In quali occasioni camminiamo scalzi?
Quando andiamo al mare, per esempio; a molti di noi piace farlo a casa magari su un bel parquet che restituisce il calore e la spinta della pianta del piede; ma soprattutto lo abbiamo fatto quando eravamo bambini, quando “...s'andava scalzi per i fossi...[e]...si misurava l'ardore/ del sole dalle impronte lasciate sui sassi.”[1]; nei tempi in cui si saliva a piedi nudi sul mandorlo e si scendeva.
Ecco cosa è, nella sua apparente semplicità, un haiku: un'impronta lasciata sui sassi. Nei suoi tre versi, rispettivamente di cinque, sette e cinque sillabe, molto emerge dal poco e comunque, a misura del suo ardore, l'essenziale appare nella sua assenza.
E' “l'acuta presenza” di qualcosa che è appena passata o che deve ancora -fisicamente- apparire come quelle emozioni mosse da una musica che non è presente realmente ma che si ricorda e risuona nella nostra testa: un “niente” quindi che produce qualcosa di fisico che si manifesta in un nostro cambiamento d'umore, un sorriso, una lacrima. Una mutazione. Valerio Magrelli scrive a questo proposito[2]in un suo breve trafiletto (haiku in prosa?) che “...spesso proprio l'assenza di suoni può provocare un nuovo desiderio di ascoltarli, cioè una loro più “acuta presenza”- immagine questa tratta da Attilio Bertolucci-; il silenzio , il vuoto, l'assenza, dunque rappresenta “una paradossale forma di nutrimento”. Per crescere “...ogni cosa ha bisogno dell'humus dell'assenza”.
Qui, in queste poche parole, è racchiuso lo spirito degli haiku. Queste poesie di 17 sillabe sembrano facili e sembrano quindi suggerire che si possa diventare poeti, fare poesia, con grande semplicità. E' così ma in un senso diverso. Più si è semplici-più si torna ad esserlo-più virtù si posseggono e si recuperano: il lavoro a queste “semplici poesie” ha senso solo se coincide con la edificazione, con la ristrutturazione di sé. Ciò equivale a fare della Vita la posta in gioco e, insieme, la pietra di paragone dell'opera.
L'haiku è una forma di riappropriazione spirituale della Natura alla quale lo stesso poeta appartiene. E' una specie di lucchetto-sentite scattare il sette tra i due cinque?-che ci assicura ad alberi molto vecchi, alle maestre silenziose, le montagne, alle onde del mare e alle stelle del cielo. E' fuor di dubbio che l'haiku è un evento naturale: il cinque e il sette infatti esprimo ritmo e armonia del mondo. Nel pensiero orientale 5 sono le stagioni (le quattro fondamentali più il Nuovo Anno), 5 sono le Attività, gli Elementi, le Note ed è superfluo ricordare quanta risonanza produca il 7 anche nella nostra cultura occidentale: le Opere di Misericordia, i Vizi capitali, i Colori dell'Arcobaleno, le Note,...
Il ritmo naturale, l'avvicendarsi cioè delle cose, il recupero dell'armonia: questi sono il mezzo e il fine dell'haiku e chi scrive viene risucchiato all'interno di questo paradosso nel quale una presenza emerge dall'assenza che la circonda: il poeta emerge dall'haiku se l'haiku “svanisce” e l'haiku emerge dal poeta se questi si fa da parte.
Supponiamo di irritarci per qualcosa [3]: esprimiamo subito in diciassette sillabe la nostra irritazione così facendo essa si è trasformata in qualche altra cosa.
Piangiamo.
Proviamo a trasformare queste lacrime in diciassette sillabe e subito ci rassereniamo: composte in diciassette sillabe le lacrime di sofferenza si sono allontanate da noi ed è rimasta la gioia di essere uomini che sanno piangere.
Pur nella sua brevità l'haiku impone una sorta di codice necessario ad evitare ogni descrizione superflua. Innanzitutto ogni haiku deve iscriversi in una delle cinque stagioni. Il poeta può usare e può essere usato da una parola che rimanda alla stagione: a tutti gli effetti lui stesso si fa stagione e la rappresenta così la luna piena non potrà che essere la luna d'autunno e la sua malinconica dolcezza, così come la luna brumosa altro non è che la primavera e la sua rinascita. Questo è il cosiddetto kigo, l'indicazione temporale che permette di collegare il poeta alla stagione e viceversa: è per così dire il sasso gettato nello stagno, la sua inclinazione ne decreterà la traiettoria e la sorte; potrà rimbalzare più volte sul pelo dell'acqua (non più dei tre versi dell'haiku) e finirà nel fondo dello stagno. Dopo il kigo, fa parte del codice non scritto dell'haiku il kireji, una sorta di interiezione poetica come i nostri “oh!” e “ah!” che aiutano a costruire la struttura 5-7-5 ma informano anche sullo stato d'animo del poeta: in modo molto discreto , attraverso il kireji, il poeta lega il suo stato d'animo -ammirazione, stupore, dubbio, gioia, rassegnazione- a ciò che lo circonda, riflesso probabile di quello che vede intorno; desiderio di trasferire quello che prova a ciò che lo circonda: il sasso è lanciato ma è anche raccolto ; lo stagno è colpito ma allo stesso tempo colpisce.
Questa delicata presenza dell'io, destinata a sfumare nel corso di sole 17 sillabe fino alla sua totale scomparsa/fusione, è la caratteristica dello spirito zen: la fusione armonica con la Natura avviene se l'Uomo perde di vista il suo ego.
Quale è il modo migliore per perdere di vista il proprio ego se non quello di ritornare “...scalzi per fossi” come facevamo da bambini o quello di riprendere quella musica che abbiamo realmente ascoltato e che ci risuona nella testa(?), tornare a quell'istante e quel posto e a quell'emozione rotonda, piena e sensuale che abbiamo assaporato del/dal mondo FISICO?
La vera pena dell'uomo è di non vivere in un mondo FISICO -quanto è più vero oggi se pensiamo all'altro mondo del web-come invece si faceva da bambini, quando salivamo su un albero a raccogliere mandorle o ciliege, quando soppesavamo con cura la pietra da lanciare sul pelo dell'acqua, quando per accendere il fuoco raccoglievamo le foglie che in autunno il vento ci portava in dono [4]. L'haiku cerca di restituirci questo paradiso e lo fa mostrandoci, senza fronzoli e senza giri di parole, che ogni dolore, ogni delusione, ogni disperazione così come ogni suprema gioia sono sopportabili, cioè noi, per Natura, siamo fatti per sopportare tutto questo. Ciò che non possiamo assolutamente sopportare è il male di vivere in un mondo non più FISICO [5], un mondo senza ritmi, senza stagioni: questo è contro natura e da questo veniamo sopraffatti ed annientati.
Questa è la ragione per la quale siamo sempre alla ricerca di quell'ardore iniziale col suo corredo di immagini primitive e antiche che ancora ci dominano. In un haiku la Natura ci accoglie nelle sue meravigliose semplici esibizioni di luci, nuvole, temporali, tra i rami di un mandorlo, sotto un manto di rugiada, nei suoi fiocchi di neve, in mezzo alla lava incandescente, nel fondo di uno stagno.
Impronte, impronte lasciate sui sassi.
Tre brevi versi sulla Pagina.
Poiché è-inutile dirlo- difficile vivere in un mondo da cui non si può evadere, si deve tentare, per quanto possibile, di renderlo FISICAMENTE accogliente, anche se per breve tempo, quello di una vita o quello di piccole diciassette sillabe. Questa è la vocazione del poeta di haiku: qui la Natura assegna all'Arte la sua missione, quella di restituire armonia al mondo e arricchire il cuore degli uomini.
Cielo terso d'autunno
e un antico boschetto
come siepe.
Cielo chiaro d'autunno
tutti questi passeri-
frullare d'ali.
Dolce ricordo:
pettinature di bimbi-
le viole fiorite.
Ah! L'usignolo-
ma solo pochi tra noi
se ne accorgono.
Giungendo batto
ritornando busso
la notte intera.
Passate di qui
cercando di evitare
i ricci caduti.
Al chiar di luna
le creste di gallo
sbocciate ovunque.
Ormai l'amore per me
è afferrabile quanto
zucca o lumaca.[6]
Riferimenti
[1]-L. Sinisgalli da Vidi le Muse, Mondadori ,1943;
[2] V. Magrelli Quella musica imposta che impedisce di essere, da Repubblica del 24 Agosto 2014;
[3] Natsume Soseki Guanciale d'erba Neri Pozza 2001;
[4]Philippe Forest Sarinagara Alet 2008;
[5]Wallace Stevens Aurore d'autunno, Adelphi 2014;
[6] Nota Bene: nella traduzione dal giapponese all'italiano viene evidentemente persa la ripartizione sillabica 5-7-5 dei versi che compongono l'haiku. Ryokan Novantanove haiku, La Vita Felice, 2011.
Nessun commento:
Posta un commento