Nel biennio 1926-27 il filosofo tedesco Ernst Bloch (Ludwigshafen 1885-Tubingen 1977) approfondisce gli scritti di Avicenna e Averroè sulla interpretazione dei testi aristotelici, ponendo particolare attenzione al concetto di materia. Oggi grazie alla cura di Nicola Alessandrini il testo di Bloch, pubblicato per la prima volta a Berlino nel 1952, viene finalmente tradotto in italiano.
Nella preziosissima traduzione di Avicenna und die Aristotelische Linke [1], Alessandrini fa rivivere, come lui stesso dice nella introduzione, «…La forza cardiaca della materia e il suo ardore…» [2] ( il corsivo è mio), frase che mi ha precipitato - ma meglio sarebbe dire elevato - in due ambiti per me molto cari e, come cercherò di mostrare, molto vicini l’uno all’altro: quello della fisica e l’altro della metafisica indiana.
Materia (come anche ardore) è, in generale, un termine fondamentale tanto per la fisica che per la metafisica.
Cominciamo da qui, dalla sua “semplice” etimologia.
Nella sua introduzione Alessandrini pone ad esergo la presente affermazione del filosofo tedesco:
«L’omissione dell’antica profondità nel concetto di materia non è stata ancora realmente compresa, mentre il solo fatto che il termine “materia” sia derivato da mater (madre), cioè dal seno sempre fertile del mondo e delle sue forme, figure e strutturazioni sperimentali, piene di tendenze e di latenze infinite, dovrebbe far riflettere…». Già. E infatti, Alessandrini, comincia proprio da qui la sua (la nostra) riflessione su «…Una materia sempre e rigorosamente declinata al femminile, perché materia è prima di tutto mater, madre il cui grembo fecondo partorisce forme sempre nuove, nel cui seno sono latenti le più importanti forme d’esistenza. Tale gestazione diventa il banco di prova di quell’ontologia della speranza che[…] rappresenta il punto in cui convergono la grandezza e la complessità del pensiero blochiano. Per Bloch, infatti, la posta in gioco è altissima, si tratta di dilatare l’orizzonte della speranza dal piano antropologico (per Bloch l’uomo non solo “ha” speranza, ma “è” speranza) al piano ontologico (l’essere stesso, la materia come sostrato comune di tutto l’universo, è permeabile dalla speranza),…»[3].
Qualcuno poi, come il gesuita proibito Teilhard de Chardin, sintetizzerà il tutto con una formula inusuale e dirompente per l’ortodossia cattolica ma così praticabile contemporaneamente dall’eresia cristiana, dalla fisica quantistica e ancora dalla metafisica indiana: dalla materia al logos![4]
Ma riprendiamo ancora per una attimo queste prime battute di Bloch commentate e riprese da Alessandrini e riferiamoci ancora una volta alla etimologia di materia.
È vero che materia è facilmente accostabile, per assonanza, a mater e matrice con i significati propri, rispettivamente, di “chi ha un utero” e di “forma con cui viene modellato un oggetto”; ma è nell’ India vedica che si trova l’etimologia e il significato più profondo dal punto di vista metafisico e fisico del termine. Dice Coomaraswamy nel suo La tenebra divina [5]:
mātrā (come métron) è etimologicamente «materia», non nel senso di «ciò che è solido», ma in quello suo proprio di «ciò che è quantitativo» e che ha una collocazione nel mondo (loka, locus).
Fisica dunque e infatti lo studioso indiano continua dicendo:
Tutto ciò che in questo modo è nel mondo può essere nominato e percepito (nāma-rūpa) ed è accessibile a una scienza fisica e statistica; l’essere senza misura è il dominio proprio della metafisica.
Quindi il paradosso è che la metafisica indù riesca a dare una definizione così…fisica della materia.
Ma non finisce qui perché:
è anche da notare la stretta relazione esistente tra la parola mātrā, mātṛ e māyā, «metro», «madre» e «mezzo magico» o «matrice»: mā , «misurare», e nir-mā, «determinare misurando» sono infatti usati non solamente nel senso di dare forma e definire, ma anche quello strettamente apparentato di creare o dare nascita…
Ma il pensiero vedico è profondo quanto e forse più di quello della fisica teorica e dunque si continua:
[la nascita è un concetto inseparabile da quello di sacrificio]: il sacrificio divide è uno «spezzare il pane»; il prodotto è articolato e indistinto. Il sacrificio è un dispiegare la Verità, un ordirlo in tessuto o ragnatela metafora che è comunemente impiegata altrove in relazione all’irraggiamento della luce fontale che costituisce la tessitura dei mondi. Come l’accensione di Agni è un rendere percepibile e palese una luce nascosta, così il proferire i canti è un rendere percepibile il principio silenzioso del suono. La Parola detta è una rivelazione del Silenzio, che misura la traccia di ciò che in se stesso non è misurabile.
Beh, questa è una pagina degna di un articolo di fisica delle particelle elementari magari a corredo e commento di una foto come questa che descrive un processo di annichilazione (sacrificio) e creazione (nascita) di particelle in un acceleratore
Non è forse qui catturata quella «…forza cardiaca della materia e il suo ardore…» di cui ci parla Alessandrini in questa sua godibilissima traduzione dell’opera di Ernst Bloch?
È vero, come viene detto in quarta di copertina, che il saggio “…ripercorre il tortuoso cammino che da Aristotele, attraverso Avicenna, Avicebron e Averroè , giunge a delineare un concetto qualitativo di materia, intesa come grembo infinitamente fecondo di forme…” , ma il testo è anche un’occasione per riflettere su un’altra “materia” ancora così utopica e (questa sì) veramente oscura: sempre più appare incomprensibile, contraddittoria e anacronistica questa rinuncia a trovare sintesi necessarie su tante cose, a cominciare da quelle che ci coinvolgono nella nostra quotidianità (p.es. nazionalismo & europeismo; democrazia & sicurezza; lavoro & ambiente; identità & social network).
Risulta evidente che per ogni… materia (sic!) è necessario un approccio integrato, complementare che superi cioè le polarizzazioni tra “destra e sinistra… aristoteliche” o tra conoscenze apparentemente distanti perché acquisite con strumenti diversi (fisica piuttosto che filosofia o, perché no?, poesia).
Occorrerebbe cioè sempre fare appello a quello spirito (di speranza) blochiano per il quale “è fecondo solo quel ricordo che al contempo ci rammenta quanto ancora resta da fare”.
E il ricordo che abbiamo oggi della materia è questo [6]:
«…Una manciata di tipi di particelle elementari, che vibrano e fluttuano in continuazione fra l’esistere e il non esistere, pullulano nello spazio anche quando sembra non ci sia nulla, si combinano insieme all’infinito come le venti lettere di un alfabeto cosmico per raccontare l’immensa storia delle galassie, delle stelle innumerevoli, dei raggi cosmici, della luce del sole, delle montagne, dei boschi, dei campi di grano, dei sorrisi dei ragazzi alle feste, e del cielo nero e stellato la notte».
Quanto ci resta da fare!
Quanto è ancora feconda questa madre-materia!
Riferimenti
[1] - E. Bloch, Avicenna und die Aristotelische Linke Ed. Rutten & Leoning, Berlino 1952;
[2] - E. Bloch, Avicenna e la sinistra aristotelica, a cura di N. Alessandrini, Mimesis Edizioni, Milano 2018, pg. 10;
[3] - Ibidem, pg. 11
[4] - B. Razzotti, Teilhard de Chardin. Dalla materia al verbo, Edizioni Messaggero, Padova, 1999;
[5] - Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina. Saggi di metafisica, Adelphi, Milano, 2017, 2ª ediz
[6] – C. Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, Milano 2014, pg. 45
Nessun commento:
Posta un commento