domenica 5 luglio 2015

Invenzione dell'alfabeto e Scoperta della poesia

Gli studiosi sono arrivati alla conclusione, quasi unanime, che il primo alfabeto scritto della storia umana nacque in Egitto, nel XVIII sec. a.C., per influenza cretese; ciò corrisponderebbe all’ipotesi di Aristide, citata da Plinio, secondo la quale un egiziano chiamato Meno ("luna") inventò l’alfabeto "quindici anni prima del regno di Foroneo, re di Argo".[1]
Dunque prima dell’introduzione dell’alfabeto fenicio, esisteva in Grecia un alfabeto segreto custodito dalle sacerdotesse della Luna : le tre parche e Io, sorella dello stesso Foroneo. Tale alfabeto era strettamente legato al calendario e le sue lettere non erano rappresentate da segni scritti, ma da ramoscelli recisi da alberi di specie diverse, che simboleggiavano i mesi dell’anno.
A Io e alle tre Parche si deve l’invenzione delle cinque vocali dell’ alfabeto e le consonanti B e T; a Palamede, figlio di Nauplio e re dell’isola di Eubea, quella delle altre undici consonanti; Ermete poi nella sua triplice funzione di protettore del logos, delle lettere e dei numeri, riprodusse questi SUONI in SEGNI, ispirandosi alle formazioni cuneiformi delle gru in volo. Ermete introdusse questo sistema dalla Grecia in Egitto codificando il cosiddetto alfabeto pelasgico che fu esportato da suo figlio Evandro in Italia per dare vita ai quindici segni dell’alfabeto latino, e da Cadmo in Beozia.
Alpha fu la prima delle lettere dell’alfabeto poiché alphe significa Onore e alphainein significa Inventare: Cadmo, pur mutando l’ordine delle lettere, conservò la alpha al primo posto, in quanto aleph, nella lingua fenicia, significa bue e la Beozia è la terra dei buoi.[1]
Ricordiamo che una INVENZIONE introduce qualcosa che non esisterebbe senza l’attività creativa dell’ingegno umano (ma diciamo pure, animale). Una buona invenzione serve prevalentemente a risolvere in modo nuovo ed originale un problema (tecnico) o a migliorare un processo. Qui il “problema” era trasferire dei suoni in segni e il “processo” da migliorare era memorizzare per trasmettere correttamente. Come è evidente, tutto queste cose- i suoni, la memoria, i segni, gli alberi- sono strettamente legate al nostro rapporto con il tempo e, più concretamente, al susseguirsi delle stagioni : praticamente è la risposta a una esigenza innata di comunicare cosa fare in determinate stagioni (intese in senso lato cioè non solo quelle dell’anno, ma anche della vita, dell’amore, del viaggio e così via); in una parola: pianificare e codificare delle cerimonie per dare un tempo al...Tempo.
Le cinque vocali del primo alfabeto con l’aggiunta della O lunga e della E breve introdotte dai sacerdoti di Apollo, erano i suoni associati alle corde della lira di Apollo. Ermete- protettore degli aedi fino a quando Apollo ne usurpò il ruolo- introdusse, come detto, i segni cuneiformi per riprodurre i suoni. Se ne deduce quindi che l’invenzione della scrittura, in primis, aveva a che fare con il canto, il cunto, il racconto; con i versi, dunque, che da questo momento potevano essere –è proprio il caso di dirlo - “versati” non solo nelle orecchie attraverso il suono, ma anche negli occhi attraverso i segni.
Ogni segno aveva una specifica funzione catalizzante: il processo che si avvantaggiò notevolmente della invenzione dell’alfabeto fu quello mnemonico. I segni, le lettere, degli antichi alfabeti portavano il nome di alberi. Le 13 consonanti, inoltre, erano associate a 13 mesi:
B= Dicembre; betulla o olivo selvatico
L=Gennaio; frassino di montagna
N=Febbraio; frassino
F=Marzo; ontano o corniolo
S=Aprile; salice; SS (Z) prugno selvatico
H=Maggio; biancospino o pero selvatico
D= Giugno; quercia o terebinto
T=Luglio;agrifoglio o quercia spinosa
C=Agosto; noce; CC (Q) melo o sorbolo
M=Settembre; vite
G=Settembre (fine); edera
NG o GN=Ottobre; giunco o palla di neve
R=Novembre; sambuco o mirto

Ognuna delle 5 vocali rappresentava la quarta parte di un anno, precisamente:
O (ginestra) l’equinozio di primavera;
U (erica) il solstizio d’estate;
E (pioppo) l’equinozio di autunno;
A (abete o palma) era l’albero della vita e I (tasso) era l’albero della morte e simboleggiavano assieme il solstizio d’inverno.
Questa successione arborea è implicita nella mitologia greca, latina, nella tradizione sacrale di tutta Europa , della Siria e dell’Asia Minore.[1]
Quello che ora si vuole mostrare è che l’uomo, grazie a tutto ciò, scoprì la Poesia.

A differenza dell’invenzione che, come abbiamo visto, poggia sull’attività creativa dell’ingegno umano, la SCOPERTA ha a che fare con la meraviglia: è quel momento in cui l’uomo viene a conoscenza – anche in modo casuale- di qualcosa esistente in natura, di qualcosa, appunto, che gli viene svelato (o rivelato).
Le lezioni americane tenute ad Harvard da J.L. Borges nel 1967 con il titolo originale di This Craft of Verse sono state raccolte, nella loro traduzione italiana, con il titolo L’invenzione della poesia[2], tradendo, lo spirito delle lezioni stesse e l’idea che Borges aveva della Poesia. Spirito e idea che qui cerchiamo di recuperare.
Craft può essere tradotto in diversi modi: mestiere, arte, abilità, destrezza, nave, fare, costruire; ognuno a suo modo pertinente ma credo che Borges volesse riferirsi alla technè greca quale arte appunto in grado di permettere una scoperta: un’ azione quindi tutta all’interno della Natura. Non a caso la prima delle lezioni porta il titolo L’enigma della Poesia a significare che, come ogni enigma, anche questo deve essere svelato così come avviene per le scoperte. L’invenzione dell’alfabeto e l’enigma del verso quindi consentono di scoprire la Poesia.
Se Leopardi invece di Sempre caro mi fu questo ermo colle avesse scritto, per esempio, con una diversa accentuazione, Caro sempre mi fu quest’ermo colle o Quest’ermo colle mi fu sempre caro probabilmente non avremmo scoperto nulla-tantomeno la poesia- né avremmo corroborato quella nostra particolare percezione che la scoperta poetica è cosa completamente diversa dall’ invenzione di versi.
In realtà, come sosteneva Wittgenstein [3], noi siamo immersi nel linguaggio così come un tempo i nostri antenati erano immersi negli alberi che ricoprivano e proteggevano le terre emerse e le oasi nei deserti. La visione primitiva che si aveva del mondo era dunque questa : terre scoperte sulle quali si cacciava e si rischiava di essere cacciati; boschi dove, se inseguiti, si cercava rifugio o dove si inseguivano prede che cercavano riparo; caverne dove si passava la notte al sicuro raccontando storie o rappresentandole sulle pareti alla luce fluttuante di un fuoco.
Come sappiamo, per Wittgenstein il linguaggio è una visione del mondo (5.6 I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo); il linguaggio è, cioè, una specie di plastico che rappresenta il mondo attraverso proposizioni sensate, ma anche con immagini o modelli tridimensionali (i versi opportunamente...scolpiti), che possono raffigurare, più o meno correttamente, stati di cose. C'è però una condizione fondamentale perché il linguaggio possa parlare del mondo ed è che mondo e linguaggio condividano la stessa forma logica. Quest'ultima non può essere detta, in quanto non si riferisce a nessun fatto del mondo, ma è piuttosto la condizione del riferimento, che può essere solo mostrata. Per questo la filosofia si trova, sempre secondo Wittgenstein, in una condizione paradossale perché le stesse proposizioni con cui descrive un dato fatto si rivelano destituite di ogni senso e il Tractatus si chiude con un movimento di autoannullamento: "Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate (unsinnig), se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v'è salito). Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo" e "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere" [3]. Anzi Wittgenstein si spinge oltre e in una delle sue lettere rivendica alla poesia l’unica possibile forma di espressione per mostrare e non dire (cioè tacere) la sua filosofia, proprio come si mostrano i ramoscelli recisi da alberi o gli stormi di uccelli in volo.
Noi siamo quindi immersi nella Poesia come un ramoscello è immerso nel suono o, come mirabilmente sintetizzato da Plotino, un corpo è immerso nell’Anima [4]. Per questo la Poesia può essere solo scoperta, mai inventata.
Ho iniziato con gli alberi questo post e con loro voglio terminare facendo notare quanti pochi siano stati i poeti italiani che li abbiano descritti, citati ed usati quali suoni, parole e segni della loro poesia. Si, c’è il verde melograno coi bei vermigli fior, e qualche altro sporadico richiamo, ma a conti fatti sono veramente pochi i poeti italiani che hanno riempito la loro Poesia di alberi tanto che Leonardo Sciascia nella sua prefazione alle Storie e leggende degli alberi di J. Brosse [5] chiosa:
La letteratura italiana è povera di alberi...Forse D’Annunzio è, in otto secoli di letteratura, lo scrittore che nomina più alberi; ma si ha il sospetto che la sua conoscenza si fermi appunto al nome, ai nomi: per suggestione di sillabe, per ricchezza ed eco di suono, per ricerca di onomatopee e vibrazioni- e insomma per sensualità di ascolto più che di visione...Dopo D’Annunzio, [Lucio] Piccolo è forse il poeta italiano che più stormisce di alberi, nei suoi versi: ma alberi conosciuti ed amati, che avrebbe potuto descrivere e classificare scientificamente ed anche con quel tanto di inneffabile, di misterioso...Nelle sue poesie Piccolo chiedeva ai suoi alberi di cogliere l’anima notturna, l’essenza magica, nefasta a volte e a volte benefica dello scorrere del tempo, delle stagioni e degli anni, o solo conservare tra i rami, come dei nidi, tutti quei significati che venivano dati alle cerimonie umane o che forse grazie a quegli alberi assumevano il loro vero significato. Si pensi ad esempio ad una delle poesie di Piccolo più famose: Plumelia. [ 6].
Da buon siciliano Piccolo sapeva bene che la plumelia sporgeva dal balcone di casa di ogni palermitano degno di questo nome per averla ereditata in linea materna: ...Le mamme, infatti, procuravano le talee alle figlie maritande perché si portassero dietro quell’odore di casa in cui erano cresciute.[7]
Il barone e raffinato poeta, cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, intitolò Plumelia il suo libro di poesie stampato nel 1967, ma con un appunto: «noi palermitani la chiamiamo pomelia: una stortura, forse, ma pittoresca perché il suo fiore sa di pomo ed ha la purezza della camelia».
Le plumerie vivono e fioriscono in tutte le aree a clima caldo umido del pianeta: il famoso “lei”, la tipica ghirlanda hawaiana di benvenuto, è fatta con i fiori della pumèlia! Fino ai primi del Novecento con i fiori di casa si facevano i bouquets delle spose, al posto della zagara.
Nei mesi invernali si usavano i gusci delle uova a protezione dei futuri germogli: il guscio proteggeva dalla grandine gli apici, l’apertura alla base creava quella giusta ventilazione che evitava l’eccessiva condensa dannosa per la futura gemma.
Le nonne prendevano in giro i più piccoli raccontando che quello era l’albero delle uova bazzotte, ma pur sempre ciuruse per i piccoli palermitani. [7]
I suoni, la memoria, i segni. Una cerimonia, la vita. Ecco la Poesia.

Plumelia

L’arbusto che fu salvo dalla guazza
dell’invernata scialba
sul davanzale innanzi al monte
crespo di pini e rupi – più tardi, tempo
d’estate, entra l’aria pastorale
e le rapisce il fresco la creta
grave di fonte – nelle notti
di polvere e calura
ventosa, quando non ha più voce
il canale riverso, smania
la fiamma del fanale
nel carcere di vetro e l’apertura
sconnessa – la plumelia bianca
e avorio, il fiore
serbato a gusci d’uovo su lo stecco,
lascia che lo prenda
furia sitibonda
di raffica cui manca
dono di pioggia,
pure il rovo ebbe le sue piegature
di dolcezza, anche il pruno il suo candore.


Ma con tutto il dovuto rispetto per Sciascia, oltre a Piccolo, e di sicuro prima di lui, c’è stato un altro poeta ricco di alberi e non solo: ancora una volta , come ebbe a dire Leonardo Sinisgalli, ...bisognerà rendere giustizia al vecchio Govoni...[8] e più che mai bisogna farlo in quest’anno celebrativo dei cinquanta anni dalla morte del grande poeta ferrarese- ingiustamente e inopportunamente dimenticato- avvenuta appunto nell’Ottobre del 1965.
Ho già avuto modo di ricordare Corrado Govoni in un precedente post [9] e di aver evidenziato la forte analogia tra i suoi temi e il suo canto con quelli tipicamente espressivi della spiritualità orientale: i suoi quattro Ventagli giapponesi del 1903 [10] ne sono un limpido esempio. Questa sua comunanza di temi e di approccio alla poesia perdura per tutta la sua attività poetica come testimoniato da un’altra poesia, Effusione, pubblicata nel 1916 sulla rivista letteraria La Diana in un numero dedicato proprio alla poesia giapponese.
Lui stesso nel testamento letterario [11] si racconta così:

Sono nato in un paesuccio del ferrarese, tra il Volano ed il Po, di meno di duemila anime, dal poetico biblico nome di Tamara che significa palma: benché da taluni il nome di Tamara si voglia far derivare da quello di tamerice, l’arbusto tenace sempreverde resistente al salino di cui si afferma che tutta la zona fosse anticamente popolata, come lido marino che si estendeva dal luogo dove sorge Ferrara fino all’estinta città etrusca di Spina...

Un etimo, una geografia. Una storia precisa.
Che avesse consuetudine con gli alberi e quindi con l’alfabeto, viene sottolineato più avanti sempre nel suo testamento letterario:

...Discendo in ogni modo da un’agiata famiglia di mugnai e di agricoltori. Ed anch’io, nella mia lontana giovinezza, mi dedicai con successo per qualche anno all’agricoltura dei cinquanta ettari di mia proprietà, per il quale esercizio avevo una naturale spiccatissima disposizione...[...] Ma l’inclinazione per la poesia, che fu ed è ancora per me una vera dannazione, ebbe il sopravvento su quella per l’agricoltura...

E Govoni ancora oggi c’incanta con la sua naturale spiccatissima disposizione a inventare un alfabeto recidendo i ramoscelli da alberi di specie diverse e ad osservare-redivivo Ermete dedito all’arte di trasmutare SUONI in SEGNI-la formazione delle oche in volo per permetterci di scoprire ancora una volta la Poesia e con essa emozionarci [12].

Autunno

Triste vento!
Volteggiano come volani
I frutti alati delle samare.
Tra gli alberi il frumento
si stende lontano lontano
Come una verde nevicata d’astri.
Le oche in triangolo vanno
In numeri pari
Verso le paludi.
Addio belle nubi kleksografiche!
Addio bei monti di cinabro!
Scricchiolano sotto i piedi
I piccoli obici delle ghiande
(pensate al figliol prodigo!)
Un triste ritornello fischia sul labro.
Addio belle notti crittografiche!
E il sonno che non viene più…
Oh ma quando ci sarai tu
E metterai nelle lenzuola
Dei mazzetti odorosi di lavanda!


E che dire, per completare, della poesia e dei poeti contemporanei? Quando ormai il suono ha circumnavigato tempi e spazi così vasti non può che tornare a farsi segno archetipo, le lettere ritornano ad essere ramoscelli recisi ed il Poeta stesso non può che diventare albero [13]:

Se tutto dovesse andare bene

Se tutto dovesse andar bene,
ma veramente bene, senza incidenti o crolli,
infine arriverà la tremarella.
Vedo amici più anziani che vibrano,
il mento scosso, le mani inarrestabili.
Parliamo allora di questo movimento,
un vento che soffia da dentro
per scuotere le foglie delle dita
e non si ferma più.

E’ questo stormire neurologico
di fronde che dunque mi attende
se tutto, proprio tutto, dovesse andare bene.
E mi tramuterò in una betulla
o in un cipresso sul bordo del fiume,
con quel tremolare di luci alzate dalla brezza.
Mi farò soffio, mi farò soffiare,
panno lasciato al sole ad asciugare.


Riferimenti

[1] -R. Graves, I miti greci, Longanesi , 1954;
[2]- J.L. Borges, L’invenzione della poesia, Mondadori, 2004;
[3] –L.J. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Torino, Einaudi, 1998;
[4] -P. Hadot, Plotino o la semplicità dello sguardo, Einaudi 1999;
[5] – J. Brosse, Storie e leggende degli alberi,Edizione Studio Tesi, 1989;
[6] - L. Piccolo, Plumelia, la seta il raggio verde, Libri Scheiwiller, 2007;
[7] -http://www.rosalio.it/2010/05/13/pumelia/
[8]- L. Sinisgalli, Le età della Luna, Mondadori, 1962;
[9] -http://www.thestrawberrypost.blogspot.it/
[10]- C. Govoni, Fiale, Lumachi, Firenze 1903;
[11]- S. Raimondi, Il testamento letterario di Corrado Govoni, in Ferrara voci di una città, n° 15 12/2001
[12]-C. Govoni, Poesie Elettriche, a cura di G. La Sala, Quodlibet, 2008
[13]- V. Magrelli, Sangue amaro, Einaudi 2014

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