domenica 10 novembre 2019

Casse di fuga e portatori d'acqua

Nella sua autobiografia Elias Canetti [1] si mostra circondato dal fumo di un incendio. In un gioco di rimandi, tra finzione e realtà, si tratta del fumo dovuto ai libri che il protagonista del suo romanzo, Auto da fé [2], ha bruciato.
Volendo calare il “gioco” nella cruda attualità, questo fumo “eliatico” potrebbe benissimo essere quello del recente incendio doloso alla libreria di Centocelle, La pecora elettrica.

In ogni caso Canetti vede intorno a sé solo deserto e sembra quasi presagire una rovina incombente ma poi, cambia registro e così, passo dopo passo, lascia che la vita riprenda vigore attraverso figure memorabili, tra le quali, quella del Dottor Sonne, il vero centro (il Sole appunto) di questo sistema eliocentrico che fu la grande Vienna degli anni trenta nella quale Canetti orbitò.

…come ho già detto, tra le molte cose che Sonne conosceva a memoria, dal principio alla fine, c’era la Bibbia. Sapeva citare qualunque passo in ebraico, senza esitare e senza dover riflettere. Tuttavia non faceva sfoggio di queste gesta mnemotecniche, che non avevano mai nulla di teatrale… Il modo in cui citava e commentava molti brevi capitoli mi fece cadere di colpo una benda dagli occhi: mi resi conto che Sonne doveva essere un poeta, e proprio in quella lingua ebraica che usava davanti a me. Non osai fargli una domanda diretta, perché quando lui stesso si asteneva dal fornire ragguagli si evitava di toccare l’argomento. In quel caso, tuttavia, la discrezione non mi impedì di chiedere notizie ad altri che lo avevano conosciuto già anni prima. Seppi così – e se ne parlava come se la cosa fosse diventata un segreto ormai da qualche tempo – che Sonne era uno dei fondatori della nuova poesia ebraica. Giovanissimo, all’età di quindici anni, sotto il nome di Avraham Ben Yitzhak, aveva scritto un certo numero di poesie ebraiche che avevano suggerito a qualcuno, esperto in entrambe le lingue, un paragone con Hölderlin. Erano pochissime poesie, forse nemmeno una dozzina, in forma di inni, e di una tale perfezione che l’autore era stato annoverato tra i maestri di quella lingua chiamata a nuova vita. Ma poi Sonne aveva smesso subito, e nessun’altra poesia era venuta alla luce…” [1],

quasi fosse stata rinchiusa e ben custodita in qualche cassetto segreto.

Evidentemente anche noi guardandoci intorno, dopo l’episodio di Centocelle, non possiamo che constatare la stessa desolazione e lo stesso sentore, che scossero l’autore cosmopolita, di una rovina incombente, ma ancora una volta, paradossalmente, ci viene in soccorso lui, proprio lui: il Dottor Sonne! E lo fa grazie a una piccola casa editrice di Pesaro dal nome significativo, Portatori d’acqua, che l’anno scorso ha pubblicato [3] nella traduzione di A. L. Callow e C. Nicolini Coen le 11+ 1 poesie del quindicenne Avraham Ben Yitzhak.


L’impressione che si ha nella lettura è quella di aver riaperto una cassa di fuga, uno di quei contenitori che i monaci benedettini usavano nell’ urgenza, dovuta ad esempio a un incendio, di salvare le cose più preziose che avevano nel loro monastero: gli atti giuridici che attestavano la proprietà e i libri più preziosi e rari [4].

È suggestivo pensare che di fronte a coloro che i libri vorrebbero bandirli, censurarli o addirittura bruciarli, ci sono altri che i libri vorrebbero proteggerli e salvarli di più e prima della loro stessa vita.
E in fondo il Dottor Sonne - e il quindicenne pudico e silenzioso che viveva in lui - non può che essere assimilato a una cassa di fuga: uno che decide di non parlare più di sé e di rifuggire chiunque voglia parlare di lui, uno che dagli incendi prontamente profetizzati, piuttosto che salvare sé stesso – il poeta, l’intellettuale, il teologo - preferisce custodire in gran segreto e salvare dalla distruzione il Libro di tutti i libri [5] e tutte le Parole di Dio.

Il fatto che …portatori d’acqua si prodighino a spegnere l’incendio e a curarsi di queste preziosissime casse di fuga è un presagio ben augurante.


Ogni giorno lascia in eredità al successivo un sole morente
e ogni notte ne piange un’altra.
Un’estate dopo l’altra viene raccolta insieme alle foglie cadenti
e del suo dolore canta il mondo.

E domani moriremo, privati della parola,
e come nel giorno in cui uscimmo ci fermeremo dinnanzi al portale quando chiuderà.
E se il cuore gioirà: ecco, Dio ci ha avvicinati,
si ricrederà e tremerà temendo il sacrificio.

Ogni giorno offre al successivo un sole ardente,
una notte dopo l’altra senza stelle,
sulle labbra di pochi solitari si ferma una poesia:
per sette vie ci dividiamo e per una sola facciamo ritorno.


[Scritta tra il 1912 e il 1917 fu pubblicata per la prima volta sul periodico Ha ‘Ogen nel 1918]

Riferimenti
[1] – Elias Canetti, Il gioco degli occhi, Adelphi, 5a edizione (1985)
[2] – Elias Canetti, Auto da fé, Adelphi (1981)
[3] – Avraham Ben Yitzhak, Poesie, Portatori d’acqua (2018)
[4] – Paolo Rumiz, Il filo infinito, Feltrinelli (2019)
[5] – Roberto Calasso, Il Libro di tutti i libri, Adelphi (2019)

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