giovedì 31 gennaio 2019

L'occhio fotografico di Giovanna Menegùs

Per imparare a conoscere la Poesia di Giovanna Menegùs non bisogna necessariamente partire dalla sua prima raccolta, Quasi estate (ExCogita Edizioni, 2017) o dalle sue traduzioni in Investitura di voci (96 rue de-La Fontaine Edizioni, 2018); basterebbe partire da qualche suo aforisma o commento o pagina scritta lasciati, quali tracce riconoscibilissime, sul suo blog (www.crudalinfa.com) o sulle pagine delle riviste digitali con le quali collabora.
Proprio così: tracce che nulla ci dicono dell’ ”animale” ma che lo lasciano intuire se non proprio immaginare. Nella intuizione e nella immaginazione compiamo però una operazione già...compiuta in quanto ci riferiamo ad una nostra conoscenza o solo a un pregiudizio, qualcosa insomma che non ci mette di fronte a una sana e pura pulsione (paura, angoscia, curiosità, sorpresa) sulla quale costruire una esperienza.

Imparare a conoscere è cosa diversa da conoscere: è…quasi conoscere.

È già stato detto, ma vale la pena ripeterlo, che la poesia della Menegùs è Poesia del Quasi-niente ovvero del Quasi-tutto.
Proprio come una traccia, “la poesia” può essere l’animale che ricordiamo (perché abbiamo appiccicato una figurina che lo riproduceva su un album, quando eravamo bambini) o l’animale che poco a poco scopriamo (perché seguendo le tracce ci imbattiamo in un ciuffo del suo pelo attaccato ad un albero o perché, all’improvviso, ce lo troviamo di fronte come un’apparizione).

Possiamo fare un esperimento? Per imparare a conoscere la Poesia di Giovanna?

Allora seguiamo le tracce a pg. 47 di questa nuova raccolta di Giovanna Menegùs (L’occhio fotografico, Macchione, 2018).


La poesia è Per un ragazzo di 15 anni e ne rileviamo solo qualche…impronta:

…te ne sei andato/…/non chiederò di vederla ma non la dimentico,/…/E io vorrei dire, scrivere il tuo nome,/…/e non mi do pace/di non averti trovato conosciuto visto fermato/…/ti sento ovunque nell’aria ferma e vuota…/

Queste le tracce dunque che parlano di un…ragazzo morto suicida ma potrebbero benissimo indicare la consolazione che la poetessa cerca per sé o ancora, in generale, le pesanti e profonde impronte della Vita stessa.
E non potrebbe invece essere che tutto questo è solo un Quasi-tutto (ovvero un Quasi-niente) e che invece seguendo le tracce stiamo “solo” imparando a conoscere la Poesia, cioè cosa è la Poesia, cosa fa la Poesia, come fa la Poesia e, soprattutto, perché la Poesia?

Quando leggiamo Giovanna Menegùs ci sentiamo interrogati, incuriositi, meno quieti: dopo aver girato a lungo e tutt’intorno alle parole, la poetessa riesce a comunicarci che quando si mette a fuoco un particolare, inevitabilmente sfochiamo tutto il resto e questo può essere accertato con frequenti letture e alla fine accettato.
«La pretesa di toccare un giorno la verità è un’utopia dogmatica»- diceva Vladimir Jankélévitch- «quel che importa è andare fino in fondo, e siccome ciò che cerchiamo esiste appena, siccome l’essenziale è un quasi-niente, una cosa leggera fra tutte le cose leggere, questa ricerca forsennata tende soprattutto a mostrare qualcosa di cui si può intravedere l’apparizione, ma non verificarla perché svanisce nell’istante stesso in cui appare»
[V. Jankélévitch Il non-so-che e il quasi-niente, Einaudi 2011]

Così quando andiamo alla seconda delle immagini dell’autrice raccolte alla fine del libro [Binario 11, Stazione Cadorna (Milano), 6.7.2016 ] mettiamo a fuoco l’ ”animale” che per un istante ci guarda negli occhi e poi, scartando velocemente, si dilegua proprio come fa la Poesia perché, appunto,…è un immenso “animale”:

Scarto a destra, tu anche,/scarti a sinistra, io anche/…/Passanti sul marciapiede non ci siamo scontrati,/e certo/non c’incontreremo più (pg. 19)

Per la Menegùs, che muove sempre da sottili allusioni,
-E basta un magro ciuffo di betulle/a fingermi la taiga intera, la Transiberiana//prima che Milano si materializzi e il giorno (pg. 16)
l’occhio fotografico quindi diventa il modo poetico più adatto per indicare uno slancio, per iniziare una “caccia” che fa essere senza essere, fa dimenticare tutto concentrandosi su quasi-niente (una piccola traccia) che ci fa lambire le cose, senza mai cadere nella presunzione di afferrarle perfettamente.

In una fotografia, come in una poesia, la verità il più delle volte è quella che non si vede:

Bianchi immobili leggeri come piccole/statue di balsa/…/gli aironi guardabuoi, a Pegognaga/(che cosa guardano?) (pg.29)

Davvero molte delle composizioni raccolte in questo L’occhio fotografico respirano e ci fanno respirare un’aria di oriente ma più che richiamare le poesie T’sang o Zen azzarderei un’ evidente analogia con il sumi-e tanto per rimanere nel campo delle …immagini.

Il sumi-e oltre ad essere un’arte pittorica, come intendiamo in occidente, è una porta d’ingresso per entrare o restare in sintonia con la natura e le sue leggi fondamentali. Nelle immagini sumi-e ( ne è un esempio la copertina della raccolta) si cerca di manifestare o suggerire in pochissimi tratti l’essenza delle cose, quelle lasciate da tracce evidenti e quelle più sfuggenti ma evidentemente presenti anch’esse (davvero le foglie sono foglie?). I segni lasciati sulla carta di riso dall’inchiostro nero nelle composizioni sumi-e sono delle vere e proprie tracce in grado di mostrarci anche quello che non si vede.


Proprio come la poesia di Giovanna Menegùs, soprattutto in questa parte della raccolta, riesce a fare.
Qui leggiamo ma soprattutto osserviamo degli “schizzi” in bianco e nero, dove il bianco del foglio o quello tra un verso (una parola) e l’altro (l’altra), come accade nella carta di riso del sumi-e, rappresenta l’universo. E il nero, la parola, il verso dunque, come l’inchiostro di china del sumi-e, sono le forme materiali che in esso appaiono e scompaiono senza sosta.
In questi epigrammi lirici - la sezione più riuscita a nostro parere insieme a quella che dà il titolo alla raccolta - poche parole sono sufficienti a esprimere il senso di un occhio che osserva, proprio come accade nel sumi-e dove pochi tratti d’inchiostro nero tracciati su un semplice foglio di carta, permettono di rappresentare un mondo com-plesso nel suo… intreccio tra visibile e invisibile.
Su questo foglio della Menegùs, come accade sulla carta di riso, sembra che sia stato concesso un solo colpo …di pennello per ogni tratto, proprio solo quella parola in quel suo verso; ogni “ritocco” viene immediatamente percepito e tutto il nostro apparato mentale, che di solito complica e confonde l’immagine (e la vita), viene così dissolto restituendoci una visione; restituendoci la scoperta.
È lì davanti a noi, l’animale immenso del quale abbiamo seguito le tracce.
Lo abbiamo quasi…preso.

Passano uccelli nel sole oltre il vetro:/veloci sono da dentro/ombre grigie/sul bianco/ del letto (pg. 63)

Lavorano i merli tra cespugli/bassi che frusciano e s’aprono/in voli improvvisi rapidissimi (pg. 64)

È un immenso animale, l’estate/lungo i giorni torridi e accecati/nel suo cavo gli umani/formicolanti spiano/l’ascendere, il lento declinare/della grande/groppa indomita…[…] (pg. 69)

Come nuotano gli uccelli nell’aria/del mattino e tu/solo per attimi ne scorgi i tuffi,/gli affondi finché svoltano/l’angolo del muro il tetto sono già oltre (pg. 78)

Passi che lasciano orme nell’aria/della notte, li vedi/alonati d’oro/allontanandosi/-camminano/senza toccare terra/lungo un loro/lieve chiaro sentiero (pg.84)

È lì davanti a noi, la preda immensa della quale abbiamo seguito le tracce.
L'abbiamo quasi…presa.
La Poesia.



venerdì 25 gennaio 2019

Finzione suprema in un Campo d'inverno

Alla base di ogni fede (qualunque fede, religiosa, politica, calcistica etc…) c’è la sospensione (volontaria) di incredulità (e quindi di giudizio).
Anche la fede poetica si basa su tale sospensione tanto che Samuel Taylor Coleridge la assume quasi ad assioma:
That willing suspension of disbelief which constitutes poetic faith.
[Quella volontaria sospensione dell’incredulità che costituisce la fede poetica]

Chi legge poesia (chi la scrive) deve credere e dunque sospendere (volontariamente) la sua natura di “animale razionale” o meglio comprendere in questa definizione (davvero cum-capere), la sua alterità animale (umanità) e la sua alterità razionale (impulsività). Solo così il lettore (lo scrittore) di poesia potrà conquistare quel potere grandioso e miracoloso che permette non solo di immaginare ma anche di creare o ri-novare la realtà.
Il poeta, primariamente, in modo consapevole o meno, si serve proprio di questo potere. Questa è la lezione del romanticismo inglese rappresentato da Coleridge e che in buona sostanza si conferma nel sensismo illuministico del nostro Giacomo Leopardi e successivamente nella riaffermazione del romantico di Wallace Stevens fino a giungere, come vedremo, alla poetessa ospitata in questo Post delle Fragole: Susan Stewart.

L’idea per tutti questi poeti è semplice: completare ciò che i sensi ci “mostrano” (quello che “sentiamo”), con le fantasie di una immaginazione svincolata da (pre)giudizi.
La realtà diventa così fonte dell’immaginazione e acquista senso grazie al potere dell’immaginazione: questo continuo rimando tra realtà e immaginazione o, addirittura una loro sintesi perfetta, è la Finzione Suprema di cui parla Wallace Stevens o è ciò a cui già alludeva Leopardi:

All’ uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in un certo modo doppi. Egli vedrà con gli occhi una torre, una campagna; udrà con gli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’ immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e altri sentimenti ricevono la sensazione.” (Z 1196)

L’immaginazione non deve dunque tradire la realtà della quale anzi è un potenziamento: la sospensione/fede poetica sta proprio in questo senso della possibilità, una capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è.

Nella sua Riaffermazione del romantico Wallace Stevens riversa tutta la sua fede in quello che abbiamo fin qui detto:

La notte non sa nulla dei canti della notte.
È quel che è come io sono quel che sono:
e nel percepire ciò percepisco meglio me stesso
e te. Solo noi due possiamo scambiare
ciascuno con l’altro quel che ciascuno ha da dare.
Solo noi due siamo uno, non tu e la notte,
né la notte e io, ma tu e io, soli,
tanto soli, così profondamente con noi,
così distanti dalle solitudini casuali,
che la notte è solo sfondo ai nostri io,
supremamente fedeli ciascuno al suo diverso io,
nella luce pallida che ciascuno getta sull’altro.


Oggi una poetessa americana sembra volerci ricordare tutta questa grande lezione per rinnovare la nostra fede poetica e ancora una volta ci chiede di sospendere l’incredulità e il giudizio; di ascoltare il tocco della campana e di non udire solo questo suono; di guardare un campo e di non vedere solo erba e alberi.

Susan Stewart è docente presso la Princeton University dove dirige la Society of Fellows in the Liberal Arts. La sua attività poetica e di traduttrice l’ha portata spesso anche in Italia dove ha pubblicato due libri: Columbarium e altre poesie (Ares 2006) e Red Rover (Jaca Book 2011).
Nel 2017 ha pubblicato un volume dal titolo Cinder: New and Selected Poems (Graywolf 2017) nel quale sono state riproposte alcune sue poesie selezionate e presentati alcuni inediti.
Dunque anche per Susan Stewart il pensiero poetico è capiente in quanto non solo esalta le nostre capacità mentali (la ragione, l’immaginazione, la memoria e l’emozione) , ma anche la nostra fisiologia ( i ritmi fisici, il battito dei nostri cuori, il ritmo del respiro). E in questa affermazione sembrano risuonare molte delle recenti scoperte delle neuroscienze o delle riflessioni filosofiche di Martha Nussbaum («le emozioni sono pensiero»).

Per la Stewart la poesia ha molti legami storici e formali con la fede e i rituali religiosi:

…la tradizione giudaico-cristiana ha lasciato tracce nell’opera di ogni poeta di rilievo di lingua inglese…[…]. I Poeti metafisici del XVII secolo (Crashaw, Donne, Herbert, Marvell, Vaughan e altri) sono una ricca fonte di tecniche poetiche in questo senso, ed essi, insieme con Wallace Stevens, sono state le figure più importanti per la mia pratica di poeta. Ma devo dire che la relazione tra poesia e religione mi colpisce come realtà universale in un senso più ampio. I poeti sono più spesso di quanto non si immagini motivati da un desiderio e impulso di lode, sia che stiano lodando forze sovrumane, la creazione stessa, sia i radianti fenomeni del mondo che li circonda…

Lo dicevamo all’inizio: la poesia è una questione di fede.

E allora proviamo a sospendere l’incredulità e il giudizio su Campo d'inverno di Susan Stewart e proviamo a diventare uomini del possibile (come direbbe Musil) in grado «di scorgere tutto ciò che potrebbe benissimo essere al suo posto».

Il mondo, un museo di sé stesso.
Il gelido colonnato di olmi spiranti.
Non puoi importi un sogno, tuttavia, anche tu
puoi cedere, cedere al sonno, e svegliarti
nello stupore. Non c’è alcun luogo
che il biancore non abbia
toccato – dai
_____________un’ occhiata e
vedi. Gli angoli, gli orli, di ogni
cosa esposta:
sei entrato in una chiarezza nuova.


In questa sua poesia la poetessa americana parte da un dato di realtà perché se l’immaginazione vuole essere produttiva, creativa e nobile deve alimentarsi di realtà. Che il mondo sia un museo di sé stesso è incontrovertibile, pertanto quei colonnati gelidi di olmi spiranti non sono né più né meno come i colonnati nella Valle dei Templi ad Agrigento. Anzi di più, perché questo è un “museo” allestito precedentemente a tutti gli altri musei. E allora la nobiltà dell’immaginazione consiste in particolare nel reagire e sottrarsi a questo mondo impolverato e messo in esposizione. Perché l’immaginazione non tradisce la realtà ma questa realtà è costruita per essere esposta, per essere visitata ma non per essere…fatta e ammirata.

Se solo cedessimo al sonno fino a risvegliarci!

Già perché la situazione è proprio questa: dormiamo e crediamo che ciò che sogniamo sia reale tanto che questo infimo senso della realtà potrebbe scadere facilmente (come moltissime volte fa) in un realismo cinico e opportunistico.
Ma dobbiamo svegliarci allo stupore a quella Finzione Suprema che arricchisce il mondo e aiuta gli uomini a pensare e a vivere; dobbiamo aprire gli occhi e dare un’occhiata solo per…vedere. E quel biancore che tutto tocca e che ci inganna, l’immaginazione, ci fa stupire il mondo nella sua chiarezza

pare un assurdo , e pure è esattamente vero, che tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni…”(Z56).

Non possiamo imporci di sognare quello che vogliamo ma di sicuro possiamo sospendere (volontariamente) la nostra incredulità, seguire le supreme illusioni e avere dunque più fede poetica.

E la poetessa americana ci rinnovella in questo dolce inganno.

mercoledì 16 gennaio 2019

Madre Materia

Nel biennio 1926-27 il filosofo tedesco Ernst Bloch (Ludwigshafen 1885-Tubingen 1977) approfondisce gli scritti di Avicenna e Averroè sulla interpretazione dei testi aristotelici, ponendo particolare attenzione al concetto di materia. Oggi grazie alla cura di Nicola Alessandrini il testo di Bloch, pubblicato per la prima volta a Berlino nel 1952, viene finalmente tradotto in italiano.
Nella preziosissima traduzione di Avicenna und die Aristotelische Linke [1], Alessandrini fa rivivere, come lui stesso dice nella introduzione, «…La forza cardiaca della materia e il suo ardore…» [2] ( il corsivo è mio), frase che mi ha precipitato - ma meglio sarebbe dire elevato - in due ambiti per me molto cari e, come cercherò di mostrare, molto vicini l’uno all’altro: quello della fisica e l’altro della metafisica indiana.
Materia (come anche ardore) è, in generale, un termine fondamentale tanto per la fisica che per la metafisica.
Cominciamo da qui, dalla sua “semplice” etimologia.

Nella sua introduzione Alessandrini pone ad esergo la presente affermazione del filosofo tedesco:
«L’omissione dell’antica profondità nel concetto di materia non è stata ancora realmente compresa, mentre il solo fatto che il termine “materia” sia derivato da mater (madre), cioè dal seno sempre fertile del mondo e delle sue forme, figure e strutturazioni sperimentali, piene di tendenze e di latenze infinite, dovrebbe far riflettere…». Già. E infatti, Alessandrini, comincia proprio da qui la sua (la nostra) riflessione su «…Una materia sempre e rigorosamente declinata al femminile, perché materia è prima di tutto mater, madre il cui grembo fecondo partorisce forme sempre nuove, nel cui seno sono latenti le più importanti forme d’esistenza. Tale gestazione diventa il banco di prova di quell’ontologia della speranza che[…] rappresenta il punto in cui convergono la grandezza e la complessità del pensiero blochiano. Per Bloch, infatti, la posta in gioco è altissima, si tratta di dilatare l’orizzonte della speranza dal piano antropologico (per Bloch l’uomo non solo “ha” speranza, ma “è” speranza) al piano ontologico (l’essere stesso, la materia come sostrato comune di tutto l’universo, è permeabile dalla speranza),…»[3].

Qualcuno poi, come il gesuita proibito Teilhard de Chardin, sintetizzerà il tutto con una formula inusuale e dirompente per l’ortodossia cattolica ma così praticabile contemporaneamente dall’eresia cristiana, dalla fisica quantistica e ancora dalla metafisica indiana: dalla materia al logos![4]

Ma riprendiamo ancora per una attimo queste prime battute di Bloch commentate e riprese da Alessandrini e riferiamoci ancora una volta alla etimologia di materia.
È vero che materia è facilmente accostabile, per assonanza, a mater e matrice con i significati propri, rispettivamente, di “chi ha un utero” e di “forma con cui viene modellato un oggetto”; ma è nell’ India vedica che si trova l’etimologia e il significato più profondo dal punto di vista metafisico e fisico del termine. Dice Coomaraswamy nel suo La tenebra divina [5]:

mātrā (come métron) è etimologicamente «materia», non nel senso di «ciò che è solido», ma in quello suo proprio di «ciò che è quantitativo» e che ha una collocazione nel mondo (loka, locus).

Fisica dunque e infatti lo studioso indiano continua dicendo:

Tutto ciò che in questo modo è nel mondo può essere nominato e percepito (nāma-rūpa) ed è accessibile a una scienza fisica e statistica; l’essere senza misura è il dominio proprio della metafisica.

Quindi il paradosso è che la metafisica indù riesca a dare una definizione così…fisica della materia.
Ma non finisce qui perché:

è anche da notare la stretta relazione esistente tra la parola mātrā, mātṛ e māyā, «metro», «madre» e «mezzo magico» o «matrice»: mā , «misurare», e nir-mā, «determinare misurando» sono infatti usati non solamente nel senso di dare forma e definire, ma anche quello strettamente apparentato di creare o dare nascita…

Ma il pensiero vedico è profondo quanto e forse più di quello della fisica teorica e dunque si continua:

[la nascita è un concetto inseparabile da quello di sacrificio]: il sacrificio divide è uno «spezzare il pane»; il prodotto è articolato e indistinto. Il sacrificio è un dispiegare la Verità, un ordirlo in tessuto o ragnatela metafora che è comunemente impiegata altrove in relazione all’irraggiamento della luce fontale che costituisce la tessitura dei mondi. Come l’accensione di Agni è un rendere percepibile e palese una luce nascosta, così il proferire i canti è un rendere percepibile il principio silenzioso del suono. La Parola detta è una rivelazione del Silenzio, che misura la traccia di ciò che in se stesso non è misurabile.

Beh, questa è una pagina degna di un articolo di fisica delle particelle elementari magari a corredo e commento di una foto come questa che descrive un processo di annichilazione (sacrificio) e creazione (nascita) di particelle in un acceleratore



Non è forse qui catturata quella «…forza cardiaca della materia e il suo ardore…» di cui ci parla Alessandrini in questa sua godibilissima traduzione dell’opera di Ernst Bloch?
È vero, come viene detto in quarta di copertina, che il saggio “…ripercorre il tortuoso cammino che da Aristotele, attraverso Avicenna, Avicebron e Averroè , giunge a delineare un concetto qualitativo di materia, intesa come grembo infinitamente fecondo di forme…” , ma il testo è anche un’occasione per riflettere su un’altra “materia” ancora così utopica e (questa sì) veramente oscura: sempre più appare incomprensibile, contraddittoria e anacronistica questa rinuncia a trovare sintesi necessarie su tante cose, a cominciare da quelle che ci coinvolgono nella nostra quotidianità (p.es. nazionalismo & europeismo; democrazia & sicurezza; lavoro & ambiente; identità & social network).
Risulta evidente che per ogni… materia (sic!) è necessario un approccio integrato, complementare che superi cioè le polarizzazioni tra “destra e sinistra… aristoteliche” o tra conoscenze apparentemente distanti perché acquisite con strumenti diversi (fisica piuttosto che filosofia o, perché no?, poesia).

Occorrerebbe cioè sempre fare appello a quello spirito (di speranza) blochiano per il quale “è fecondo solo quel ricordo che al contempo ci rammenta quanto ancora resta da fare”.
E il ricordo che abbiamo oggi della materia è questo [6]:
«…Una manciata di tipi di particelle elementari, che vibrano e fluttuano in continuazione fra l’esistere e il non esistere, pullulano nello spazio anche quando sembra non ci sia nulla, si combinano insieme all’infinito come le venti lettere di un alfabeto cosmico per raccontare l’immensa storia delle galassie, delle stelle innumerevoli, dei raggi cosmici, della luce del sole, delle montagne, dei boschi, dei campi di grano, dei sorrisi dei ragazzi alle feste, e del cielo nero e stellato la notte».

Quanto ci resta da fare!
Quanto è ancora feconda questa madre-materia!


Riferimenti

[1] - E. Bloch, Avicenna und die Aristotelische Linke Ed. Rutten & Leoning, Berlino 1952;
[2] - E. Bloch, Avicenna e la sinistra aristotelica, a cura di N. Alessandrini, Mimesis Edizioni, Milano 2018, pg. 10;
[3] - Ibidem, pg. 11
[4] - B. Razzotti, Teilhard de Chardin. Dalla materia al verbo, Edizioni Messaggero, Padova, 1999;
[5] - Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina. Saggi di metafisica, Adelphi, Milano, 2017, 2ª ediz
[6] – C. Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, Milano 2014, pg. 45