concreta, tangibile di quanto in Irlanda avveniva ogni giorno in quegli anni. Il sacrificio umano alla divinità assurda dell’antica etnia appariva pertanto al poeta come connesso all’alterigia dei nuovi padroni. Da qui – da questo rapporto violento tra natura e storia, da questa analogia per contrasto tra antichi bog people e contemporanei cittadini dell’Ulster massacrati – scaturisce il senso profondo della poesia di Heaney...
...I corpi, gli oggetti e le parole vengono quasi posti sullo stesso piano, trattati allo stesso modo. Nel senso che il poeta soppesa il suono e l’etimologia delle parole che lo emozionano, come se fossero pietre. E nel contempo, sfiorando gli oggetti, li rende impalpabili, irreali, astratti, come se fossero concetti o suoni. Parole come bog (palude) o ban-hus (fattoria, casa bianca) finiscono col giungerci talmente materializzate alle proprie radici etimologiche da divenire esse stesse “la cosa”. Oggetti come la vanga abbandonata dallo scavatore di torba, rinvenuta per caso dal poeta avvolta nel muschio, umida e silenziosa, diviene parola e poi persona, grazie alla sensualità che il poeta sa infondere all’atto del suo ripenetrare nella terra dopo anni, e persino del suo uscire dal verde facendo mollemente schiudere le labbra alla vegetazione...
...Più in generale si può osservare come Heaney, nel solco della più alta tradizione anglosassone, miri esemplarmente alla precisione lessicale (botanica, scientifica). Egli non scrive “alberi”, bensì ontani, tigli, betulle. Allo stesso modo, se si chiama “vangile” l’escrescenza in legno del badile su cui preme il piede del contadino, egli scrive vangile. Peccato per chi conosce poche parole....”
Peccato per chi fa poche passeggiate.
Nel 1984 Heaney pubblica un altro libro fondamentale Station Island, [7] dal nome di una isoletta situata nel centro del piccolo lago irlandese , il Lago Rosso. Questa isola era meta di pellegrinaggi fin dall’Alto Medioevo, dopo che San Patrizio, ispirato da Dio, tracciò col suo bastone un ampio cerchio proprio nel mezzo dell’isola, e la terra si staccò e sprofondò formando un pozzo. Chi fosse entrato attraverso questa porta del Purgatorio avrebbe potuto espiare le pene da vivo.
Solo pochi di coloro che decisero di sottoporsi alla prova ne uscirono vivi perché il rosso del lago era il sangue di mostri d’acqua e serpenti che furono uccisi da san Patrizio.
Station Island è la “passeggiata” che Seamus Heaney compie nel fondo della propria coscienza chiedendosi come dovrebbe vivere e scrivere un poeta. E’ una passeggiata che gli permette di guardare il paesaggio e nel contempo di ...andare e tornare indietro, cioè di ritrovare se stesso nella sua identità tra Natura e Storia.
Dopo questa raccolta Heaney decise di trasferirsi dall’Ulster a Dublino e di non scrivere più in gaelico, ma in inglese.
Così alla fine di una “semplice” passeggiata l’Irlanda diventa l’isola che scompare, “The Disappearing Island”, come recita il titolo di una delle poesie più note della raccolta The Haw Lantern (La lanterna del biancospino)[8] e un contadino cattolico irlandese diventa uno dei più grandi poeti di lingua inglese.
Tornando indietro, come si conviene ad una passeggiata, siamo all’origine , anzi alla genesi della creazione anche di questo post che passo dopo passo ha rinvenuto l’origine e l’evoluzione di Seamus Heaney e della sua Poesia nonché il proprio punto di partenza.
La genesi come movimento formale è la materia essenziale di qualunque creazione. Anche di questa[0].
Riferimenti
[0] – Questo Post
[1] – A. K. Di Franco, A Poem is a walk, The Oxford Encyclopedia of American Literature, Volume 1 Oxford University Press (2003)
[2] - Da sempre la porta viene utilizzata con un valore simbolico di passaggio. L’espressione doors of perception del poeta inglese William Blake (1757-1827), per indicare l’accesso dal nulla al qualcosa e viceversa, ispirò Jim Morrison (1943-1971) per il nome della sua band musicale The Doors.
[3] – S. Heaney, Digging da Death of a Naturalist, Faber & Faber (1966)
[4] – S.Heaney, North, Faber & Faber (1975)
[5] – P. Auster, Trilogia di New York, Einaudi (2004)
[6] – F. Buffoni http://www.francobuffoni.it/testo_a_fronte/seamus_heaney_scavando.html
[7] – S. Heaney, Station Island, Faber & Faber (1984)
[8] – S. Heaney, The Haw Lantern, Faber & Faber (1987)
mercoledì 6 luglio 2016
E' nato Valentino Zeichen
Riflettevo ancora una volta sul fatto che, per la maggior parte delle persone, un poeta nasce il giorno in cui muore. Questo è uno di quei giorni: oggi, 5 Luglio 2016, a Roma è nato per la stragrande maggioranza di noi, Valentino Zeichen.
Intorno alla sua capanna sulla sponda del Tevere già si sparla di lui nel solito modo affrettato con il quale oggigiorno si “parla”, coniugando i verbi al passato senza problemi di frugalità ovvero spreco: questa società se ne frega delle parole e dell’uso inutile, per questo importantissimo, che ne fanno i poeti.
Valentino Zeichen dunque è finalmente venuto al mondo per chi non se ne fosse ancora accorto: come non sentire di fianco alla sala parto quel canto di un bambino tenuto da un tallone a testa in giù per essere misurato dalla ostetrica di turno; profanato in tutti gli orifizi per assicurare il libero passaggio all’ispirazione?
"Io"-dice Zeichen-"...scrivo ogni volta che mi sento. Io ci credo, all’ispirazione: secondo me è l’eredità che gli dei ci hanno lasciato andandosene, un pulviscolo che qualche volta ancora si posa sugli uomini".
Dal Fiume si arriva, si viene salvati, e al fiume si torna, si è salvi; il fiume dove tutto scorre dando un ritmo anche alle pietre ferme sulle sponde e dove tutto è stato salvato, anche le siccità future svuotate delle piene del passato. Non sarà più possibile bagnarsi non due, ma una volta sola nello stesso fiume.
Di questa nascita qui do notizia, quasi fosse l’annuncio della scoperta di un bosone, un buco nero o dell’invenzione della macchina del tempo o del teletrasporto e tutto questo per dare l’incredibile sensazione della presenza di un altro universo che contiene, tra le altre cose, questo:
La bocca della verità
se per i visionari del plenilunio
quella non è la testa di oceano
e neanche un chiusino di scolo
la bocca della verità è
forse un sole senescente
una stella di neutroni.
alla prova del vero
la leggenda vuole che
vi si infili la mano
lasciandola in pegno
e qualora s’è mentito
la bocca la divori!
ma sempre la restituisce
perché? le verità soggettive
sono false, non verificabili
le scientifiche, verosimili.
avete mai visto quella bocca
divorare una teoria?
Stavo terminando di scrivere un breve contributo sulle Forme della Brevità (epigrammi ed haiku) con l’intenzione di aggiungere tra i cultori del genere proprio Valentino Zeichen, quando è sopraggiunta la notizia della sua morte.
Evidentemente anche per me, che lo conoscevo, la morte di Zeichen rappresenta, in ogni caso, la sua nascita (rinascita) o se vogliamo l’emergenza ancora più chiara e netta di una nuova figura... di epigrammista/haijin , di un poeta in grado di abbracciare la tradizione occidentale di derivazione greca e latina e quella orientale di derivazione cinese e giapponese. Leonida di Taranto con un tocco di Marziale e Li Po con un tocco di Matsuo Basho.
Alla presentazione del suo ultimo libro, Aforismi d’autunno (Fazi Editore, 2010), Zeichen afferma: “Il futuro della lettura sono gli aforismi, gli epigrammi, le poesie veloci, non c’è più tempo per poesie di 20, 25, 30 versi”. Ma la sua visione “aforistica” della brevità è di natura raffinatissima, come spiegato bene da Bonnefoy ( altro grande poeta nato anche lui pochi giorni prima di Zeichen), la forma breve, più di ogni altra, rappresenta la soglia di un’esperienza specificamente poetica e -oggi più che mai, nell’epoca cioè dei 140 caratteri di twitter- quando una poeta adotta una forma breve, già si volge, in virtù di questo semplice fatto, verso ciò che nel nostro rapporto con il mondo, può essere poesia: qualcosa che non conta su- e non si conta in- 140 caratteri ma nella loro metamorfosi in originali permutazioni ( le possibili permutazioni dei 140 caratteri di twitter è un numero superiore a 250 cifre!).
12
Sono transitati secoli
dentro i miei anni
e (io) non vi ho fatto caso.
**
21
Gli anni sono come docili
cavalli al pascolo
la cui indolenza ci rassicura,
quando partono all’improvviso
al galoppo numerico.
**
26
La bellezza è come la fiaccola
delle staffette,
passa da una donna all’altra.
**
37
Il massimo della profondità
che tu conosca è quella
delle rughe.
Benedicta
**
43
Gli artisti, di solito, amano
i “primi piatti” e per “secondi”
non disdegnano i contorni di monete.
**
53
Ai gradi militari
ho preferito quelli alcolici.
**
71
Mentre si è giovani si viene
costantemente sollecitati
a conseguire al più presto
la “maturità. Poi ci si
avvede che la vecchiaia
la fornisce gratuitamente.
**
99
La mira dell’artista
deve essere superiore
a quella dell’arciere
poiché punta all’infinito.
La forma breve- un epigramma, un haiku, un aforisma - è per sua natura fisica (pochi tratti neri su un universo bianco) circondata dal silenzio e come Zeichen stesso ammette, lui con il silenzio ci sta veramente bene perché "...il silenzio mi fa guadagnare il coperto successivo. Quando ti assicuri la pietanza hai vinto comunque". È un’affermazione, questa, che avrebbe potuto fare sia un Leonida di Taranto che un Matsuo Basho.
Chi è dunque questo poeta che oggi è venuto al mondo emergendo dalle sue parole e dai suoi silenzi: nessun altro che quello che lui stesso dice di essere: "...il protagonista di Una cena elegante di Robert Walser. Un estraneo che arriva in un posto, si siede, si vede offrire cibo, sorrisi e sigari e poi va via senza che nessuno abbia capito chi sia".
Che la tua nuova vita possa aiutarci a capirlo, Valentino.
Intorno alla sua capanna sulla sponda del Tevere già si sparla di lui nel solito modo affrettato con il quale oggigiorno si “parla”, coniugando i verbi al passato senza problemi di frugalità ovvero spreco: questa società se ne frega delle parole e dell’uso inutile, per questo importantissimo, che ne fanno i poeti.
Valentino Zeichen dunque è finalmente venuto al mondo per chi non se ne fosse ancora accorto: come non sentire di fianco alla sala parto quel canto di un bambino tenuto da un tallone a testa in giù per essere misurato dalla ostetrica di turno; profanato in tutti gli orifizi per assicurare il libero passaggio all’ispirazione?
"Io"-dice Zeichen-"...scrivo ogni volta che mi sento. Io ci credo, all’ispirazione: secondo me è l’eredità che gli dei ci hanno lasciato andandosene, un pulviscolo che qualche volta ancora si posa sugli uomini".
Dal Fiume si arriva, si viene salvati, e al fiume si torna, si è salvi; il fiume dove tutto scorre dando un ritmo anche alle pietre ferme sulle sponde e dove tutto è stato salvato, anche le siccità future svuotate delle piene del passato. Non sarà più possibile bagnarsi non due, ma una volta sola nello stesso fiume.
Di questa nascita qui do notizia, quasi fosse l’annuncio della scoperta di un bosone, un buco nero o dell’invenzione della macchina del tempo o del teletrasporto e tutto questo per dare l’incredibile sensazione della presenza di un altro universo che contiene, tra le altre cose, questo:
La bocca della verità
se per i visionari del plenilunio
quella non è la testa di oceano
e neanche un chiusino di scolo
la bocca della verità è
forse un sole senescente
una stella di neutroni.
alla prova del vero
la leggenda vuole che
vi si infili la mano
lasciandola in pegno
e qualora s’è mentito
la bocca la divori!
ma sempre la restituisce
perché? le verità soggettive
sono false, non verificabili
le scientifiche, verosimili.
avete mai visto quella bocca
divorare una teoria?
Stavo terminando di scrivere un breve contributo sulle Forme della Brevità (epigrammi ed haiku) con l’intenzione di aggiungere tra i cultori del genere proprio Valentino Zeichen, quando è sopraggiunta la notizia della sua morte.
Evidentemente anche per me, che lo conoscevo, la morte di Zeichen rappresenta, in ogni caso, la sua nascita (rinascita) o se vogliamo l’emergenza ancora più chiara e netta di una nuova figura... di epigrammista/haijin , di un poeta in grado di abbracciare la tradizione occidentale di derivazione greca e latina e quella orientale di derivazione cinese e giapponese. Leonida di Taranto con un tocco di Marziale e Li Po con un tocco di Matsuo Basho.
Alla presentazione del suo ultimo libro, Aforismi d’autunno (Fazi Editore, 2010), Zeichen afferma: “Il futuro della lettura sono gli aforismi, gli epigrammi, le poesie veloci, non c’è più tempo per poesie di 20, 25, 30 versi”. Ma la sua visione “aforistica” della brevità è di natura raffinatissima, come spiegato bene da Bonnefoy ( altro grande poeta nato anche lui pochi giorni prima di Zeichen), la forma breve, più di ogni altra, rappresenta la soglia di un’esperienza specificamente poetica e -oggi più che mai, nell’epoca cioè dei 140 caratteri di twitter- quando una poeta adotta una forma breve, già si volge, in virtù di questo semplice fatto, verso ciò che nel nostro rapporto con il mondo, può essere poesia: qualcosa che non conta su- e non si conta in- 140 caratteri ma nella loro metamorfosi in originali permutazioni ( le possibili permutazioni dei 140 caratteri di twitter è un numero superiore a 250 cifre!).
12
Sono transitati secoli
dentro i miei anni
e (io) non vi ho fatto caso.
**
21
Gli anni sono come docili
cavalli al pascolo
la cui indolenza ci rassicura,
quando partono all’improvviso
al galoppo numerico.
**
26
La bellezza è come la fiaccola
delle staffette,
passa da una donna all’altra.
**
37
Il massimo della profondità
che tu conosca è quella
delle rughe.
Benedicta
**
43
Gli artisti, di solito, amano
i “primi piatti” e per “secondi”
non disdegnano i contorni di monete.
**
53
Ai gradi militari
ho preferito quelli alcolici.
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71
Mentre si è giovani si viene
costantemente sollecitati
a conseguire al più presto
la “maturità. Poi ci si
avvede che la vecchiaia
la fornisce gratuitamente.
**
99
La mira dell’artista
deve essere superiore
a quella dell’arciere
poiché punta all’infinito.
La forma breve- un epigramma, un haiku, un aforisma - è per sua natura fisica (pochi tratti neri su un universo bianco) circondata dal silenzio e come Zeichen stesso ammette, lui con il silenzio ci sta veramente bene perché "...il silenzio mi fa guadagnare il coperto successivo. Quando ti assicuri la pietanza hai vinto comunque". È un’affermazione, questa, che avrebbe potuto fare sia un Leonida di Taranto che un Matsuo Basho.
Chi è dunque questo poeta che oggi è venuto al mondo emergendo dalle sue parole e dai suoi silenzi: nessun altro che quello che lui stesso dice di essere: "...il protagonista di Una cena elegante di Robert Walser. Un estraneo che arriva in un posto, si siede, si vede offrire cibo, sorrisi e sigari e poi va via senza che nessuno abbia capito chi sia".
Che la tua nuova vita possa aiutarci a capirlo, Valentino.
sabato 4 giugno 2016
Il segreto di Dafne
Uno dei temi ricorrenti nella poesia di Carla Baroni è quello della “questione femminile”: non ho altri modi per indicare questa esigenza della poetessa ferrarese di sistemare nel Mondo e nel suo mondo la donna; sé stessa.
Non ricorro volutamente a termini quali “femminismo” o, meno che meno, “femminicidio” perché troppo contingenti riferibili come sono a un particolare periodo storico o alla più stretta attualità: Carla parla di ben altro, parla di Identità e lo fa in un modo, nella forma e nella sostanza poetica, così alto da nasconderlo.
IV
Qualcuno dice che anche noi nascemmo/dal verde di una pianta. Prima l’alga/ancora solitaria nel gran mare//…approdò a riva//… e lì si abbarbicò cercando luce/luce diversa da quella degli abissi.
La Natura ama nascondersi diceva Eraclito e la donna in quanto mater-colei che possiede un utero- depositaria, quindi, della continuità della vita, dall’origine dei tempi ha condotto una vita segreta quando non segregata. Questo è Il segreto di Dafne che è il titolo del prezioso poemetto di Carla Baroni (Blu di Prussia Editrice, Piacenza, 2015, con la prefazione di A. Quasimodo).
V
Le foglie non han voce. Solo il vento/ dà loro i suoni e le parole…//…Ed è silenzio allora tutt’intorno/solo talvolta lo stormire lieve/è un sussurrare al cielo una preghiera/
Gli uomini affrancati dal “dovere” di procreare hanno un rapporto con la Natura, per così dire, secondario e per questo hanno inventato quel teatro che possiamo chiamare di volta in volta Storia, Scienza, Tecnica, Economia, Politica dove mettono in scena sé stessi con le loro gesta e i propri trionfi decorati d’alloro.
Relegata nella sua natura e nella Natura, la donna invece ha occupato il posto che le veniva assegnato; altre volte sceglieva lei stessa di farsi da parte, sacrificandosi o, addirittura…facendosi da parte!
Il poemetto regala subito l’immagine di questa foresta e non possiamo fare a meno di riportare alla mente il bosco dantesco del XIII Canto dell’Inferno nel quale Dante chiede a Pier delle Vigne come le anime si trasformino in alberi e se alcuna di esse si divincoli mai da tale forma.
Anche Dafne, in fondo, potrebbe appartenere a questo bosco dei suicidi in quanto costretta dall’abuso di potere e dalla forza del dio Apollo a preferire una vita vegetale piuttosto che a cedere sé stessa, il suo corpo a chi voleva possederla contro la sua volontà.
Nel bosco dantesco ci sono anime che hanno rifiutato la loro condizione umana e per questo non sono degne di avere il loro corpo e trasformate, quindi, in una forma di vita inferiore come una pianta.
Ma qui nel poemetto di Carla tutto è rovesciato perché
XXII
…il grano ha tempi ben precisi, torna/dalle viscere sacre della terra/come uccello migrante al proprio nido/nell’orbita di un volo di speranza.
Tutto può ritornare in vita come la natura della donna ben sa: noi nasciamo ( o rinasciamo) dentro al buio sempre:
XXVIII
Uomo, animale, pianta che nel vento/getta i suoi semi a farne nuovi esseri/per quell’istinto di conservazione/che non ammette deroghe in natura
e la donna è pianta che da una sola foglia sa ricostruire fusto e gemme e questa coscienza di sé è così prepotente e dirompente da far dire a Carla:
XXXIII
Forse fui anch’io così. Mi ritrovai/foglia non più, ma completa pianta,/pianta robusta di corteccia antica/abituata ad affrontar tempeste.
In questa antimetamorfosi ovidiana appare dunque il tema che da sempre sta a cuore della poetessa, quello che all’inizio ho chiamato la questione femminile: il posto della donna nel mondo.
Il Poeta scrive perché qualcosa d’eterno lo muove e questa azione gli permette di conoscersi meglio perché nella poesia alta si toccano elementi sconosciuti alla coscienza. Man mano che si procede nel poemetto la donna/Dafne-Carla prende a poco a poco coscienza di disporre di un potere assoluto: il potere di vita o di morte simile al potere del dio o del re che da sempre sono i simboli del potere sociale, di quel potere in grado solo di ordinare, espressione di dominio e di violenza.
Ma questi due poteri, quello di vita o di morte della Donna e quello ordinatore dell’Uomo fin dalla notte dei tempi si fronteggiano e confliggono tra loro.
Carla ci racconta questo conflitto o si fa strumento di questo racconto.
In una società che è stata costruita ed è ancora ordinata dagli "dei", dai "re", da "uomini" prepotenti e violenti è la Poesia che può e deve dare voce alle dafne, alle madri, alle donne meno propense ad anteporre gli andamenti degli indici di borsa alle armonie di un suono e allo spettacolo di un cielo che muta sopra i rami.
Non ricorro volutamente a termini quali “femminismo” o, meno che meno, “femminicidio” perché troppo contingenti riferibili come sono a un particolare periodo storico o alla più stretta attualità: Carla parla di ben altro, parla di Identità e lo fa in un modo, nella forma e nella sostanza poetica, così alto da nasconderlo.
IV
Qualcuno dice che anche noi nascemmo/dal verde di una pianta. Prima l’alga/ancora solitaria nel gran mare//…approdò a riva//… e lì si abbarbicò cercando luce/luce diversa da quella degli abissi.
La Natura ama nascondersi diceva Eraclito e la donna in quanto mater-colei che possiede un utero- depositaria, quindi, della continuità della vita, dall’origine dei tempi ha condotto una vita segreta quando non segregata. Questo è Il segreto di Dafne che è il titolo del prezioso poemetto di Carla Baroni (Blu di Prussia Editrice, Piacenza, 2015, con la prefazione di A. Quasimodo).
V
Le foglie non han voce. Solo il vento/ dà loro i suoni e le parole…//…Ed è silenzio allora tutt’intorno/solo talvolta lo stormire lieve/è un sussurrare al cielo una preghiera/
Gli uomini affrancati dal “dovere” di procreare hanno un rapporto con la Natura, per così dire, secondario e per questo hanno inventato quel teatro che possiamo chiamare di volta in volta Storia, Scienza, Tecnica, Economia, Politica dove mettono in scena sé stessi con le loro gesta e i propri trionfi decorati d’alloro.
Relegata nella sua natura e nella Natura, la donna invece ha occupato il posto che le veniva assegnato; altre volte sceglieva lei stessa di farsi da parte, sacrificandosi o, addirittura…facendosi da parte!
Il poemetto regala subito l’immagine di questa foresta e non possiamo fare a meno di riportare alla mente il bosco dantesco del XIII Canto dell’Inferno nel quale Dante chiede a Pier delle Vigne come le anime si trasformino in alberi e se alcuna di esse si divincoli mai da tale forma.
Anche Dafne, in fondo, potrebbe appartenere a questo bosco dei suicidi in quanto costretta dall’abuso di potere e dalla forza del dio Apollo a preferire una vita vegetale piuttosto che a cedere sé stessa, il suo corpo a chi voleva possederla contro la sua volontà.
Nel bosco dantesco ci sono anime che hanno rifiutato la loro condizione umana e per questo non sono degne di avere il loro corpo e trasformate, quindi, in una forma di vita inferiore come una pianta.
Ma qui nel poemetto di Carla tutto è rovesciato perché
XXII
…il grano ha tempi ben precisi, torna/dalle viscere sacre della terra/come uccello migrante al proprio nido/nell’orbita di un volo di speranza.
Tutto può ritornare in vita come la natura della donna ben sa: noi nasciamo ( o rinasciamo) dentro al buio sempre:
XXVIII
Uomo, animale, pianta che nel vento/getta i suoi semi a farne nuovi esseri/per quell’istinto di conservazione/che non ammette deroghe in natura
e la donna è pianta che da una sola foglia sa ricostruire fusto e gemme e questa coscienza di sé è così prepotente e dirompente da far dire a Carla:
XXXIII
Forse fui anch’io così. Mi ritrovai/foglia non più, ma completa pianta,/pianta robusta di corteccia antica/abituata ad affrontar tempeste.
In questa antimetamorfosi ovidiana appare dunque il tema che da sempre sta a cuore della poetessa, quello che all’inizio ho chiamato la questione femminile: il posto della donna nel mondo.
Il Poeta scrive perché qualcosa d’eterno lo muove e questa azione gli permette di conoscersi meglio perché nella poesia alta si toccano elementi sconosciuti alla coscienza. Man mano che si procede nel poemetto la donna/Dafne-Carla prende a poco a poco coscienza di disporre di un potere assoluto: il potere di vita o di morte simile al potere del dio o del re che da sempre sono i simboli del potere sociale, di quel potere in grado solo di ordinare, espressione di dominio e di violenza.
Ma questi due poteri, quello di vita o di morte della Donna e quello ordinatore dell’Uomo fin dalla notte dei tempi si fronteggiano e confliggono tra loro.
Carla ci racconta questo conflitto o si fa strumento di questo racconto.
In una società che è stata costruita ed è ancora ordinata dagli "dei", dai "re", da "uomini" prepotenti e violenti è la Poesia che può e deve dare voce alle dafne, alle madri, alle donne meno propense ad anteporre gli andamenti degli indici di borsa alle armonie di un suono e allo spettacolo di un cielo che muta sopra i rami.
domenica 24 aprile 2016
A Tempo e Luogo
Sia la Poesia che la Fisica hanno a che fare con Spazio e Tempo e in particolare con la disposizione di “cose” in continuo fluire in un vastissimo continuum e cioè gli oggetti propri della fisica (p.es. particelle e galassie) e quelli propri della poesia (parole e silenzi). E’ evidente in tutto ciò una inconciliabilità intrinseca e connaturata a questa “attività”: stabilire una “posizione” per qualcosa che comunque continua a scorrere a evolvere e mutare: la “luna” di oggi (astro-parola) non è quella che osservavamo-leggevamo ieri.
Una meditazione sullo Spazio- Tempo o su una delle osservazioni più sibilline del tardo Wittgenstein (La filosofia si potrebbe in realtà solo poetare) : questa potrebbe sembrare a prima lettura l’ultima raccolta di Angelo Andreotti , A tempo e luogo ( Manni, Lecce 2016), ma leggendo e rileggendo le 60 composizioni divise perfettamente in due parti, ciascuna di 30 poesie, ci si accorge che qui qualunque tempo diventa inabitabile tranne l’istante che
...è una dimora/piena di stanze con porte da aprire/di cui mai abbiamo avuto le chiavi [ da Lo specchio, pg. 43];
e che qualunque luogo
...anche quel sentiero/che mille volte abbiamo camminato [da Divergenze III, pg. 35],
si fa inesplorato.
Quindi non di meditazione si tratta ma piuttosto di una fuga dal nostro spazio-tempo che sebbene relativistico ci risulta positivista e accomodante e in quanto…quantistico sicuramente discreto e rassicurante. Ecco cosa è A tempo e luogo: la fuga da una bellissima gabbia dorata che ci tiene stretti nel mondo.
Questo bisogno di evadere dalle nostre possibilità ordinarie, da questa gabbia fatta di abitudini, educazione, circostanze e che si rivela tanto più stretta e tirannica quanto più cerchiamo di uscirne, questo bisogno, dunque, potrebbe essere la nostra esigenza più profonda per soddisfare la nostra curiosità di conoscere la gabbia in tutti i suoi dettagli (come la Fisica vorrebbe fare) o all’opposto per eliminare in qualche modo le sue sbarre (come la Poesia consente di fare).
Noi conosciamo e sperimentiamo il mondo che ci circonda solo a frammenti, piccoli frammenti di spazio e di tempo, il qui e l’ora. Nella nostra esperienza quotidiana , a ben vedere, non c’è niente che corrisponda alla nozione di ora di adesso. E’ inutile ricordare che le cose che vediamo ora sono già cambiate e anzi le vediamo proprio perché cambiano, perché scorrono nel tempo.
Se confrontiamo la nozione di ora con quella di qui ci rendiamo conto che mentre qui designa il luogo dove sta, per esempio, chi legge queste poesie, non certo può indicare il luogo dove queste poesie sono state scritte, dove il poeta parla: qui, per persone diverse, perciò indica luoghi diversi ma esistenti: nessuno si sognerebbe di dire che le cose qui esistono, mentre le cose che non sono qui non esistono.
Quando però diciamo, scriviamo, leggiamo ora abbiamo l’impressione che le cose che sono adesso esistono e tutte le altre, quelle di prima e quelle di dopo, no. Questi due frammenti di spazio e di tempo, quindi, sembrano essere, a proprio modo, delle mere illusioni: il qui ci lega ad altre cose esistenti che però non conosciamo; l'ora ci lega soltanto a cose che conosciamo e che sono già cambiate, se non svanite. In ogni caso possiamo immaginare un mondo senza luoghi o viceversa con tanti qui ma è difficile immaginare un mondo senza lo scorrere del tempo anche se questo fluire- che Heidegger poneva come primitivo- è assente dalla descrizione del mondo.
Questo flusso non può essere descritto studiato interrogato: può essere solo mostrato, può farci compagnia in ogni momento, può addirittura diventare il nostro stesso essere, ma non può essere descritto in altro modo se non frammentandone gli istanti e distruggendo quindi la sua natura.
Uno dei modi per mostrarlo, questo flusso continuo, è quello di mischiarlo alle parole, cioè ri- buttare nel tempo, nella sua corrente quello che la vita ci ha consentito di pescare. Questo il Poeta lo sa bene:
...Di notte le ore contano di meno/se aggrovigliamo il tempo alle parole [da Il letto sfatto pg.45]
Un altro dei modi per mostrarlo all’opera e fissarlo nella materia come ha fatto Lisippo che nell’ideare i tratti salienti del kairos (l’ora calata nell’istante imprevedibile) li scolpì come un ciuffo di capelli sulla fronte della sua famosa statua e la calvizie incipiente sulla nuca della stessa, perché il kairos deve essere acciuffato in anticipo e perché, una volta passato, non può essere più riafferrato.
Se leggiamo le due parti in cui è suddiviso A tempo e luogo subiamo questa straniante sensazione di girare intorno alla statua di Lisippo e di vedere in anticipo questo fluire del tempo attraverso un ritmo dettato da un orbita di parole (frammenti degli anelli di Cronos/Saturno) che
...raccontano storie/in cui la vita/per come la sappiamo/non potrà mai più accadere [da Rincasare II pg.25]
e dove avvertiamo questo
...privilegio di essere presenti/ attraverso le cose//e attraverso le cose/fare un solo mondo di noi e del paesaggio [da Semplificando pg.21]
E girando e rigirando intorno alla statua scorgiamo quella chiazza vuota a ricordarci la frons capillata e poi nuovamente rivediamo il ciuffo a ricordarci l’assenza di capelli sulla nuca: sono i momenti nell’orbita del tempo in cui
...l’attesa/è già il compiersi di ogni accadimento [da A tempo debito pg.44]
E che quindi tutto ciò che è accaduto, ciò che accade e tutto quello che a tempo debito accadrà, non è niente altro che Attesa.
Il compito del linguaggio metaforico della Poesia così egregiamente assolto qui, da (e grazie a) Andreotti , è dunque “solo” quello di mischiare il mondo alle parole, l’esatto contrario di quello che fa il linguaggio analitico della Scienza che vuole appunto separare il mondo dalle parole. Frammento dopo frammento.
La Poesia a differenza della Scienza racchiude in sé i tre modi cognitivi dell’essere umano: quello analitico, quello sintetico e, non ultimo quello profetico. E questa capacità della Poesia viene tutta mostrata nella sua potenza senza essere veramente detta; mostrata, nascondendola sapientemente, nelle orbite della seconda parte della raccolta. Numeri (titoli) che non contano (dicono) nulla ma che si rac-contano spazio e tempo, mischiando mondo e parole.
A questo punto vale la pena sottolineare un aspetto importante: lo stretto legame che esiste tra il kairos e il calore.
Il fatto è che solo quando fluisce qualcosa di vitale (energia, calore, ardore, respiro…) il passato e il futuro si distinguono. Il calore da un punto di vista statistico è il risultato di infinite interazioni di frammenti che precludono la conoscenza esatta delle cose: è questa inevitabile (santa!) ignoranza che ci dispone alla percezione del fluire delle cose dunque , il movimento che crea memoria, coscienza, pensiero e linguaggio. Proprio come il kairos che è il risultato dell’incontro- scontro di tanti frammenti di ora.
Dicono i Vangeli che kairos è ciò che Dio ha deciso ed attuato, a Tempo e Luogo. E a tempo e luogo è ciò che la Poesia fa amabilmente per noi.
Una meditazione sullo Spazio- Tempo o su una delle osservazioni più sibilline del tardo Wittgenstein (La filosofia si potrebbe in realtà solo poetare) : questa potrebbe sembrare a prima lettura l’ultima raccolta di Angelo Andreotti , A tempo e luogo ( Manni, Lecce 2016), ma leggendo e rileggendo le 60 composizioni divise perfettamente in due parti, ciascuna di 30 poesie, ci si accorge che qui qualunque tempo diventa inabitabile tranne l’istante che
...è una dimora/piena di stanze con porte da aprire/di cui mai abbiamo avuto le chiavi [ da Lo specchio, pg. 43];
e che qualunque luogo
...anche quel sentiero/che mille volte abbiamo camminato [da Divergenze III, pg. 35],
si fa inesplorato.
Quindi non di meditazione si tratta ma piuttosto di una fuga dal nostro spazio-tempo che sebbene relativistico ci risulta positivista e accomodante e in quanto…quantistico sicuramente discreto e rassicurante. Ecco cosa è A tempo e luogo: la fuga da una bellissima gabbia dorata che ci tiene stretti nel mondo.
Questo bisogno di evadere dalle nostre possibilità ordinarie, da questa gabbia fatta di abitudini, educazione, circostanze e che si rivela tanto più stretta e tirannica quanto più cerchiamo di uscirne, questo bisogno, dunque, potrebbe essere la nostra esigenza più profonda per soddisfare la nostra curiosità di conoscere la gabbia in tutti i suoi dettagli (come la Fisica vorrebbe fare) o all’opposto per eliminare in qualche modo le sue sbarre (come la Poesia consente di fare).
Noi conosciamo e sperimentiamo il mondo che ci circonda solo a frammenti, piccoli frammenti di spazio e di tempo, il qui e l’ora. Nella nostra esperienza quotidiana , a ben vedere, non c’è niente che corrisponda alla nozione di ora di adesso. E’ inutile ricordare che le cose che vediamo ora sono già cambiate e anzi le vediamo proprio perché cambiano, perché scorrono nel tempo.
Se confrontiamo la nozione di ora con quella di qui ci rendiamo conto che mentre qui designa il luogo dove sta, per esempio, chi legge queste poesie, non certo può indicare il luogo dove queste poesie sono state scritte, dove il poeta parla: qui, per persone diverse, perciò indica luoghi diversi ma esistenti: nessuno si sognerebbe di dire che le cose qui esistono, mentre le cose che non sono qui non esistono.
Quando però diciamo, scriviamo, leggiamo ora abbiamo l’impressione che le cose che sono adesso esistono e tutte le altre, quelle di prima e quelle di dopo, no. Questi due frammenti di spazio e di tempo, quindi, sembrano essere, a proprio modo, delle mere illusioni: il qui ci lega ad altre cose esistenti che però non conosciamo; l'ora ci lega soltanto a cose che conosciamo e che sono già cambiate, se non svanite. In ogni caso possiamo immaginare un mondo senza luoghi o viceversa con tanti qui ma è difficile immaginare un mondo senza lo scorrere del tempo anche se questo fluire- che Heidegger poneva come primitivo- è assente dalla descrizione del mondo.
Questo flusso non può essere descritto studiato interrogato: può essere solo mostrato, può farci compagnia in ogni momento, può addirittura diventare il nostro stesso essere, ma non può essere descritto in altro modo se non frammentandone gli istanti e distruggendo quindi la sua natura.
Uno dei modi per mostrarlo, questo flusso continuo, è quello di mischiarlo alle parole, cioè ri- buttare nel tempo, nella sua corrente quello che la vita ci ha consentito di pescare. Questo il Poeta lo sa bene:
...Di notte le ore contano di meno/se aggrovigliamo il tempo alle parole [da Il letto sfatto pg.45]
Un altro dei modi per mostrarlo all’opera e fissarlo nella materia come ha fatto Lisippo che nell’ideare i tratti salienti del kairos (l’ora calata nell’istante imprevedibile) li scolpì come un ciuffo di capelli sulla fronte della sua famosa statua e la calvizie incipiente sulla nuca della stessa, perché il kairos deve essere acciuffato in anticipo e perché, una volta passato, non può essere più riafferrato.
Se leggiamo le due parti in cui è suddiviso A tempo e luogo subiamo questa straniante sensazione di girare intorno alla statua di Lisippo e di vedere in anticipo questo fluire del tempo attraverso un ritmo dettato da un orbita di parole (frammenti degli anelli di Cronos/Saturno) che
...raccontano storie/in cui la vita/per come la sappiamo/non potrà mai più accadere [da Rincasare II pg.25]
e dove avvertiamo questo
...privilegio di essere presenti/ attraverso le cose//e attraverso le cose/fare un solo mondo di noi e del paesaggio [da Semplificando pg.21]
E girando e rigirando intorno alla statua scorgiamo quella chiazza vuota a ricordarci la frons capillata e poi nuovamente rivediamo il ciuffo a ricordarci l’assenza di capelli sulla nuca: sono i momenti nell’orbita del tempo in cui
...l’attesa/è già il compiersi di ogni accadimento [da A tempo debito pg.44]
E che quindi tutto ciò che è accaduto, ciò che accade e tutto quello che a tempo debito accadrà, non è niente altro che Attesa.
Il compito del linguaggio metaforico della Poesia così egregiamente assolto qui, da (e grazie a) Andreotti , è dunque “solo” quello di mischiare il mondo alle parole, l’esatto contrario di quello che fa il linguaggio analitico della Scienza che vuole appunto separare il mondo dalle parole. Frammento dopo frammento.
La Poesia a differenza della Scienza racchiude in sé i tre modi cognitivi dell’essere umano: quello analitico, quello sintetico e, non ultimo quello profetico. E questa capacità della Poesia viene tutta mostrata nella sua potenza senza essere veramente detta; mostrata, nascondendola sapientemente, nelle orbite della seconda parte della raccolta. Numeri (titoli) che non contano (dicono) nulla ma che si rac-contano spazio e tempo, mischiando mondo e parole.
A questo punto vale la pena sottolineare un aspetto importante: lo stretto legame che esiste tra il kairos e il calore.
Il fatto è che solo quando fluisce qualcosa di vitale (energia, calore, ardore, respiro…) il passato e il futuro si distinguono. Il calore da un punto di vista statistico è il risultato di infinite interazioni di frammenti che precludono la conoscenza esatta delle cose: è questa inevitabile (santa!) ignoranza che ci dispone alla percezione del fluire delle cose dunque , il movimento che crea memoria, coscienza, pensiero e linguaggio. Proprio come il kairos che è il risultato dell’incontro- scontro di tanti frammenti di ora.
Dicono i Vangeli che kairos è ciò che Dio ha deciso ed attuato, a Tempo e Luogo. E a tempo e luogo è ciò che la Poesia fa amabilmente per noi.
venerdì 26 febbraio 2016
Onde gravitazionali e onde poetiche.
In uno dei suoi celebri dialoghi, Platone definisce gli ingenui dalla mente candida come coloro che credono di poter imparare l’astronomia senza conoscere la matematica. Per la poesia vale qualcosa di simile: candidamente ed ingenuamente molti credono che la poesia sia qualcosa che abbia a che fare con l’andare a capo ad un certo punto e far rimare tra loro le parole (U. Eco ha genialmente fatto rimare Schopenhauer con amore ma non per questo possiamo considerarlo un poeta).
Se così fosse oggi con un computer potremmo imparare tanto l’astronomia che la poesia e dedicarci con successo ad esse.
Evidentemente le cose non sono così semplici. Se da un lato è possibile constatare la notevole fattura di foto e di ricerche astronomiche e quindi una “produzione di astronomia” anche da parte di astronomi dilettanti, non è altrettanto vero per quello che riguarda la poesia: possedere un computer potente in grado di contare le sillabe, legare le parole per assonanza o per finale di sillaba non “fa poesia”; produce e aumenta sicuramente il numero di poeti dilettanti ma non “poetizza”.
Evidentemente fare poesia non è un’attività regolata da algoritmi nè tantomeno da ricette come quelle che servono a fare un buon piatto. Non è una questione di organizzare un algoritmo o di legare ingredienti da mettere a... file e a fuoco. La poesia non è fatta dalle parole messe sul foglio bianco, così come la teroria della Relatività Generale è molto di più di una equazione di grande semplicità come questa Rab-½Rgab=Tab.[1]
Mentre l’astronomia e la culinaria, con le loro rispettive tecniche, possono essere insegnate e chiunque, grazie a questo, potrebbe aspirare a diventare un discreto astrofilo o chef, è difficile immaginare che un corso di poesia (un corso di scrittura creativa?) sia in grado, allo stesso modo, di sfornare un discreto poeta.
A dimostrazione di questo basta dare un’occhiata agli ultimi grandi poeti del passato o a qualcuno ancora in vita: Montale era un ragioniere, Quasimodo un geometra, Sinisgalli un ingegnere come Gadda. Tranströmer era uno psicologo e la Szymbroska è stata all’inizio della sua attività lavorativa, una segretaria presso una casa editrice e una illustratrice di libri.
La poesia quindi non è il risultato (automatico) di una certa cultura o di studi organizzati e collaudati.
Non si sbaglierebbe a dire della poesia quello che Wittgenstein diceva della matematica: è un fenomeno antropologico, cioè un movimento che ha sempre attraversato l’uomo tanto da lasciarsi immaginare esterno a lui e che, attraversandolo, lo muove vale a dire lo emoziona.
A differenza di tutte le altre attività umane la poesia non scopre e non produce alcunché; essa non costruisce dispositivi ingegnosi e complicati né inventa spiegazioni o teorie. La poesia è “solo” una documentazione lunga e paziente della condizione umana: Brodskji direbbe che s’impara molto di più sull’antica Roma e lo spirito che la animava leggendo Orazio piuttosto che studiando Mommsen.
Questa testimonianza della condizione umana è quello che la Cvetaeva definiva la “voglia disperata di essere”, il grido cioè, di qualcuno o di qualcosa che non si accontenta di esprimersi attraverso strumenti normali. Non è quindi uno dei desideri del nostro Ego, del nostro “Io consapevole” ma IL DESIDERIO ( che a questo punto non dovrebbe chiamarsi così) di chi nel Canto di me stesso Whitman chiama “VERO IO”.
Tutti siamo consapevoli del fatto che la nostra vita interiore è estremamente complessa e questo determina che anche i rapporti con gli altri lo siano: l’immagine di noi che ci facciamo attraverso queste relazioni la chiamiamo “IO” ed, in fondo, come diceva Freud, non è niente altro che un incidente. Eppure c’è (per tutti) un momento nel quale più che rispondere al nostro IO e da lui lasciarci condizionare, riusciamo ad essere in contatto con questo VERO IO.
Da bambini quando la nostra realtà psichica era governata da un principio di piacere piuttosto che da quello, subentrato successivamente in età adulta, di realtà, siamo stati in contatto con quel qualcosa che dentro di noi vuole disperatamente essere. La poesia dunque è quel moto che nasce dal nostro VERO IO. E, restando a Whitman: cosa ascolta e cosa riferisce questo VERO IO al nostro – incidentale - IO? Ma tutto quello che l’Anima suona. Quello che l’Anima dice. Quello che l’Anima mostra.
L’unico mezzo che il VERO IO può “usare” per muovere l’IO è lo stupore, lo stupore che il poeta prova di fronte alla propria espressione soprattutto se in armonia tra Musica, Parola e Immagine.
Lo stupore quindi smuove la materia fosse soltanto per modificare l’espressione di un volto, per gonfiare gli occhi di lacrime, per accelerare il battito del cuore.
Nel fare poesia- nel suo farsi dunque in scrittura, lettura e canto - si porta allo stato cosciente tanta parte di “noi”, si modifica il rapporto tra IO e VERO IO e quindi tra il Mondo e l’Anima che lo crea.
Nella poesia, smettiamo per così dire, di dare credito al nostro io consapevole e ci esprimiamo in relazione al VERO IO e nel farlo ci accorgiamo che la parola pratica, quella che ci accompagna lungo la vita e fino alla sua fine, si può fare parola poetica, quella che ci riporta sempre alla vita senza conoscere una fine (non a caso la parola poetica viene ripetuta e memorizzata; va memorizzata e ripetuta).
La poesia quindi non è l’incidente di un IO che mette insieme, in bell’ordine, su un foglio di carta delle parole rimate e che di tanto in tanto decide di andare a capo. Non è l’uso e l’abuso di parole per uno scopo diverso da quello pratico di servire sciattamente e occasionalmente a qualcosa. No, la Poesia è proprio ciò che canta dice e mostra senza alcun altro scopo se non quello di cantare, dire e mostrare. La poesia è ... quel niente che passa per i cieli/e fiata sulla terra che ringrazia...[2] forse solo un’onda gravitazionale partita milioni di anni fa quando l’uomo ancora non sapeva di universo, di stupore. Non sapeva di Dio.
[1]- Per chi è incuriosito dalla formula mi limito a dire che Rab è il tensore di Ricci e R è la sua cosiddetta traccia; gab è il tensore metrico e Tab il tensore stress-energia. Buio totale? Lo so. Allora passiamo a Rovelli che nel suo Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi, 2014) cosi spiega l’equazione: “...Lo spazio di Newton, nel quale si muovono le cose, e il campo gravitazionale che porta la forza di gravità, sono la stessa cosa...questa è l’idea straordinaria e geniale [di Einstein]: ...il campo gravitazionale non è diffuso nello spazio: il campo gravitazionale è lo spazio!...” Lo spazio non è quindi diverso dalla materia ma una delle entità materiali del mondo. Un’entità che ondula, si flette, s’incurva, si torce. Quanto breve è il passo se si sostituisce alla parola spazio la parola poesia.
[2]-F. Loi Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle Da Lünn, Il Ponte Firenze (1982)
Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle/no per il freddo, no per la paura/no del dolore, del rallegrarsi o per la speranza/ma di quel niente che passa per i cieli/e fiata sulla terra che ringrazia...//Forse è stato come trema il cuore/ a te, quando nella notte va via la luna/o viene mattina e paia che il chiarore si muoia/ ed è la vita che ritorna vita./Forse è stato come si trema insieme/così, senza saperlo, come Dio vuole...
Se così fosse oggi con un computer potremmo imparare tanto l’astronomia che la poesia e dedicarci con successo ad esse.
Evidentemente le cose non sono così semplici. Se da un lato è possibile constatare la notevole fattura di foto e di ricerche astronomiche e quindi una “produzione di astronomia” anche da parte di astronomi dilettanti, non è altrettanto vero per quello che riguarda la poesia: possedere un computer potente in grado di contare le sillabe, legare le parole per assonanza o per finale di sillaba non “fa poesia”; produce e aumenta sicuramente il numero di poeti dilettanti ma non “poetizza”.
Evidentemente fare poesia non è un’attività regolata da algoritmi nè tantomeno da ricette come quelle che servono a fare un buon piatto. Non è una questione di organizzare un algoritmo o di legare ingredienti da mettere a... file e a fuoco. La poesia non è fatta dalle parole messe sul foglio bianco, così come la teroria della Relatività Generale è molto di più di una equazione di grande semplicità come questa Rab-½Rgab=Tab.[1]
Mentre l’astronomia e la culinaria, con le loro rispettive tecniche, possono essere insegnate e chiunque, grazie a questo, potrebbe aspirare a diventare un discreto astrofilo o chef, è difficile immaginare che un corso di poesia (un corso di scrittura creativa?) sia in grado, allo stesso modo, di sfornare un discreto poeta.
A dimostrazione di questo basta dare un’occhiata agli ultimi grandi poeti del passato o a qualcuno ancora in vita: Montale era un ragioniere, Quasimodo un geometra, Sinisgalli un ingegnere come Gadda. Tranströmer era uno psicologo e la Szymbroska è stata all’inizio della sua attività lavorativa, una segretaria presso una casa editrice e una illustratrice di libri.
La poesia quindi non è il risultato (automatico) di una certa cultura o di studi organizzati e collaudati.
Non si sbaglierebbe a dire della poesia quello che Wittgenstein diceva della matematica: è un fenomeno antropologico, cioè un movimento che ha sempre attraversato l’uomo tanto da lasciarsi immaginare esterno a lui e che, attraversandolo, lo muove vale a dire lo emoziona.
A differenza di tutte le altre attività umane la poesia non scopre e non produce alcunché; essa non costruisce dispositivi ingegnosi e complicati né inventa spiegazioni o teorie. La poesia è “solo” una documentazione lunga e paziente della condizione umana: Brodskji direbbe che s’impara molto di più sull’antica Roma e lo spirito che la animava leggendo Orazio piuttosto che studiando Mommsen.
Questa testimonianza della condizione umana è quello che la Cvetaeva definiva la “voglia disperata di essere”, il grido cioè, di qualcuno o di qualcosa che non si accontenta di esprimersi attraverso strumenti normali. Non è quindi uno dei desideri del nostro Ego, del nostro “Io consapevole” ma IL DESIDERIO ( che a questo punto non dovrebbe chiamarsi così) di chi nel Canto di me stesso Whitman chiama “VERO IO”.
Tutti siamo consapevoli del fatto che la nostra vita interiore è estremamente complessa e questo determina che anche i rapporti con gli altri lo siano: l’immagine di noi che ci facciamo attraverso queste relazioni la chiamiamo “IO” ed, in fondo, come diceva Freud, non è niente altro che un incidente. Eppure c’è (per tutti) un momento nel quale più che rispondere al nostro IO e da lui lasciarci condizionare, riusciamo ad essere in contatto con questo VERO IO.
Da bambini quando la nostra realtà psichica era governata da un principio di piacere piuttosto che da quello, subentrato successivamente in età adulta, di realtà, siamo stati in contatto con quel qualcosa che dentro di noi vuole disperatamente essere. La poesia dunque è quel moto che nasce dal nostro VERO IO. E, restando a Whitman: cosa ascolta e cosa riferisce questo VERO IO al nostro – incidentale - IO? Ma tutto quello che l’Anima suona. Quello che l’Anima dice. Quello che l’Anima mostra.
L’unico mezzo che il VERO IO può “usare” per muovere l’IO è lo stupore, lo stupore che il poeta prova di fronte alla propria espressione soprattutto se in armonia tra Musica, Parola e Immagine.
Lo stupore quindi smuove la materia fosse soltanto per modificare l’espressione di un volto, per gonfiare gli occhi di lacrime, per accelerare il battito del cuore.
Nel fare poesia- nel suo farsi dunque in scrittura, lettura e canto - si porta allo stato cosciente tanta parte di “noi”, si modifica il rapporto tra IO e VERO IO e quindi tra il Mondo e l’Anima che lo crea.
Nella poesia, smettiamo per così dire, di dare credito al nostro io consapevole e ci esprimiamo in relazione al VERO IO e nel farlo ci accorgiamo che la parola pratica, quella che ci accompagna lungo la vita e fino alla sua fine, si può fare parola poetica, quella che ci riporta sempre alla vita senza conoscere una fine (non a caso la parola poetica viene ripetuta e memorizzata; va memorizzata e ripetuta).
La poesia quindi non è l’incidente di un IO che mette insieme, in bell’ordine, su un foglio di carta delle parole rimate e che di tanto in tanto decide di andare a capo. Non è l’uso e l’abuso di parole per uno scopo diverso da quello pratico di servire sciattamente e occasionalmente a qualcosa. No, la Poesia è proprio ciò che canta dice e mostra senza alcun altro scopo se non quello di cantare, dire e mostrare. La poesia è ... quel niente che passa per i cieli/e fiata sulla terra che ringrazia...[2] forse solo un’onda gravitazionale partita milioni di anni fa quando l’uomo ancora non sapeva di universo, di stupore. Non sapeva di Dio.
[1]- Per chi è incuriosito dalla formula mi limito a dire che Rab è il tensore di Ricci e R è la sua cosiddetta traccia; gab è il tensore metrico e Tab il tensore stress-energia. Buio totale? Lo so. Allora passiamo a Rovelli che nel suo Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi, 2014) cosi spiega l’equazione: “...Lo spazio di Newton, nel quale si muovono le cose, e il campo gravitazionale che porta la forza di gravità, sono la stessa cosa...questa è l’idea straordinaria e geniale [di Einstein]: ...il campo gravitazionale non è diffuso nello spazio: il campo gravitazionale è lo spazio!...” Lo spazio non è quindi diverso dalla materia ma una delle entità materiali del mondo. Un’entità che ondula, si flette, s’incurva, si torce. Quanto breve è il passo se si sostituisce alla parola spazio la parola poesia.
[2]-F. Loi Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle Da Lünn, Il Ponte Firenze (1982)
Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle/no per il freddo, no per la paura/no del dolore, del rallegrarsi o per la speranza/ma di quel niente che passa per i cieli/e fiata sulla terra che ringrazia...//Forse è stato come trema il cuore/ a te, quando nella notte va via la luna/o viene mattina e paia che il chiarore si muoia/ ed è la vita che ritorna vita./Forse è stato come si trema insieme/così, senza saperlo, come Dio vuole...
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