giovedì 2 dicembre 2021

W.H. Auden: un "semplice cronista" di emozioni

È inutile nasconderlo. La fortuna di Wystan Hugh Auden (1907-1973) in Italia è stata segnata da un giudizio di Eugenio Montale (1896-1981) che definì il poeta inglese un “semplice cronista”. A ben poco sembrerebbe essere servito il giudizio di segno opposto dell’altro Nobel, il russo Iosif Brodskij (1940-1996), che invece definì Auden “la più grande mente del ventesimo secolo”. Auden rimane ancora oggi, in Italia, un poeta poco…praticato. Semplice cronista dunque o grande mente? Si sa, in queste cose, nei giudizi tra simili, il sentimento gioca un ruolo importante. L’ammirazione per un coraggio che non si è avuto, così come l’infatuazione per un’ invidiabile padronanza linguistica e tecnica: sono cose che potrebbero aver indirizzato, in un verso e nell’altro, il giudizio dei due Nobel per la letteratura. In tanti casi sarebbe meglio, molto meglio, affidarsi ad una emozione. Il modo in cui ci comportiamo o esprimiamo un giudizio a volte - ma succede più frequentemente di quanto si immagini - può risultare ambiguo e incomprensibile anche a noi stessi («Credimi, non so perché l’ho fatto»; «Giuro, l’ho detto ma non lo penso…»). Per lo meno l’emozione, se c’è, si vede! Non è nascosta, sotto mentite spoglie, dietro ai nostri “credere” o “giurare”.E' sull’emozione che giocano i nostri sedicenti neuroni specchio e la nostra empatia. E di questo ci occuperemo: di emozione e di sentimento e del fatto che tendiamo ad usare queste due parole in modo interscambiabile e a volte non pertinente, finendo di confondere i loro significati. In effetti emozione e sentimento sono strettamente correlati ma forse non ci soffermiamo più di tanto sulla loro differenza. Comprenderla potrebbe risultare importante anche solo per esprimere un giudizio… avvertito (e non avventato) su una poesia. Su un poeta. Su una persona. E proprio di una emozione, di qualcosa, cioè, che ci muove e dunque si mostra, parla Hanna Arendt (1906-1975) a proposito di Auden. E da qui cominciamo. “Io odio la compassione” disse Hannah Arendt a Mary Mc Carthy nel 1969 quando le raccontò di aver trascinato in ascensore Auden, completamente ubriaco, per accompagnarlo in camera. La sbornia era dovuta al rifiuto di Hannah a una proposta di matrimonio avanzata da Auden in preda, probabilmente, a… un’ansia dell’età. La Arendt e Auden erano legati da un’amicizia decennale e in quegli anni, quando entrambi avevano passato i 60, lei aveva pubblicato da poco il suo libro più famoso (La banalità del male) mentre l’elegante poeta inglese si era trasformato in un clochard trascurato e disperato. La Arendt tornerà su questo episodio quando due giorni dopo la morte del poeta, avvenuta nel settembre del 1973, scriverà ancora alla Mc Carthy: «Penso sempre a Wystan e alla miseria della sua esistenza, e al fatto che mi sia rifiutata di prendermi cura di lui quando venne e pregò di essere protetto». Probabilmente la Arendt provò nuovamente quella compassione non nel ricordo di un sentimento ma nella medesima spinta dell’emozione di quel tempo che le aveva fatto scrivere: «Io odio la compassione, mi spaventa, da sempre, e credo di non aver mai conosciuto qualcuno che abbia provocato in me così tanta compassione». Questa frase della Arendt racconta molto più del giudizio critico di Montale e di quello di Brodskij e ci dice tutto sulla differenza tra un emozione e un sentimento, tra ciò che ci spingerebbe a fare (e dire) qualcosa di impulsivo e ciò che c’indurrebbe a elaborare, in parole e azioni, una reazione. Le emozioni, come si sa, sono fisiche e istintive. Esse sono state programmate nei nostri geni nel lungo percorso evolutivo della nostra specie. Sono complesse e comportano una serie di reazioni fisiche e cognitive (molte delle quali ancora incomprese) e il loro scopo principale è proprio quello di ex-movere (trasportare fuori, smuovere, scuotere, mettere in movimento) cioè produrre una risposta manifesta ad uno stimolo. Ad esempio una persona ci provoca compassione. Questa emozione può essere “misurata” oggettivamente dal flusso di sangue, dall’attività cerebrale, dall’espressione facciale. Dal gesto. I sentimenti, al contrario, si sviluppano nelle nostre teste. Si tratta di associazioni mentali e reazioni ad una emozione. Sono del tutto personali e si acquisiscono attraverso l’esperienza. Il tipo di sentimento prodotto da una emozione, varia enormemente, da persona a persona e da situazione a situazione, perché i sentimenti sono modellati dal temperamento e dall’esperienza individuale. Per esempio vediamo una persona che sta male: la nostra reazione può variare dalla curiosità alla paura, all’odio, in funzione di associazioni mentali che vengono innescate (p.es. ricordi di persone care che sono state male; malessere provocato alla vista del sangue; incapacità di sostenere un dolore già provato, etc…). Ecco quella compassione provata ma…trattenuta dall’odio e dallo spavento della Arendt racconta, spiega e giudica Wystan Hugh Auden meglio di tanti giudizi critici, indiscutibilmente circostanziati e ben articolati ma sicuramente di natura sentimentale e già lontani dalla emotività che traspare in questo “ricordo” rielaborato da un articolo apparso il 12 gennaio del 1975 sul New Yorker con il titolo Remembering W.H. Auden e firmato da Hannah Arendt.
Incontrai Wystan tardi, quando ormai non era più nelle nostre disponibilità quella semplice complicità che si possiede da giovani, grazie a una incosciente certezza del futuro. Perciò condividemmo un’amicizia senza troppe confidenze anche perché in lui troneggiava una discrezione tutta inglese che dissuadeva da ogni forma di affettuosità familiare. Rispettai questo lato del suo carattere con l’illusione di riuscire a entrare in possesso di quel segreto necessario a un grande poeta, a uno che si era imposto di non usare parole sciatte e casuali per parlare di cose per le quali si poteva (e si doveva) usare una concentrazione densa e poetica. Allora pensai che potesse trattarsi di una deformazione professionale: la reticenza del poeta. Anche perché molti dei suoi lavori, emergevano, con estrema naturalezza, dalla parola parlata, dagli idiomi quotidiani se non proprio dal cockney [Poggia la tua testa assonnata, amore mio, sul mio semplice braccio senza fede]. Questa perfezione è molto rara, paragonabile solo a quella che si trova nelle poesie di Goethe o di Puskin. La loro caratteristica è essere intraducibili. Qui tutto dipende dalla fluidità di gesti che trasformano i fatti da prosaici a poetici. Se lo stile è altrettanto fluente, magicamente veniamo convinti che il linguaggio quotidiano sia ellitticamente poetico e ci predisponiamo ai veri misteri della lingua aprendo per bene le orecchie. Da subito Wystan mi risultò intraducibile: fui convinta della sua grandezza. Quanti traduttori si sono dati da fare e hanno tradito, senza troppi scrupoli, poesie come If I could tell you (Potessi dirtelo), che si srotola in modo naturale da semplici frasi colloquiali come “ce lo dirà il tempo” o “che t’avevo detto”: [Il tempo non lo dirà, io te lo dicevo. / Solo il tempo sa il prezzo da pagare; / se lo sapessi te lo direi. // Se dovessimo piangere quando i clown si danno da fare, / se dovessimo inciampare quando suonano i musicisti, / il tempo non lo dirà, io te lo dicevo. // Il vento verrà pure da qualche parte se ora soffia qui, / ci saranno cause che fan gialle le foglie; / Il tempo non lo dirà, io te lo dicevo. // Ora pensa che i Leoni prendono e se ne vanno, / e tutti i ruscelli e soldati se ne fuggono; / il tempo non lo dirà, ma io? / Potessi dirtelo, lo sapresti]. Quando l’ho visto caduto in miseria, senza una giacca o un secondo paio di scarpe, ebbi l’impressione di intravvedere vagamente quel segreto che, credo, sia nascosto nel suo motto “Enumera le tue fortune”. E, comunque, trovai difficile capire davvero perché accettasse quella situazione senza fare qualcosa per uscirne ma limitandosi ad attraversarla fino alla fine. Era ragionevolmente famoso anche se una simile ambizione non contò mai troppo per lui: era il meno vanesio tra gli autori che conoscevo. Non che fosse umile ma nel suo caso era proprio la consapevolezza di se stesso che lo proteggeva dagli adulatori. Questa sua qualità esisteva prima di ogni riconoscimento e di ogni fama, prima addirittura del successo. Tale consapevolezza non lo lasciò mai, ma non gli proveniva dalle adulazioni, dal confronto con gli altri o dai riconoscimenti letterari; era piuttosto connaturata alla sua grande abilità nel trattare la lingua, e nel farlo rapidamente, quando gli andava a genio o, meglio, direi: non gli andava nemmeno a genio, perché non amava esibire la palese perfezione finale e neppure vi aspirava. In altre parole Wystan era benedetto da quella rara confidenza in sé stesso che non necessitava di ammirazione e di buone opinioni altrui; e che può benissimo reggere l’autocritica senza cadere nel trabocchetto del dubbio perpetuo. Questa cosa spesso può essere confusa con l’arroganza, ma Wystan diventava arrogante solo quando qualche volgarità lo provocava; allora si proteggeva con i modi rudi e abbastanza improvvisi, tipici dell’inglese di razza. Wystan sapeva che “la poesia non fa accadere nulla: sopravvive”. Riteneva insensato che il poeta avocasse a sé dei privilegi o chiedesse permessi speciali. Nulla era maestoso in Auden quanto la sua integra sanità e la sua salda reputazione per la sanità. Il fatto principale era non avere illusioni, non accettare pensieri che impedissero di guardare in faccia la realtà. Ecco perché Wystan rigettò le sue immature credenze di sinistra; per gli eventi che sappiamo: processi a Mosca, patto Hitler-Stalin, esperienze di guerra civile spagnola. Sono gli eventi, così come le emozioni, a mostrare le cose, diceva, e dunque questo spiega da dove poteva essere saltato fuori: La storia agli sconfitti / sta bene se lo dite ma non giova né perdona. Non so se Stephen Spender avesse ragione a ribadire che fu la fede, la stringente necessità di Wystan; sono certa comunque che, più semplicemente, una necessità fu bazzicare con le parole e scrivere versi. Certamente sembra poco probabile che Wystan da giovane conoscesse il prezzo da pagare per diventare un grande poeta, e penso che verso la fine considerasse troppo alto questo prezzo. In ogni caso, i suoi lettori, possono solo essergli grati per averlo pagato fino all’ultimo centesimo, quel prezzo. E noi, suoi amici e sodali, possiamo trovare qualche consolazione nello scherzo sublime che Wystan continua a tenderci dall’altra parte del mondo: Wystan confidò a Spender che la sua anima saggia e incosciente avrebbe scelto per conto suo il giorno ideale per andarsene. La saggezza di sapere “quando vivere e quando morire” non è concessa ai mortali ma Wystan, sono indotta a crederlo, potrebbe averla ricevuta quale suprema ricompensa, quella che gli dèi crudeli elargiscono ai loro servitori più fedeli. Così Hannah Arendt ci svela Wystan Auden. E così, grazie a lei, scopriamo quanta emozione può esserci in un sentimento; quanto amore, affetto, complicità, amicizia e devozione possono nascondersi dietro l’…odio per la compassione. Una cronaca di emozioni che sarebbe piaciuta alla più grande mente dell’Età dell’Ansia.