giovedì 20 dicembre 2018

Un tuffo e una nuotata: Osip Mandel’štam e Nadežda Chazina

La cosa migliore da fare per gustare la Poesia è sguazzarci dentro. Sì, perché leggere Poesia è come tuffarsi. Per farlo bene bisogna allenarsi e prepararsi…all’acqua che stiamo per raggiungere. Dunque tuffarsi.
La prima volta.
Poi, risaliti in superficie per prendere fiato, bisogna cominciare a nuotare: per raggiungere un orizzonte, una baia appartata, una costa oppure si nuota tanto per fare, senza l’assillo di dovere approdare da qualche parte.
Quando si legge qualunque altra cosa, si nuota per tornare sulla spiaggia e abbrustolirsi al sole e stop.
Per leggere Poesia, invece, c’è questo piccolo, ma mai banale, preliminare: il tuffo. E questo si fa da soli.
Ma appena riemersi, trovare per compagnia un altro poeta da seguire nelle sue calme e filanti bracciate, può essere di estremo aiuto: per accordare un passo, il fiato, lo sguardo tra alto e basso. Tra orizzonte e profondità. Il compagno o i compagni di bracciata potrebbero portarci molto lontano e raggiungere…profondità d’orizzonti altrimenti irraggiungibili anche per il nostro tuffo migliore.
Il 27 Dicembre di 80 anni fa moriva Osip Mandel’štam, il Poeta della Poesia come lo hanno definito in molti. Mi sono tuffato nelle sue poesie cercando di mantenere una postura consona per riuscire ad entrare in acqua nel modo meno rumoroso e caotico possibile. È stato un tuffo profondo, lungo estenuante e così appagante che ritornato in superficie ho trovato la moglie del poeta Nadežda (Speranza in Russo) Chazina e ben altri due poeti ad aspettarmi per la nuotata seguente: Seamus Heaney e Franco Buffoni.

Iniziamo.

Il tuffo dunque [1]:

Amo l’apparizione del tessuto
quando una, due, più volte
manca il fiato e infine arriva
il sospiro che risana.

E tracciando verdi forme,
quasi archi di vele in regata
gioca lo spazio assonnato,
bambino ignaro della culla


Novembre 1933-giugno 1935

La cosa che balza subito agli occhi in questo tuffo è… il fondale: Novembre 1933 - giugno 1935, quasi due anni per sistemare 29 parole in lingua originale (38 in questa superba traduzione di Serena Vitale). Già: un lasso di tempo così ampio sarà, presumibilmente, dipeso da un lavoro estenuante di labor limae del poeta o, più verosimilmente, da uno stesso lavoro della vita sul poeta.
La prima quartina parla della nascita dei versi. La comparsa di parole nei versi e dei versi nelle strofe è di fatto una conoscenza dello spazio (rappresentato dalla pagina bianca); una esplorazione del mondo attraverso la poesia che, come dice Brodskij, è conoscenza tanto analitica che sintetica e profetica. E la scoperta della ritmicità del mondo (non dimentichiamo che ritmo discende dal fonema sanscrito Ṛta , muoversi in modo appropriato) è, parimenti, scoperta del verso e della strofa: corrispondences tutte racchiuse nell’ immagine di una barca a vela che segue il vento, e ne è inseguita, nel suo bordeggio.
E a un bordeggio, a un’onda dunque, s’accorda un battito e un respiro che ri-sana ma che pure ri-suona ossessivamente prima che il fiato diventi parola e che riesca a riunire tutto con/nella Poesia.

Nulla procede linearmente ne processi “naturali”, tutto si svolge per archi, cerchi, spirali centripete o centrifughe. Cicli e rotte omeriche percorse avanti e indietro più e più volte fino a riconoscere punti dell’orizzonte dove il sole sorge o tramonta e stelle che guidano le notti. La Poesia è prima di tutto conoscenza di spazio e di tempo. Più fisica di questa!

Ritorniamo su a prendere fiato e incontriamo gli amici che ci accompagneranno nella nuotata.
Franco Buffoni nel rendere omaggio a Seamus Heaney traduce un saggio del poeta Irlandese su Osip Mandel’štam e sua moglie Nadežda . L’omaggio di un omaggio dunque. Cominciate ad avvertire il passo delle bracciate? Capite chi saranno i nostri amici di nuotata? Siete curiosi di sapere dove ci porteranno? Andiamo allora, bracciata dopo bracciata.

Tra il 1930 e il 1934 Osip Mandel’štam fu tenuto confinato nel gulag di Voronez. Il motivo apparente della condanna ai lavori forzati sembrerebbe essere stato uno schiaffo che Mandel’štam restituì al romanziere Sargidzan il quale aveva precedentemente schiaffeggiato la moglie del poeta. Ma la vera causa del confino risiedeva nell’atteggiamento di un… Davide, grande poeta, contro un Golia con i baffi e gli stivali lucidi.
All’epoca degli schiaffi i Mandel’štam “godevano” già delle attenzioni della polizia e degli informatori di partito, tanto che le autorità sovietiche avevano incaricato proprio il romanziere Sargidizan e sua moglie di spiarli nel condominio dove abitavano. Il vicinato, evidentemente, non era dei migliori e in una di queste liti Sargidizan colpì duramente la moglie di Osip. La denuncia e il processo farsa che ne seguì stabilirono che si era trattato di un caso frutto del «retaggio di un sistema borghese e che, dunque, erano da biasimare entrambe le parti». Ai disordini che seguirono la sentenza uno dei giudici del popolo, Alekesej Tolstoj, tentò di difendersi gridando: «Lasciatemi stare, lasciatemi stare. Non potevo farci niente! Avevamo degli ordini.»

Due anni dopo Osip restituì lo schiaffo. Per dirla con Nadežda, il poeta pensava che «l’uomo non avrebbe dovuto ubbidire agli ordini. Non quegli ordini. E questo è tutto.»

Naturalmente, questo è ben lungi dall’essere tutto. Lo schiaffo fu un segno visibile di una grazia interiore che a Mandel’štam era ritornata a metà del 1930, quando fece il viaggio in Armenia. Nel corso dei suoi spostamenti laggiù, si ristabilì in lui il senso di essere nel giusto, quella libertà interiore senza la quale non riusciva a chiamare a sé la poesia, e si ruppe il silenzio poetico durato cinque anni. Insieme alla poesia arrivò la capacità di non ubbidire agli ordini, e, parrebbe, quasi per provare a se stesso che quella capacità era incondizionata, Mandel’štam scrisse poi il componimento, per lui atipicamente esplicito e «politico», contro Stalin, Il monastero del Cremlino. In realtà, fu questa poesia la vera causa del primo arresto di Mandel’štam uno o due giorni dopo l’incidente dello schiaffo: Davide aveva affrontato Golia con otto distici di pietra nella fionda.[3]

La storia degli ultimi anni di vita del poeta, della sua morte avvenuta il 27 Dicembre del 1938 (lo stesso anno nel quale in Italia venivano promulgate le leggi razziali) e le vicende rocambolesche di come le sue poesie del periodo sono riuscite ad arrivare fino a noi sono state raccontate da sua moglie e composta ed elegante “tuffatrice”, Nadežda.

Come ci dicono Heaney e Buffoni : «Alla fine degli anni Sessanta del Novecento furono scritti due libri tra i più fortificanti dei nostri tempi, Hope against Hope (Speranza contro Speranza) e Hope abandoned (Speranza abbandonata) di Nadežda Mandel’štam (con l’evidente gioco di parole per via del suo nome…). In questi libri [4,5]abbiamo uno sconvolgente atto d’accusa contro quasi tutto ciò che accadde nella Russia postrivoluzionaria e, più relativamente, la storia dell’esilio di Mandel’štam a Voronez, il suo ritorno a Mosca nel 1937, il nuovo arresto e la deportazione in un campo di lavoro: «Il mio primo libro fu Pietra e anche l’ultimo sarà pietra.» Morì poco prima del quarantottesimo compleanno in un campo di transito vicino a Vladivostok, dopo aver percorso le cinquemila e cinquecento miglia da Mosca viaggiando su un treno per il trasporto di prigionieri. La causa ufficiale della morte fu «collasso cardiaco»[3]

[…]Per il lettore sovietico, Mandel’štam come poeta era finito dopo l’apparizione di tre libri che nel 1928 segnarono il culmine della sua carriera pubblica di scrittore: le Poesie, un volume contenente Il rumore del tempo, il resoconto autobiografico dell’infanzia a Pietroburgo, e il brano dal titolo romanzesco Il francobollo egiziano. Ma a Voronez i Mandel’štam riempirono tre quaderni con l’opera successiva.
Scrive Nadežda:

Mi hanno chiesto spesso dell’origine di questi «Quaderni». Era questo il nome che usavamo per riferirci a tutte le poesie composte tra il 1930 e il 1937, che a Voronez ricopiammo su normali quaderni scolastici (non riuscimmo mai a ottenere carta decente e perfino procurarsi questi quaderni era difficile). Il primo gruppo andò a formare ciò che ora si chiama il «Primo quaderno di Voronez» [nuovo lavoro svolto in esilio, a quanto pare], e poi tutti i versi composti tra il 1930 e il 1934, che erano stati sequestrati durante la perquisizione del nostro appartamento, furono ricopiati in un secondo quaderno (…). Nell’autunno del 1936, quando si erano accumulate delle altre poesie, M. mi chiese di procurarmi un nuovo quaderno.[3]

Nel terzo capitolo di Hope abandoned, Nadežda afferma implicitamente l’importanza… dell’amicizia con poeti quali Nikolaj Gumilëv e Anna Achmatova. Il capitolo è sul nutrimento morale e artistico che può scendere su una comunità di spiriti che abbiano «pieno diritto di riferirsi a se stessi come “noi”»:

Sono assolutamente convinta che senza questo «noi», non possa esserci un compimento adeguato neanche del più comune «io», ossia della personalità. Per trovare il proprio compimento, l’«io» necessita di almeno due dimensioni complementari: «noi» e – se è fortunato – «tu». Penso che M. sia stato fortunato ad aver avuto un momento nella vita in cui era unito dal pronome «noi» a un gruppo di altri.»

Come si intuisce non è possibile smettere di nuotare: vediamo sempre un orizzonte più accattivante davanti alle nostre bracciate e, se non è l’orizzonte ad attrarci, lo farà la profondità del fondale o la vastità della luce sopra di noi. Quando si nuota con questa compagnia non si ha voglia di fermarsi, di tornare a riva.
E allora per concludere questo post commemorativo che non porta a nessun…posto delle fragole - perché è il POSTO - non possiamo che ringraziare i nostri compagni di nuotata e chiedere al Poeta della Poesia di accompagnare le nostre bracciate con qualcuna delle sue ultime parole:

E dallo spazio esco nel giardino
incolto delle grandezze,
strappo l’immaginaria costanza,
l’autoconsenso delle cause.

E il tuo manuale, infinità, io leggo
da solo, lontano dagli uomini:
selvaggio erbario senza foglie
libro di problemi delle radici enormi.






Riferimenti
[1] - Osip Ėmil'evič Mandel'štam, Quasi leggera morte. Ottave, a cura di Serena Vitale, Adelphi, 2017
[2] - Franco Buffoni in Almanacco dello Specchio n. 14 Mondadori, 1993
[3] - http://www.nuoviargomenti.net/poesie/seamus-heaney-su-osip-e-nadezda-mandelstam/
[4] - Nadežda J. C. Mandel'štam, L'epoca e i lupi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1971
[5] - Nadežda J. C. Mandel'štam, Le mie memorie, Milano, Aldo Garzanti Editore, 1972

martedì 11 dicembre 2018

Gli ologrammi poetici di Maria Luisa Vezzali

Come si fa a scrivere di una poetessa che si pensa di conoscere?
Semplice: leggendo anzi olografando la sua poesia.
Sì, di Maria Luisa Vezzali – è questa la poetessa della quale voglio scrivere – possiamo venire informati dalle parole facilmente intercettabili in rete o sulla quarta di copertina di uno dei suoi rari libri e potremmo svelarne qualche dettaglio in più alla lettura dei pochi versi sversati dalla superficie cartacea nell’abisso digitale. Impareremmo così che Maria Luisa Vezzali è docente di materie letterarie nella scuola superiore che ha tradotto Adrienne Rich per Crocetti (Cartografie del silenzio, 2000; La guida nel labirinto, 2011) e di Lorand Gaspar per Donzelli (Conoscenza della luce, 2006) e che prima di quest’ultima raccolta (Tutto questo con una prefazione di Elio Grasso, Puntoeacapo edizioni, 2018) ne ha pubblicate poche altre (L’altra eternità, Laboratorio, 1987; Eleusi marina, Guerini & Associati, 1992; dieci nell’uno, Eidos 2004; lineamadre, Donzelli 2017, Forme implicite, Allemandi 2011).

È inutile, per scrivere di una poetessa che si pensa di conoscere bisogna leggerla e rileggerla e ancora una volta leggerla.

Ma leggere poesia non è operazione semplice perché le parole non vanno accolte come quelle di un racconto con lo scopo di arrivare a una fine, alla scoperta di una impensabile verità, di un retroscena o una soddisfacente comprensione del fatto. No! Leggere la poesia richiede l’impegno, la grazia e la postura del…tuffatore di Paestum, perché non sono le parole a venire da noi ma noi a tuffarci in esse e a penetrarle a diversa profondità.

Partiamo da una considerazione generale. Noi (intendo specie homo comprendente così anche i nostri antichi antenati, erectus e abilis) “ascoltiamo/scriviamo/leggiamo” poesia, perché nel farlo la …creiamo.
Penso all’homo che ha inciso l’uro di Papasidero circa 10 000 anni fa e, ancor prima, all’homo di Altamira in Spagna o di Chauvet in Francia. Vale evidentemente il contrario, trasformando l’analogia in identità: nel crearla, ascoltiamo/leggiamo/scriviamo poesia.
E qui non possiamo che rifarci a Enzo Melandri che nel suo La linea e il circolo (del 1968 e ristampato da Quodlibet nel 2004) c’informa che :

«…una delle convinzioni più inconcusse […] di tutto il pensiero critico moderno, sia esso filosofico o no [ è che] non sia possibile superare in ingegno coloro che in epoca preistorica, hanno scoperto come addomesticare gli animali, selezionare le graminacee e fondere i metalli in leghe. In queste tre attività ci sono già tutti gli schemi di ragionamento utili per arrivare fino a noi…»

Se due più due fa quattro è perché l’uomo coltivava i campi. E viceversa
Se la Gioconda ride è perché l’uomo doveva scacciare i demoni dalla grotta di Papasidero. E viceversa.
Se… Tu ne quaesieris scire nefas quem mihi quem tibi è perché i romani hanno marciato al ritmo di 15 battute lungo proprio quelle strade che avanzando, man mano, costruivano! E viceversa.

Lo stesso che si è detto per la lettura vale, per il principio di identità, anche per la scrittura.
Quello che mi preme sottolineare è questo intreccio di azioni inestricabile che, volenti o nolenti, continuiamo a compiere grazie al nostro DNA: quale stretta familiarità esiste tra l’addomesticare e trovare le parole giuste per parlare, scrivere o insegnare; e quanta ancora ne esiste, di familiarità, tra fondere metalli per produrre leghe e le conoscenze acquisite per produrre una Grande Teoria Unificata (GUT) in fisica.
Tuffarsi in queste acque profonde e misteriose, ripeto, con l’impegno, la grazia e la postura del tuffatore archetipico vuol dire leggere, o meglio come ho anticipato, olografare poesia.
La Poesia parte sì da un linguaggio ma per disattivarne le funzioni informative e renderne possibile un altro uso particolare e differente che potremmo definire autosimilare o meglio ancora frattale.
In matematica, un oggetto auto-simile è esattamente, o approssimativamente, simile a una sua parte. Molti oggetti nel mondo reale, come ad esempio le coste, sono statisticamente auto-simili: parti di questi oggetti mostrano le stesse proprietà statistiche a differenti scale di osservazione. L'auto-similarità è una proprietà tipica dei frattali.
A diversi ingrandimenti di queste strutture si annida una essenza che permea tutto l’oggetto, tanto che qualunque sua parte resta simile al tutto.
A volte leggere poesia significa doversi muovere su scale diverse di osservazione quasi si possedesse uno strumento in grado di spaziare dall’atomico all’astronomico. Succede allora che se l’eccesso di ogni sensibile possa provocare l’ annientamento dell’organo sensorio, il difetto ad ogni scala d’osservazione ne potrebbe, viceversa, aumentarne la capacità.
Leggere poesia quindi è scoprire ( ad ogni lettura, ad ogni ingrandimento!) un nuovo “difetto” introvabile e invisibile fino alla osservazione precedente : è facile così passare dal fondamento comune della nostra umanità, ( attraverso una imperfezione del nostro patrimonio genetico) alla nostra più individuale e unica esperienza racchiusa magari in un singolo verso, (il nome della materia è anima), una singola parola (ossa), una particolare disposizione di una fonema rispetto agli altri.
La Poesia della Vezzali restituisce questa caratteristica frattale tanto che per alcune composizioni (quelle ad esempio raccolte nella sezione Cartoline metafisiche di Tutto questo) si avvertono questi passaggi di scala vertiginosi che vanno da un luogo metafisico (l’esergo aristotelico) al luogo fisico (da dove la cartolina viene inviata) passando per una nota di camomilla e ancora più giù (su?) al rumore che fa il prima della vita o il dopo.
In altre composizioni ancora la Poesia - proprio come le “ossa” che si annidano nella carne per reggerci o nella scuola per sorreggerla - si insinua nella… poesia. È il caso ad esempio di questa nell’ospizio del cranio tratta dalla sezione Scuola d’ossa:

nell’unica durata nell’unico
qui possibile dimoriamo
cantando

per niente nei viali convergenti
nella madre di respiro niente
ascolto

nell’agio delle mani d’amarsi
per niente e niente seggiole intorno
al tavolo

piuttosto nella sete piuttosto
nella fame sete nella fossa
di svaso

come di notte giorno si sente
da finestre variamente aperte
nel cranio

rotolare i cibi sui ripiani
urtare le pareti del frigo
ronzando

e le porte pulsare di carne
aprire chiudere via la luce
nel fango

e le voci maturare organiche
trasudare dilatare umori
lontano

questa fitta l’abbiamo sentita
di notte giorno sentita tutta
più dentro

il nome della materia è anima
l’abbiamo sfarinata per questo
per questo


Se proviamo ad allineare le parole che abbiamo scritto in corsivo riusciamo a riprodurre questa impressione frattale e a recuperare ancora (altra e inesauribile) poesia:

cantando
ascolto
al tavolo
di svaso
nel cranio
ronzando
nel fango
lontano
più dentro
per questo

Per questa intrinseca struttura autosimigliante, alle diverse scale di osservazione (testo complessivo, strofe, verso, parola) nella Poesia della Vezzali tanto il peso che la grazia sembrano affiorare dalla pagina o se vogliamo, riusciamo ad andare loro incontro a differenti profondità.
Questo perché la scrittura olografica della Vezzali conserva la grande capacità di ricordare la nostra abilità di “addomesticare gli animali, selezionare le graminacee e fondere i metalli in leghe” senza però dimenticare la fragilità della nostra natura di animali razionali, sentimentali, rituali.

Ed è solo attraverso una lettura olografica (così come lo è stata la scrittura) che possiamo recuperare questa particolare risonanza che chiamiamo Poesia e assaporare, ad ogni particolare, l’immagine di …Tutto questo.

giovedì 6 dicembre 2018

ARS poetica

Ṛta (devanāgarī ऋत) è un termine sanscrito che compare negli antichi testi indiani dei Veda (ca. 2000 a.C.). Con Ṛta si intende l' "ordine cosmico" a cui soggiace l'intera realtà, ma anche una consuetudine sacra ovvero l'associazione tra il rito sacrificale e il ritmo dell'universo a cui esso è strettamente associato. Esso prelude, quindi, al termine più diffuso, e successivo, di Dharma (Legge cosmica).
Il termine Ṛta deriva da (radice sanscrita di "muoversi") e *ar (radice indoeuropea di "modo appropriato"), quindi "muoversi, comportarsi, in modo corretto". Così Ṛta acquisisce il pieno significato di "ordine cosmico" ovvero della Realtà che procede priva di contrapposizioni od ostacoli.
Questo termine è legato, sempre per mezzo della radice indoeuropea di *ar, al termine greco harmos (da cui l'italiano "armonia") e al latino ars da cui "arte".
Non possiamo quindi evitare un collegamento diretto tra questo termine e l’arte in generale vista come attività che “si fa (si muove) in modo appropriato” come un vero e proprio rito con un suo ritmo: parole che non possono non essere accostate per nascita etimologica proprio a Rta. Parole che non possono non ricordarci quello che, ad esempio, la poesia dovrebbe appropriatamente fare, vale a dire ex-movere e cum-movere.
Ṛta è particolarmente considerato nei riti e nelle pratiche artistiche, ovvero nella corretta esecuzione del farsi (rito) che permette la permanenza stessa di un equilibrio cosmico (ritmo).

Tutta questa premessa per introdurre la fondamentale Lettera ai Pisoni di Orazio e parlare dell’armonia o, che è lo stesso, dell’Arte Poetica.

Ma si può partire anche dalla fine, cioè da oggi (ca. 2000 d.C.) e compiere un viaggio speculare a quello che va dalla parola ars alla Lettera ai Pisoni.
È un viaggio a ritroso che parte dal poeta centenario Lawrence Ferlinghetti e arriva alla stessa Epistola del poeta lucano di Venosa.
Come avrebbe detto il premio Nobel della letteratura Tomas Tranströmer ( grandissimo ammiratore del poeta Orazio): non solo noi guardiamo i ricordi ma anche loro ci guardano.

Il poeta-editore- impresario della controcultura americana Lawrence Ferlinghetti nel 2019 compirà 100 anni. Questo little boy che ha visto lo sbarco sulla Luna quando era appena cinquantenne intende chiudere la sua opera con un autobiografia che l’editore Doubleday ha deciso di pubblicare negli Stati Uniti poco prima del giorno 24 Marzo in cui il protagonista della Beat Generation arriverà appunto al suo secolo di vita.
Il poeta chiude così la sua autobiografia:

«Little boy, cresciuto da dissidente romantico, ha mantenuto la sua visione giovanile di una vita destinata a durare per sempre, immortale come lo è ogni giovane, convinto che la sua identità speciale non perirà mai , sì, credendo tutto ciò a dispetto del destino sfrenato dell’intera umanità che, secondo gli scienziati, ben presto scomparirà, con la Sesta Estinzione della vita sulla Terra. Ecco perché il canto degli uccelli, ora, non è un cinguettio di estasi ma un grido di disperazione».

Potrebbe sembrare una dichiarazione apocalittica ma non lo è perché nonostante l’estinzione annunciata (dal canto degli scienziati); nonostante il canto di disperazione degli uccelli ( o di chi dimentica di essere un little boy ), il Poeta da sempre ha la consapevolezza che non omnis moriar (Orazio, Odi, III, 30, 6), cioè di non morire del tutto e quindi che non tutto morirà.
Nel suo volumetto di 116 pagine dal titolo Cos’è la poesia, Ferlinghetti assegna un compito all’arte poetica e fa del poeta un protagonista dei tempi. Solo un forte richiamo ai valori umani interiori e una poesia che li esprima attraverso una trasmissione orale possono riportare l’umanità ad una condizione di armonia e farle recuperare l’equilibrio perduto.
Il suo amico Jack Kerouac avrebbe parlato, di ordine cosmico, di Dharma.
Cos’è la poesia si compone di due parti: nella prima il poeta si sofferma sui temi e i modi della produzione poetica. Nella seconda parte, dal titolo evocativo Sfide per giovani poeti , Ferlinghetti mostra ai giovani attratti dalla poesia, le vie del fare poetico: il modo corretto di muoversi.
Il rito e il ritmo. Parole che, ripeto, guardano alla radice sanscrita Ṛta ( "ordine cosmico") e dunque alla Ars poetica di Orazio e che dalla stessa radice sono guardate.
A sfogliare le pagine di Cos’è la poesia del poeta beat sono tantissimi i rimandi e i richiami al poeta Orazio a quella comune fiducia nell’altezza e validità dell’arte e alla convinzione di un messaggio che possa valicare i confini dello spazio e del tempo. Ferlinghetti non fa che ribadire con stringatezza quasi aforistica le idee formulate nell’Ars poetica di Orazio e che l’arte è la forza di queste idee, religione dell’anima e che dunque il poeta è un semplice banditore impegnato a divulgarle, sensibilizzare ed educare ad esse.

E le idee sono quelle che richiedono un rito per un ritmo con lo scopo di preservare un ordine o ripristinarlo: il requisito di semplicità e unitarietà (simplex et unum) dell’opera ; un perspicace accostamento (callida iunctura) di termini da cui possano scaturire nuovi significati; il criterio determinante dell’usus, della lingua viva, parlata e scritta, nel decretare la nascita, morte e resurrezione di voci antiche e moderne; la messa al bando di paroloni lunghi “un piede e mezzo” (sesquipedalia verba) che rendono stucchevole il frasario tragico; evitare la «montagna» di un altisonante esordio che partorisce il «topolino»; attingere ai vantaggi (commoda) che gli anni nel sopraggiungere portano con sé e che sottraggono scappando via; indugiare nel labor limae di una paziente e infinita revisione formale; lasciarsi sedurre dalle coppie complementari ars/ingenium e natura/ars per stabilire «un’ amichevole congiura»; ricercare l’equilibrio tra dulce e utile.

Ma le idee sono anche quelle che richiedono un ritmo per un rito, per poter cantare un’armonia nascosta che avvertiamo soprattutto in quei momenti nei quali il canto degli uccelli non sembra più essere un canto d’estasi o quando perdiamo la nostra visione giovanile di una vita destinata a durare per sempre, immortale come lo è un giovane, anche di 100 anni, convinto che la sua identità speciale non morirà mai.
Come lo siamo convinti noi.

Da Greatest Poems (Mondadori, Lo Specchio, 2018)

Pound a Spoleto
[…]
In sala di colpo si era fatto silenzio. Quella voce mi ha sconvolto, così pacata, così sottile, così flebile, eppure così tenace. Ho posato la testa sopra le braccia sulla balaustra di velluto. Mi sono sorpreso nel vedere una lacrima, una sola, cadermi su un ginocchio. La sottile, indomita voce continuava a risuonare. Uscendo alla cieca dalla porta sul retro del palco sono passato nel corridoio deserto di quel teatro dove gli altri, seduti, erano ancora girati verso di lui, poi sono sceso e sono andato fuori nella luce del sole, piangendo…

Lassù sopra la città
____________________lungo l’antico acquedotto
________________i castagni
___________________erano ancora in fiore
Muti uccelli
____________volavano nella valle
________________________________molto più giù
Il sole splendeva
___________________sui castagni
e le foglie
_____________stormivano al sole
___________e stormivano stormivano stormivano
_____________E avrebbero continuato a stormire
La sua voce
______________risuonava
_______________________risuonava
________________________________tra le foglie…