martedì 11 dicembre 2018

Gli ologrammi poetici di Maria Luisa Vezzali

Come si fa a scrivere di una poetessa che si pensa di conoscere?
Semplice: leggendo anzi olografando la sua poesia.
Sì, di Maria Luisa Vezzali – è questa la poetessa della quale voglio scrivere – possiamo venire informati dalle parole facilmente intercettabili in rete o sulla quarta di copertina di uno dei suoi rari libri e potremmo svelarne qualche dettaglio in più alla lettura dei pochi versi sversati dalla superficie cartacea nell’abisso digitale. Impareremmo così che Maria Luisa Vezzali è docente di materie letterarie nella scuola superiore che ha tradotto Adrienne Rich per Crocetti (Cartografie del silenzio, 2000; La guida nel labirinto, 2011) e di Lorand Gaspar per Donzelli (Conoscenza della luce, 2006) e che prima di quest’ultima raccolta (Tutto questo con una prefazione di Elio Grasso, Puntoeacapo edizioni, 2018) ne ha pubblicate poche altre (L’altra eternità, Laboratorio, 1987; Eleusi marina, Guerini & Associati, 1992; dieci nell’uno, Eidos 2004; lineamadre, Donzelli 2017, Forme implicite, Allemandi 2011).

È inutile, per scrivere di una poetessa che si pensa di conoscere bisogna leggerla e rileggerla e ancora una volta leggerla.

Ma leggere poesia non è operazione semplice perché le parole non vanno accolte come quelle di un racconto con lo scopo di arrivare a una fine, alla scoperta di una impensabile verità, di un retroscena o una soddisfacente comprensione del fatto. No! Leggere la poesia richiede l’impegno, la grazia e la postura del…tuffatore di Paestum, perché non sono le parole a venire da noi ma noi a tuffarci in esse e a penetrarle a diversa profondità.

Partiamo da una considerazione generale. Noi (intendo specie homo comprendente così anche i nostri antichi antenati, erectus e abilis) “ascoltiamo/scriviamo/leggiamo” poesia, perché nel farlo la …creiamo.
Penso all’homo che ha inciso l’uro di Papasidero circa 10 000 anni fa e, ancor prima, all’homo di Altamira in Spagna o di Chauvet in Francia. Vale evidentemente il contrario, trasformando l’analogia in identità: nel crearla, ascoltiamo/leggiamo/scriviamo poesia.
E qui non possiamo che rifarci a Enzo Melandri che nel suo La linea e il circolo (del 1968 e ristampato da Quodlibet nel 2004) c’informa che :

«…una delle convinzioni più inconcusse […] di tutto il pensiero critico moderno, sia esso filosofico o no [ è che] non sia possibile superare in ingegno coloro che in epoca preistorica, hanno scoperto come addomesticare gli animali, selezionare le graminacee e fondere i metalli in leghe. In queste tre attività ci sono già tutti gli schemi di ragionamento utili per arrivare fino a noi…»

Se due più due fa quattro è perché l’uomo coltivava i campi. E viceversa
Se la Gioconda ride è perché l’uomo doveva scacciare i demoni dalla grotta di Papasidero. E viceversa.
Se… Tu ne quaesieris scire nefas quem mihi quem tibi è perché i romani hanno marciato al ritmo di 15 battute lungo proprio quelle strade che avanzando, man mano, costruivano! E viceversa.

Lo stesso che si è detto per la lettura vale, per il principio di identità, anche per la scrittura.
Quello che mi preme sottolineare è questo intreccio di azioni inestricabile che, volenti o nolenti, continuiamo a compiere grazie al nostro DNA: quale stretta familiarità esiste tra l’addomesticare e trovare le parole giuste per parlare, scrivere o insegnare; e quanta ancora ne esiste, di familiarità, tra fondere metalli per produrre leghe e le conoscenze acquisite per produrre una Grande Teoria Unificata (GUT) in fisica.
Tuffarsi in queste acque profonde e misteriose, ripeto, con l’impegno, la grazia e la postura del tuffatore archetipico vuol dire leggere, o meglio come ho anticipato, olografare poesia.
La Poesia parte sì da un linguaggio ma per disattivarne le funzioni informative e renderne possibile un altro uso particolare e differente che potremmo definire autosimilare o meglio ancora frattale.
In matematica, un oggetto auto-simile è esattamente, o approssimativamente, simile a una sua parte. Molti oggetti nel mondo reale, come ad esempio le coste, sono statisticamente auto-simili: parti di questi oggetti mostrano le stesse proprietà statistiche a differenti scale di osservazione. L'auto-similarità è una proprietà tipica dei frattali.
A diversi ingrandimenti di queste strutture si annida una essenza che permea tutto l’oggetto, tanto che qualunque sua parte resta simile al tutto.
A volte leggere poesia significa doversi muovere su scale diverse di osservazione quasi si possedesse uno strumento in grado di spaziare dall’atomico all’astronomico. Succede allora che se l’eccesso di ogni sensibile possa provocare l’ annientamento dell’organo sensorio, il difetto ad ogni scala d’osservazione ne potrebbe, viceversa, aumentarne la capacità.
Leggere poesia quindi è scoprire ( ad ogni lettura, ad ogni ingrandimento!) un nuovo “difetto” introvabile e invisibile fino alla osservazione precedente : è facile così passare dal fondamento comune della nostra umanità, ( attraverso una imperfezione del nostro patrimonio genetico) alla nostra più individuale e unica esperienza racchiusa magari in un singolo verso, (il nome della materia è anima), una singola parola (ossa), una particolare disposizione di una fonema rispetto agli altri.
La Poesia della Vezzali restituisce questa caratteristica frattale tanto che per alcune composizioni (quelle ad esempio raccolte nella sezione Cartoline metafisiche di Tutto questo) si avvertono questi passaggi di scala vertiginosi che vanno da un luogo metafisico (l’esergo aristotelico) al luogo fisico (da dove la cartolina viene inviata) passando per una nota di camomilla e ancora più giù (su?) al rumore che fa il prima della vita o il dopo.
In altre composizioni ancora la Poesia - proprio come le “ossa” che si annidano nella carne per reggerci o nella scuola per sorreggerla - si insinua nella… poesia. È il caso ad esempio di questa nell’ospizio del cranio tratta dalla sezione Scuola d’ossa:

nell’unica durata nell’unico
qui possibile dimoriamo
cantando

per niente nei viali convergenti
nella madre di respiro niente
ascolto

nell’agio delle mani d’amarsi
per niente e niente seggiole intorno
al tavolo

piuttosto nella sete piuttosto
nella fame sete nella fossa
di svaso

come di notte giorno si sente
da finestre variamente aperte
nel cranio

rotolare i cibi sui ripiani
urtare le pareti del frigo
ronzando

e le porte pulsare di carne
aprire chiudere via la luce
nel fango

e le voci maturare organiche
trasudare dilatare umori
lontano

questa fitta l’abbiamo sentita
di notte giorno sentita tutta
più dentro

il nome della materia è anima
l’abbiamo sfarinata per questo
per questo


Se proviamo ad allineare le parole che abbiamo scritto in corsivo riusciamo a riprodurre questa impressione frattale e a recuperare ancora (altra e inesauribile) poesia:

cantando
ascolto
al tavolo
di svaso
nel cranio
ronzando
nel fango
lontano
più dentro
per questo

Per questa intrinseca struttura autosimigliante, alle diverse scale di osservazione (testo complessivo, strofe, verso, parola) nella Poesia della Vezzali tanto il peso che la grazia sembrano affiorare dalla pagina o se vogliamo, riusciamo ad andare loro incontro a differenti profondità.
Questo perché la scrittura olografica della Vezzali conserva la grande capacità di ricordare la nostra abilità di “addomesticare gli animali, selezionare le graminacee e fondere i metalli in leghe” senza però dimenticare la fragilità della nostra natura di animali razionali, sentimentali, rituali.

Ed è solo attraverso una lettura olografica (così come lo è stata la scrittura) che possiamo recuperare questa particolare risonanza che chiamiamo Poesia e assaporare, ad ogni particolare, l’immagine di …Tutto questo.

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