domenica 7 novembre 2021
In viaggio con Brodskij: un monologo. Parte II
Molti pensano che la poesia abbia a che fare con l’inventiva, che debba cioè spingersi sempre oltre cercando forme nuove, sperimentando mezzi espressivi nuovi, servendosi di provocazioni e prove di abilità vocali, linguistiche, mnemoniche…Ma, di fatto, di forma ce n’è una sola e la crei con le parole e certe regole. Inoltre, gli schemi metrici non sono semplici artifici tecnici, sono formule magiche. I nostri corpi sono pentametri giambici, sono il blank verse inglese di Shakespeare, evoluzione dell’ endecasillabo italiano.
Gli schemi metrici sono vere e proprie entità spirituali, in ogni caso, oggetti magnetici che attraggono o respingono. La nostra natura, la nostra cultura non viene da luoghi e posti precisi ma dalla lingua e dal respiro. È bene ricordare che i romani usavano il verso di quindici sillabe per i canti militari proprio per la loro peculiare scansione con le brevi e le lunghe che accordava la marcia dei legionari. Nel passaggio dal latino al francese e alle altre lingue latine è successo che quelle 15 sillabe si sono ridotte a 14, a 12 e poi a undici. Cioè l’alessandrino francese e i versi che ne derivano, fino all’endecasillabo, non fanno che ripetere il rumore dei passi delle legioni romane.
Tutto questo per dire che non si può insegnare a scrivere una poesia (tutt’al più a marciare): puoi solo insegnare i trucchi tecnici per… vederci più chiaro, per illuminare, come un faro, tutto intorno, saltuariamente; per (ri)percorrere la scala delle cose e osservare le trasformazioni; dai triremi ai sommergibili, dai mari ghiacciati a quelli surriscaldati, dalle burrasche egee agli uragani mediterranei.
Il fascio luminoso dà conto di tutto questo.
Se volessimo parlare di un impegno civile del poeta bisognerebbe parlare di una poesia della civiltà e non c’è migliore poesia in grado di sostenere la civiltà di quella italiana.
Tanto per cominciare c’è Umberto Saba, un tradizionalista ma con tutta una serie di tranelli. Poi Giuseppe Ungaretti, che ha preso Mallarmé alla lettera e dunque non lascia troppe parole sulla sua pagina per via del…segreto. Poi, ovviamente, c’è Montale e Pavese (fondamentale per chiunque si occupi di poesia) e ancora Zanzotto e Penna. La poesia italiana, inoltre, va suggerita per le sue operazioni mentali e per la sua sottigliezza. Oltre alla raffinata educazione di stampo europeo che ricevono, i poeti italiani possiedono una esemplare familiarità con l’artificio e soprattutto con le …colonne che in Italia sono onnipresenti come gli alberi. Il risultato di questa situazione è che l’artificio è percepito come naturale, e viceversa, il naturale come artificio.
Il punto è che l’Italia, nell’immaginario collettivo, fornisce sempre qualcosa a cui anelare; la sua, è una poesia dell’occhio affamato, una scrittura che adotta una sorta di estetica barocca della curiosità, grazie alla quale fra tante parole, formule e altari, tace l’essenziale che deve essere scoperto, a volte inventato e che, a conti fatti, induce a guardare più attentamente.
La civiltà funziona così: per induzione.
Se dovessi dare un consiglio a un giovane poeta gli direi di leggere le cose antiche. Penso che nessuno abbia il diritto di prendere una penna in mano senza aver prima letto Gilgameš. O di scrivere in inglese prima di aver declamato le Metamorfosi di Ovidio. E lo stesso discorso vale per Omero e Dante. Dal mio punto di vista la letteratura contemporanea è un effetto di quella causa antica. Se vuoi imparare a respirare e insegnare un ritmo al tuo orecchio e alla tua lingua devi leggere Orazio. Se vuoi imparare una struttura di pensiero simbolico e vedere come “lavora” la metafora per animare la mitologia devi leggere Ovidio: nella sua versione di Eco e Narciso, entrambi appaiono nell’acqua, ma Narciso la scaccia; e quando Ovidio ti racconta la sofferenza della ninfa…Non è che ti metti a piangere…O magari sì.
Credo che a modificare l’attitudine o la percezione di certi fenomeni come per esempio “leggere” (vorrei dire fare) poesia è quella sorta di disposizione d’animo elevata, quella leggerezza della quale hanno parlato a più riprese Simone Weil e Italo Calvino.
L’equivoco da evitare è pensare di essere più avanti di quelli che non ci sono più, in quanto rivendichiamo una presunta modernità. Leggendo gli antichi ci rendiamo conto che questa idea è completamente sbagliata. Potrà al limite essere vera se riferita alla tecnologia, ma rispetto alla poesia ne usciamo decisamente ridimensionati. Se fossi più giovane, scriverei un libro di imitazioni. È un mio vecchio sogno, fare una raccolta di riscritture, in particolare della scuola alessandrina, soprattutto di un tizio che è il mio preferito e che fu una vera e propria ossessione per Salvatore Quasimodo: sto parlando di Leonida di Taranto, un tipo pieno di immaginazione.
Ma le cose belle nascono da una sorta di “intervento divino” e non ha senso preoccuparsi perché questo possa accadere o meno, non lo puoi controllare. Resta un segreto anche per te. Solo la possibilità di fare il male è sotto il nostro controllo. Uso il termine “intervento divino” come una sorta di metafora psichica ma quello che davvero intendo è l’intervento del linguaggio su ognuno di noi e in ognuno di noi. È come quel famoso verso di Auden su Yeats: la folle Irlanda ti ferì facendoti poeta. Ciò che ti ferisce e ti fa poeta è il linguaggio: non sono la tua filosofia personale o il tuo credo politico e nemmeno la tua spinta creativa o la giovinezza. Come ha più volte ricordato Auden, per essere poeta non devi usare le parole per dire qualcosa, ma ti deve piacere «bazzicare le parole, ascoltare quello che hanno da dire».
Per questo al culmine della mia cosmologia metterei il linguaggio, questa entità grandiosa e misteriosa. Dire che il poeta «sente la voce della Musa» non ha alcun senso, a meno che non si specifichi la natura della Musa. E se andiamo a vedere, la voce della Musa è la voce del linguaggio. O forse sarebbe ora di riconoscere nel linguaggio, nel suo gene e nel suo genio, l’imprescindibile Musa che genera le nove conosciute.
È tutto molto più terra terra di quanto non sembri: la poesia è la tua reazione a ciò che senti, a ciò che leggi.
Oggi l’unica cosa che mi sorprende davvero è quanto spesso ci imbattiamo, nonostante le circostanze, in esempi di decoro e raffinatezza. Perché la situazione di base, presa nella sua totalità, non aiuta certo a comportarsi in modo decoroso o corretto. Non credo nelle infinite capacità della ragione o della razionalità. Mi affido alla ragione solo nella misura in cui mi conduce all’irrazionale, perché è a questo che la ragione, in fondo, serve: a portarti il più vicino possibile all’irrazionale. Poi lì ti abbandona. Per un po’ sei preso dal panico. Ma è lì che dimorano le rivelazioni. Non che tu possa andarle a prendere a piacimento. Ma nella mia vita due o tre rivelazioni le ho ricevute, o quantomeno si sono posate sulla soglia della ragione e hanno lasciato il segno. So bene che tutto questo ha ben poco a che vedere con qualsiasi impresa religiosa ordinata. Il punto è questo: se per me esiste una divinità , questa è il linguaggio.
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