Oggi noi chiamiamo
tecnica,
quella che i Greci chiamavano arte
e riteniamo che essa identifichi l’insieme degli strumenti utili a
svolgere una data attività. Ma è un errore: questa è la
tecnologia. La tecnica è, secondo una felice intuizione di
G. Ungaretti [1]
“...un’impresa
sorta dalla memoria [...] ...il risultato di una catena temporale di
sforzi coordinati... necessari a porre ordine in una materia caotica.
La tecnica è cioè un metro, una misura intrinseca alla memoria; è
un ritmo...”
una regolarità in
grado di marcare, preservare e tramandare una Identità.
Quando diventa necessario marcare una
identità e salvaguardare una memoria si ricorre al ritmo.
La téchne,
quindi l’arte, nasce dalla
memoria.
Come non essere d’accordo con
questa ispirata intuizione!
La tecnica astronomica nasce
dalla memoria del cielo, dalla regolarità del moto dei pianeti e dei
cerchi intorno alla stella polare. E dalle stagioni che si succedono
a un ritmo prestabilito nasce la tecnica agricola che è memoria
della terra. La tecnica sportiva e ogni danza rituale, emerge dalla
ripetizione del gesto, dalla recita dei passi. La tecnica poetica
nasce dallo scorrere regolare (in greco reo,
da cui ritmo e rima) delle parole che è memoria in sé.
Allo stesso tempo
però la tecnica è sempre stata vista come un artificio, un trucco e
quindi come tale una potenziale minaccia per l’ Identità. Tale
cosa vien ben espressa da questo brano di Chuang-tzu [2]:
“...Se uno
utilizza macchine, allora compie macchinalmente tutti i suoi atti;
chi compie macchinalmente tutti i suoi atti, ha alla fine un cuore di
macchina; ma se uno ha un cuore di macchina nel petto, perde la pura
semplicità; uno che abbia perso la pura semplicità, diviene incerto
nei moti del suo spirito...”,
diventa incerto
della sua identità.
E infatti Ungaretti [1] espande la sua precedente intuizione
fino a farne una profezia: la tecnica seppure sorta dalla memoria:
“... è allo
stesso tempo in antinomia” con essa.
La tecnica quale
artificio (la tecnologia),
è minaccia per
la memoria.
Non è
un caso infatti che la tecnica venga percepita anche come prodromo
della distruzione e della scomparsa di un mondo precedente, cioè di
una identità e una memoria. E’ stato così con la televisione che
doveva uccidere la radio e il cinema; con il web che a sua volta
avrebbe dovuto uccidere la televisione e che dire dell’ e-book
bibliofago sterminatore della carta stampata e del subdolo blog,
dell’insinuante cinguettio killers designati della frase fatta e
compiuta.
Lo stesso passaggio
dalla parola orale a quella scritta è stato visto come una minaccia
alla memoria e all’identità perché impresa che nasce per
la memoria e non da
essa. Basta rileggere il seguente brano dal Fedro di Platone [3]:
“[...]
Socrate – Ho
sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dèi
del paese, il dio...di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei
numeri, [d]
del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del
gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere
dell’alfabeto. Re dell’intiero paese era a quel tempo Thamus, che
abitava nella grande città dell’Alto Egitto che i Greci chiamano
Tebe egiziana e il cui dio è Ammone. Theuth venne presso il re, gli
rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano esser diffuse presso
tutti gli Egiziani. Il re di ciascuna gli chiedeva quale utilità
comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che
gli sembrava [e]
negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte,
dice la storia, Thamus aveva molti argomenti da dire a Theuth sia
contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli. Quando giunsero
all’alfabeto: “Questa scienza, o re – disse Theuth – renderà
gli Egiziani piú sapienti e arricchirà la loro memoria perché
questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria”. E il
re rispose: “O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza
creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno
e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E cosí ora
tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei [275 a]
inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché
esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi
cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto
richiameranno le cose alla mente non piú dall’interno di se
stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai
trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla
mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo
l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di
molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi,
mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà [b]
una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che
sapienti...”.
In questo passaggio
dalla parola orale a quella scritta -da una tecnica ad un’altra, da
un’ Età all’altra- come nel passaggio da un padre a un figlio e
da una Identità ad un’altra, diventa importante costruire e
contare sulla struttura di un buon ponte. Un ponte fisico, genetico,
culturale, spirituale che ci permetta di tenere unite due sponde e
poter trasportare quello che abbiamo ammassato (anche in modo
frammentario e disordinato) su una sponda – l’arte, la scienza,
la memoria, l’identità e gli altri pezzi del puzzle...di
un mondo organico, vivente...-
sull’altra sponda.
Quale p o n t
e può aiutarci nell’attraversamento? E chi sarà così attento da
predisporre le giuste pile
per reggere saldamente un’anima piena
fino ai reni dell’arco
e alle spalle
sull’argine? Chi ne sarà il collaudatore che certificherà e
garantirà l’accesso agevole e sicuro all’altra sponda per tutti
noi?
Il p o e t a più di
tutti gli uomini, come il p o n t e più di tutte le costruzioni “...
è il tenutario, lo spettatore del
teatro di un io contingente...” [4],
è quello che sorregge le identità
effimere, le biografie che passano da una sponda ad un’altra.
“...tutti i poeti sono erranti...“
come tutti i ponti non sono abitabili se non da ....erranti!
Queste considerazioni di Maria Calandrone si riferiscono a un
poeta/ponte e alla sua ultima raccolta/costruzione: Il
sangue amaro di Valerio Magrelli [5] .
La Calandrone dice
espressamente che sta parlando di un poeta/ponte [4] :
“...quando
abbiamo ormai attraversato l’intero libro.... a un passo dalla
chiusa...” o, potremmo dire,
dall’altra parte del ponte, “...Magrelli
si scaglia contro l’Io...” cioè
quell’ansiosa identità di “....bradi
animali umani che circolano continuamente tra dentro e fuori...”
.
Ci pare di vederli
gli erranti dell’Età dell’Ansia in cerca di un guado o magari
di un ponte nuovo, un piccolo ponte con pile
binate- che sono da preferire per
estetica e trasparenza agli altri tipi di pile- con un appoggio
razionale sotto le anime.
(Indifferentemente si potrebbe parlare di pile binate dei versi per
via della loro estetica e trasparenza così come anche dell’appoggio
razionale su cui le anime dei versi s’ergono e si reggono!)
Il Poeta/Ponte
Magrelli si
costruisce in questa raccolta per
trasportarci sull’altra sponda e consegnarci alla nostra nuova
Identità di uomini sfiniti dall' estenuante e interminabile Età
dell’Ansia, disillusi dall’Età della Tecnica e
smemorati/smarriti di fronte all’Età della Tecnologia.
Natale, credo,
scada il bollino blu/del motorino, il canone URAR TV,/poi l’ICI e
in più il secondo/acconto IRPEF-o era INRI?
Nessuna arte
potrà mai nascere da questo rumore di
acronimi moderni fatti per
la memoria; meri artifizi che impongono una sorta di carpe
diem allo scadenzario delle ansietà
moderne. Come diventa evocativo e ritmico quell’INRI
posto alla fine della prima quartina! ( Alla fine di una
crocefissione?)
La password, il
codice utente, PIN e PUK /sono le nostre dolcissime metastasi./Ciò è
bene, perché io amo i contributi,/l’anestesia, l’anagrafe
telematica,/
Senza renderci conto
veniamo invasi, minacciati da tutto ciò che dovrebbe aiutare la
nostra identificazione: i pin, i puk, le userid, le password, le
loro scadenze e successive riproposizioni, diventano i nostri codici
a sbarre
per definirci per ricordare e ricordarci.
Italo Calvino sostiene [6]
che due
“...sono le
condizioni necessarie dell’identità: [la] prima [e’] che io sia
in grado di ripetere un’esperienza, sapendo di ripeterla, per
esempio riconoscermi guardandomi allo specchio; [la] seconda [è]
che gli altri siano in grado di capire, da una volta all’altra, che
io sono sempre io...”
Oggi più che
specchiarci ci
guardiamo e vogliamo essere guardati; su uno schermo, quello di uno
smartphone, quello di un notebook. Lì su quella “bacheca”, su
quello specchio cinematografico, lasciamo da una volta all’altra,
da un istante all’altro (senza più nessuna attenzione al ritmo e a
una regola/ regolarità) il nostro cambiamento.
Per svolgere le nostre attività non
abbiamo più bisogno di ritmo ma di istante,
non di tecnica ma dell’uso veloce di strumenti, di tecnologia
dunque. La tecnica è stata arte perché impresa sorta dalla
memoria ma l’artificio per
la memoria -la tecnologia- è lì per sostituire al ritmo l’istante
con la conseguente perdita di identità:
ma sento che
qualcosa è andato perso/e insieme che il dolore mi è rimasto/mentre
mi prende acuta nostalgia/per una forma di vita estinta: la mia.
Magrelli con sangue
amaro porta a termine questo viaggio
verso l’ Identità dell’Uomo dell’Età post- tecnologica e lo
fa dopo due tappe importanti nelle quali ha seguito ( ha osservato)
l’evoluzione dell’Identità che , prima, nei Disturbi
del sistema binario [7], cerca di
emergere tra coppie concettuali ed emotive dialettiche e contrapposte
( a volte irriducibili come la famosa anatra-lepre di Wittgenstein);
successivamente, nella Geologia di un
padre [8] viene ricercata, l'identità,
scientificamente, scavando nel profondo, quasi si trattasse di
un’impronta fossile, un segno indelebile che ci precede e ci
segue per definirci in ogni istante intermedio.
Il sangue amaro
è la fine di questo processo analitico e psicoanalitico, di questa
impresa sorta dalla memoria collettiva ed individuale che
(ri)-conduce ad un identità primitiva: l’Uomo ama rievocare se
stesso e la propria origine perché sente la mancanza di sé.
Cosa è quella
cicatrice della figlia [5]
...che una sua
compagna/tracciò sopra la guancia...
se non una
rievocazione?
Perché la
guardo? Solo per ripetermi che il Tempo/lì è trascorso, affidando
il saluto ad un’unghiata.
Quel segno fortuito
è il contraltare dei “tatuaggi” di Facebook, dei “piercing”
di Twitter di quei segni per la memoria che le tecnologie impongono
quale affermazione di una Identità: un segno dalla
vita contro i segni per
la vita.
Non è primitivismo questo?
Come è importante
che il Tempo trascorra con un suo ritmo! E invece, oggi, l’ansia e
la tecnica erodono e demoliscono tutto ciò che precede e segue.
Hanno creato aritmie temporali, linguistiche, emotive per concentrare
tutto nell'/sull'/all’istante senza più riguardo per il passato e
futuro. Come dice Jonathan Franzen [9]:
“...siamo ormai
abitanti di un epoca che ha perso la propensione a essere
posterità...i tecnici hanno demolito il ponte e il futuro è ciò
che segue automaticamente....ci troviamo a passare la maggior parte
del nostro tempo a mandare SMS, e-mail, tweet ...Ci dicono che per
rimanere competitivi [in tutti i sensi] dobbiamo dimenticare le
discipline umanistiche e insegnare ai nostri figli “la passione”
per le tecnologie digitali ...ma [non abbiamo capito] che se due più
due fa davvero quattro, questo è dovuto al fatto che Goethe ha
scritto la poesia Bonaccia....”
E Magrelli nel
recupero di un' Identità psicoanalizzata e nanotecnologica non
trova di meglio che rintracciare nel primitivismo [5] questo
possibile ennesimo approdo di sé.
Ponti/poeti
I ponti! Quanti
ponti nella storia, ancora in costruzione o già in rovina!/Davanti
al loro gesto connettivo, davanti al loro amore pontificale,/ripenso
ai tanti riti celebrati in tanti luoghi di passaggio e guado./Per
Ellade, nel ponte a Finisterre, fu sepolto un bambino, mentre Pont
d’Os,/situato nella Loira, sorgerebbe sui resti di invasori
sconfitti/e trasformati in fondamenta. Tali efferate pratiche
miravano/a fare delle vittime anticorpi, segreti spiriti protettori
dell’opera./Vennero poi liturgie meno brutali, per addomesticare
questa pena./Così, ad esempio, nell’antica Roma, prima di
fabbricare un nuovo ponte,/le vergini Vestali gettavano nell’acqua
bamboline di giunco/(si tratta del medesimo sistema che Eliade scorse
nel brahmanesimo,/con l’impiego di effigi o figure di pane, invece
di creature sacrificali).
Nella sua impresa
autoreferenziale di
farsi ponte per rievocarsi ed attraversarsi, Magrelli è consapevole
che a scrivere, a costruire il ponte, è lui in quanto esemplare di
uno sciame di [6]
“...bianchi
eurocentrici consumisti petrolifagi e alfabetiferi...”
con le fondamenta
delle identità ben piantate in una colonia di cromosomi affini
che abitano le nostre cellule e che sentono una solidarietà e
comunanza tra loro mentre un rapporto di aggressività esiste tra
cromosomi avversi.
L’Età dell’Ansia è congenita
La nostra
individualità è attraversata da una continuità genetica che si
frantuma e miscela incessantemente secondo stratificazioni
“geologiche” che hanno radici sia nella casalinga
nascita di un nuovo individuo che nel profondo big-bang spazio
temporale. L’Età della Tecnica è congenita.
E allora per non
scoraggiarci nella vana ricerca di un nuovo IO non possiamo che fare
questo passaggio a un neoprimitivismo post-tecnologico : nella Età
della Tecnologia dove qualunque ritmo è minacciato dalla presenza
dell’istante l’unica sponda
raggiungibile è la Natura, vale a dire recuperare il
sentire di una popolazione dell’Alto
Volta che nella persona umana distingue nove componenti [6] :
“...1) il corpo
che si riceve dalla madre, 2) il sangue [amaro?],
che si riceve dal padre, 3) l’ombra che il corpo proietta, 4)
calore e sudore, 5) il respiro, 6) la vita, o meglio una particela
della vita, che è un’entità in cui tutti gli esseri viventi sono
immersi, 7) il pensiero, suddiviso in intendimento e coscienza, 8) il
doppio, che è la parte immortale , che può compiere e subire le
stregonerie ( si stacca dal corpo ogni notte per vagare nei sogni, e
poi definitivamente qualche anno prima della morte per andare nel
villaggio dei morti dove avrà altre due vite e altre due morti da
morto e finalmente si incarnerà in un albero), 9) il destino
individuale...”
Se
Tutto si tiene è perché i poeti, come i ponti, tengono le sponde:
erti sulle loro pile reggono l’anima, riempiono il vuoto e
alleviano il passaggio.
Se tutto dovesse
andar bene,
ma veramente bene, senza incidenti o crolli,
infine arriverà la tremarella.
Vedo amici più anziani che
vibrano
il mento scosso, le mani inarrestabili.
Parliamo allora di questo movimento,
un vento che soffia da
dentro
per scuotere le foglie delle dita
e non si ferma più.
E’ questo stormire
neurologico
di fronde che dunque mi attende
se tutto, proprio tutto, dovesse andare bene.
E mi tramuterò in una betulla
o in
un cipresso sul bordo del fiume,
con quel tremore di luci
alzate dalla brezza.
Mi farò soffio, mi farò
soffiare,
panno lasciato al sole ad asciugare.
Riferimenti
[1]-G. Ungaretti,
lettera scritta a Leonardo Sinisgalli per il primo numero di Civiltà
delle Macchine, Gennaio 1953;
[2]-Chuang-tzu, Zhuang-zi,
Biblioteca Adelphi 1982, 5ª ediz.;
[3]-Platone, Fedro
Piccola Biblioteca Einaudi-Classici 2011;
[4]-M. Calandrone,
Poesia
Aprile 2014 N° 292;
[5]-V. Magrelli,
Il sangue amaro, Einaudi 2014;
[6]- I. Calvino, Civiltà
delle macchine, XXV, 1977;
[7]-V. Magrelli, Disturbi
del sistema binario, Einaudi, 2006;
[8]-V. Magrelli, Geologia
di un padre Einaudi,2013;
[9]-J.Franzen, Internazionale,
n°1022, 2013 ;
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