venerdì 12 novembre 2021
In viaggio con Brodskij: un monologo. Parte III
Durante la fase della scrittura ci sono momenti in cui sei quasi uno spettatore. Quando stai mischiando le parole a quelle due o tre idee, ti capita di ricevere cose che non sapevi nemmeno che esistessero là fuori. È a questo che ti conduce il linguaggio. Il linguaggio è uno straordinario acceleratore del processo cognitivo. Se la parola è ciò che ci distingue dalle altre specie, allora la poesia – l’operazione linguistica per eccellenza – è il nostro scopo antropologico. Chiunque consideri la poesia alla stregua di intrattenimento, di «lettura», commette un crimine antropologico, in prima istanza contro se stesso.
Oggi viviamo in un mondo in cui quelli che fino a trent’anni fa erano considerati valori, vizi e virtù (non vi suonano strane queste parole?) non dico che si siano scambiati di posto, ma quantomeno sono entrati in crisi o ci appartengono solo privatamente. Domande come questa: “ siamo sicuri che i nostri valori siano universali?”; o come quest’altra: “ in cosa credi?”, un tempo non sarebbero risultate oziose. I nostri predecessori avevano forse più cose in cui credere. Il loro Pantheon, i loro templi, erano più popolati dei nostri. Noi, in un modo o nell’altro, siamo tutti terribilmente agnostici. Ma ci sono agnostici e agnostici. E direi che i poeti, in ultima analisi, venerano una sola cosa, che non conosce altra incarnazione se non nelle parole, vale a dire…il linguaggio. Ed è attraverso il linguaggio che il poeta cerca di animare la mitologia, di trovare il senso alle storie che ha ereditato. È un lavoro di interpretazione e credo che questa sia una funzione importante della specie.
In un mio saggio ho scritto: «In certi periodi della storia solo la poesia è capace di confrontarsi con la realtà perché la condensa in un qualcosa di afferrabile, un qualcosa che altrimenti la nostra mente non saprebbe ritenere».
È probabile cioè che la poesia dia il meglio di sé come testimonianza della sensibilità umana cosicché, grazie alla poesia, il linguaggio acquisisce il potere della rinomanza (il kleos come la chiamavano i Greci) e della risonanza. Giusto per fare un esempio, prendiamo l’età augustea. L’idea che ci siamo fatti della sensibilità umana dell’epoca è basata su Orazio, per esempio, sulla sua visione del mondo, o su quella di Ovidio o di Properzio. Non abbiamo altre vere testimonianze, francamente. Il carpe diem è una soluzione tampone che mantiene in equilibrio…l’Impero Romano.
Cosa ha sempre offerto la poesia rispetto alla prosa , alla religione , alla filosofia e alla scienza? Cosa può fare la poesia per eludere il senso di caos e per difendere la nostra sensibilità dalla brutalità dei tempi?
Come ho già detto la parola è una reazione al mondo, un po’ come fare le smorfie nel buio o le boccacce a qualcosa o qualcuno di antipatico. È una reazione e in questo senso è funzionale. È protettiva? Ti protegge? No, forse no. In realtà, però, ti mette a nudo ed è molto probabile che esporsi in questo modo porti realmente a saggiare le proprie qualità, la propria… resilienza. Oggi come oggi riuscire a produrre un qualcosa di armonioso equivale quantomeno a dire in faccia al caos: «Vedi, non puoi spezzarmi, non ancora». E quel «mi», nel linguaggio, sta per ognuno di noi. La poesia è dunque solo il modo in cui per te la luce o il buio si rifrangono. Cioè, apri la bocca. Apri la bocca per gridare, apri la bocca per pregare, apri la bocca per parlare o solo per confessarti.
Beh, si presume che ogni volta ci sia qualcosa che ti costringe a farlo o a non farlo e, che ha fatto dire alla Szymborska: «al ridicolo di non scrivere poesie preferisco il ridicolo di farlo».
Auden ha scritto che la poesia non fa accadere nulla: sopravvive. E in questa sua sopravvivenza la poesia purifica la lingua e fa moltissime altre cose, come appunto metterci a nudo: mettere a nudo la comune condizione umana. Tanto per cominciare la poesia è un formidabile acceleratore mentale; ingloba poi una gran quantità di materiale, materiale razionale e irrazionale. Per questo mi piace paragonarla a una soluzione tampone come ho già detto: questa immagine ha un valore onnicomprensivo perché riguarda tanto una poesia scritta che una poesia letta; la sua qualità dipenderà dalla capacità di chi scrive nel tenere insieme tante cose e da quella di chi legge nel rintracciarle e rimescolarle per una propria personale “soluzione”.
Quella della soluzione tampone, poi, è una definizione lessicalmente intrigante perché potrebbe stare a significare anche ….risultato temporaneo e dunque suscettibile di ulteriore evoluzione e trasformazione ed è inutile che vi ricordi che se avete letto, in periodi diversi della vostra vita, L'infinito di Leopardi le vostre reazioni non saranno sempre le stesse.
Credo inoltre che la poesia sia, in termini assolutamente mondani, la forma suprema di eloquio umano e, in quanto tale, rappresenti lo scopo antropologico, o, se preferite, genetico della nostra specie. Ripeto: non si tratta di un semplice intrattenimento, una «lettura». Se il linguaggio ci distingue nella vita, la poesia ci impegna nella biologia e nella fisica in quanto è forma della materia che sostanzia se stessa.
E questa potrebbe ben rappresentare una di quelle due o tre rivelazioni che ho avuto nella mia vita.
Che cosa si sa dopo una rivelazione che prima non sapevi? Ecco, hai la certezza che stai facendo la cosa giusta. Dato che la conferma arriva da così lontano, è quasi – come dire? – avvertire che qualcuno si è dato la pena di istruirti dalle profondità dello spazio e del tempo. Comunque credo semplicemente che quando succede te ne accorgi. Non puoi negarlo. Cerchi di essere il più razionale possibile, ma non funziona. In realtà, credo che uno dei prerequisiti perché una rivelazione accada sia che…beh, di solito ti arrivano quando sei alla frutta. Un grande filosofo russo, Lev Šestov, sosteneva che esistono tre metodi cognitivi. Uno analitico, un altro intuitivo/sintetico e poi c’è il terzo metodo, quello, volendo, usato dai profeti e dalle incarnazioni divine, ed è la rivelazione. È un mezzo cognitivo anche questo. E secondo Šestov normalmente le rivelazioni si verificano quando la ragione viene meno.
La grande virtù della poesia è che nel processo creativo usi tutte e tre queste modalità cognitive contemporaneamente, se ti va bene. Se gettiamo uno sguardo schematico sul mondo e sui vari popoli che lo abitano, vediamo che in Occidente al momento l’enfasi è sulla razionalità, sulla «ragione». Mentre in Oriente dominano la riflessività e l’intuizione. Il poeta, di suo, è l’esemplare più sano che possa esistere, perché è una fusione di queste modalità.
Mi avvio a concludere questo viaggio, senza inizio e meta, con la poesia. La storia è testimone del fatto che in tutte le società i lettori di poesia non superano l’1% della popolazione. Un tempo i poeti erano costretti a gravitare intorno alle corti, sedi del potere come oggi gravitano intorno alle università, nei circoli letterari e nei lit-blog del web. Oggi dunque l’accesso alla poesia è, in pratica, geograficamente e storicamente, globale. Intanto però le radici della poesia sono sempre più profonde e lontane e se un contadino del Perù si arrischiasse - e oggi può farlo a differenza di ieri - a leggere i versi di un qualunque poeta moderno, non potrebbe che sentirsi perduto.
A tale proposito mi sento di proporre un metodo per affrontare il viaggio nella e con la poesia. È un semplice espediente che ho illustrato il 18 Maggio del 1988 nella prima edizione del Salone del libro di Torino. Innanzitutto leggere poesia è il modo migliore per affinare un gusto letterario. La poesia, come ho già detto, essendo la forma più ricercata di espressione umana, non è soltanto il mezzo più conciso e più denso per trasmettere l’esperienza umana: essa offre anche i canoni più alti per qualsiasi operazione linguistica, specialmente per quelle che si compiono sulla carta. Qui non vorrei essere frainteso: non sto cercando di sminuire l’autorità della prosa. La verità è che la poesia, semplicemente, è più vecchia della prosa e quindi ha camminato di più. Come molti, credo che la letteratura sia cominciata con la poesia, col canto di un nomade che precede tutti gli scarabocchi di un sedentario. Permettetemi a proposito di scarabocchi, di disegnare la seguente caricatura, perché le caricature accentuano l’essenziale. Immaginate un lettore che ha entrambe le mani occupate a reggere libri aperti. Nella sinistra tiene una raccolta di poesie, nella destra un volume in prosa. Vediamo un po’ quale è il libro che lascia cadere per primo. Bene, tanto per cominciare, l’oggetto nella sua mano sinistra sarà, con ogni probabilità, più leggero di quello che il nostro lettore tiene con la destra. In secondo luogo, come disse una volta Montale, la poesia è un’arte inguaribilmente semantica e per questo l’eventuale cialtroneria, in poesia, è quanto mai limitata. Dopo tre versi il lettore sa già che cosa tiene nella sinistra, perché la poesia si rivela rapidamente e la qualità del linguaggio si fa sentire immediatamente. Dopo questi tre versi il lettore può gettare un’occhiata a ciò che ha nella destra.
Se a questo punto gli accadesse di lasciar cadere questo libro, il merito, sarà dell’autore che stringe nella sinistra: vorrà dire che quella poesia ha davvero qualcosa da aggiungere a quel preciso istante e alla sua esistenza.
Concludendo, la poesia (scritta o letta) ha un passato ricco, ogni poeta (lettore) aggiunge una tappa al suo cammino secolare. Il viaggio della poesia procede proprio come un treno in corsa. Non si sa dove sia nata, e certamente non se ne conosce la destinazione. Se saliamo in vettura durante il tragitto può accadere di essere seduti in un posto lontano dal finestrino. La reazione più naturale – la più immediata e diffusa – potrebbe essere quella di voler scendere al più presto.
Ma il viaggio con la poesia deve tenere conto anche del prezzo del biglietto, della carrozza, del suo affollamento e dei compagni di scompartimento: magari resterete sorpresi proprio da piccole inaspettate rivelazioni; imparerete a cogliere segreti nel prestare ascolto e più attenzione a tanti piccoli particolari. E così piano, piano, comincerete anche voi a parlare, non fosse altro che per semplice reazione.
Comincerete magari a chiedervi cosa mai vorranno dire questi semplici versi di un famoso haiku giapponese, quello della rana:
lago vetusto/
una rana si tuffa/
rumore d’acqua/
e comincerete a …dubitare della vostra banalità nel giudicarlo banale. Magari comincerete a contare le sillabe e scoprireste così che sono solo 17, distribuite in due quinari e un settenario. Forse qualcuno dei viaggiatori che condivide il vostro stesso viaggio vi farà notare che la rana è un anfibio e che nelle culture antiche è un simbolo di rigenerazione. Rigenerazione: proprio quella sensazione che proviamo quando ci tuffiamo. Improvvisamente vi sorprendereste a pensare che la rana potrebbe invece rappresentare proprio la parola che si tuffa nella pagina per generare un suono. Un Do segnato sul pentagramma musicale che non si sente fino a quando non si suona! E ancora. La stessa rigenerazione, non potrebbe essere considerata una vera e propria reincarnazione? Dunque, il lago vetusto è il nostro corpo invecchiato e il rumore d’acqua la memoria di qualcosa, la rinomanza del nome, cioè quello che viene detto, suonato, interpretato, tramandato… E così via.
Insomma comincerete a scoprire quanto è piacevole condividere questo comune viaggio senza inizio e senza meta con un buon libro ben stretto nella sinistra.
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