venerdì 26 febbraio 2016

Onde gravitazionali e onde poetiche.

In uno dei suoi celebri dialoghi, Platone definisce gli ingenui dalla mente candida come coloro che credono di poter imparare l’astronomia senza conoscere la matematica. Per la poesia vale qualcosa di simile: candidamente ed ingenuamente molti credono che la poesia sia qualcosa che abbia a che fare con l’andare a capo ad un certo punto e far rimare tra loro le parole (U. Eco ha genialmente fatto rimare Schopenhauer con amore ma non per questo possiamo considerarlo un poeta).
Se così fosse oggi con un computer potremmo imparare tanto l’astronomia che la poesia e dedicarci con successo ad esse.
Evidentemente le cose non sono così semplici. Se da un lato è possibile constatare la notevole fattura di foto e di ricerche astronomiche e quindi una “produzione di astronomia” anche da parte di astronomi dilettanti, non è altrettanto vero per quello che riguarda la poesia: possedere un computer potente in grado di contare le sillabe, legare le parole per assonanza o per finale di sillaba non “fa poesia”; produce e aumenta sicuramente il numero di poeti dilettanti ma non “poetizza”.
Evidentemente fare poesia non è un’attività regolata da algoritmi nè tantomeno da ricette come quelle che servono a fare un buon piatto. Non è una questione di organizzare un algoritmo o di legare ingredienti da mettere a... file e a fuoco. La poesia non è fatta dalle parole messe sul foglio bianco, così come la teroria della Relatività Generale è molto di più di una equazione di grande semplicità come questa Rab-½Rgab=Tab.[1]
Mentre l’astronomia e la culinaria, con le loro rispettive tecniche, possono essere insegnate e chiunque, grazie a questo, potrebbe aspirare a diventare un discreto astrofilo o chef, è difficile immaginare che un corso di poesia (un corso di scrittura creativa?) sia in grado, allo stesso modo, di sfornare un discreto poeta.
A dimostrazione di questo basta dare un’occhiata agli ultimi grandi poeti del passato o a qualcuno ancora in vita: Montale era un ragioniere, Quasimodo un geometra, Sinisgalli un ingegnere come Gadda. Tranströmer era uno psicologo e la Szymbroska è stata all’inizio della sua attività lavorativa, una segretaria presso una casa editrice e una illustratrice di libri.
La poesia quindi non è il risultato (automatico) di una certa cultura o di studi organizzati e collaudati.
Non si sbaglierebbe a dire della poesia quello che Wittgenstein diceva della matematica: è un fenomeno antropologico, cioè un movimento che ha sempre attraversato l’uomo tanto da lasciarsi immaginare esterno a lui e che, attraversandolo, lo muove vale a dire lo emoziona.
A differenza di tutte le altre attività umane la poesia non scopre e non produce alcunché; essa non costruisce dispositivi ingegnosi e complicati né inventa spiegazioni o teorie. La poesia è “solo” una documentazione lunga e paziente della condizione umana: Brodskji direbbe che s’impara molto di più sull’antica Roma e lo spirito che la animava leggendo Orazio piuttosto che studiando Mommsen.
Questa testimonianza della condizione umana è quello che la Cvetaeva definiva la “voglia disperata di essere”, il grido cioè, di qualcuno o di qualcosa che non si accontenta di esprimersi attraverso strumenti normali. Non è quindi uno dei desideri del nostro Ego, del nostro “Io consapevole” ma IL DESIDERIO ( che a questo punto non dovrebbe chiamarsi così) di chi nel Canto di me stesso Whitman chiama “VERO IO”.
Tutti siamo consapevoli del fatto che la nostra vita interiore è estremamente complessa e questo determina che anche i rapporti con gli altri lo siano: l’immagine di noi che ci facciamo attraverso queste relazioni la chiamiamo “IO” ed, in fondo, come diceva Freud, non è niente altro che un incidente. Eppure c’è (per tutti) un momento nel quale più che rispondere al nostro IO e da lui lasciarci condizionare, riusciamo ad essere in contatto con questo VERO IO.
Da bambini quando la nostra realtà psichica era governata da un principio di piacere piuttosto che da quello, subentrato successivamente in età adulta, di realtà, siamo stati in contatto con quel qualcosa che dentro di noi vuole disperatamente essere. La poesia dunque è quel moto che nasce dal nostro VERO IO. E, restando a Whitman: cosa ascolta e cosa riferisce questo VERO IO al nostro – incidentale - IO? Ma tutto quello che l’Anima suona. Quello che l’Anima dice. Quello che l’Anima mostra.
L’unico mezzo che il VERO IO può “usare” per muovere l’IO è lo stupore, lo stupore che il poeta prova di fronte alla propria espressione soprattutto se in armonia tra Musica, Parola e Immagine.
Lo stupore quindi smuove la materia fosse soltanto per modificare l’espressione di un volto, per gonfiare gli occhi di lacrime, per accelerare il battito del cuore.
Nel fare poesia- nel suo farsi dunque in scrittura, lettura e canto - si porta allo stato cosciente tanta parte di “noi”, si modifica il rapporto tra IO e VERO IO e quindi tra il Mondo e l’Anima che lo crea.
Nella poesia, smettiamo per così dire, di dare credito al nostro io consapevole e ci esprimiamo in relazione al VERO IO e nel farlo ci accorgiamo che la parola pratica, quella che ci accompagna lungo la vita e fino alla sua fine, si può fare parola poetica, quella che ci riporta sempre alla vita senza conoscere una fine (non a caso la parola poetica viene ripetuta e memorizzata; va memorizzata e ripetuta).
La poesia quindi non è l’incidente di un IO che mette insieme, in bell’ordine, su un foglio di carta delle parole rimate e che di tanto in tanto decide di andare a capo. Non è l’uso e l’abuso di parole per uno scopo diverso da quello pratico di servire sciattamente e occasionalmente a qualcosa. No, la Poesia è proprio ciò che canta dice e mostra senza alcun altro scopo se non quello di cantare, dire e mostrare. La poesia è ... quel niente che passa per i cieli/e fiata sulla terra che ringrazia...[2] forse solo un’onda gravitazionale partita milioni di anni fa quando l’uomo ancora non sapeva di universo, di stupore. Non sapeva di Dio.



[1]- Per chi è incuriosito dalla formula mi limito a dire che Rab è il tensore di Ricci e R è la sua cosiddetta traccia; gab è il tensore metrico e Tab il tensore stress-energia. Buio totale? Lo so. Allora passiamo a Rovelli che nel suo Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi, 2014) cosi spiega l’equazione: “...Lo spazio di Newton, nel quale si muovono le cose, e il campo gravitazionale che porta la forza di gravità, sono la stessa cosa...questa è l’idea straordinaria e geniale [di Einstein]: ...il campo gravitazionale non è diffuso nello spazio: il campo gravitazionale è lo spazio!...” Lo spazio non è quindi diverso dalla materia ma una delle entità materiali del mondo. Un’entità che ondula, si flette, s’incurva, si torce. Quanto breve è il passo se si sostituisce alla parola spazio la parola poesia.

[2]-F. Loi Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle Da Lünn, Il Ponte Firenze (1982)

Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle/no per il freddo, no per la paura/no del dolore, del rallegrarsi o per la speranza/ma di quel niente che passa per i cieli/e fiata sulla terra che ringrazia...//Forse è stato come trema il cuore/ a te, quando nella notte va via la luna/o viene mattina e paia che il chiarore si muoia/ ed è la vita che ritorna vita./Forse è stato come si trema insieme/così, senza saperlo, come Dio vuole...