venerdì 27 luglio 2018

Fra(m)menti

Ritorno su Sbolci perché credo di aver raccolto qualche altro frammento della sua opera. Come quindi accade ad ogni puzzle che si rispetti, dopo averlo messo a posto questo ulteriore pezzettino, mi allontano dal piano dell’opera per ri-conoscere meglio il quadro di insieme.
Frammenti: così ero tentato fin dall’inizio a tradurre questo ultimo corso creativo di Renzo Sbolci e lo stesso artista livornese mi conferma nella... tentazione attraverso una sua e-mail:

“....era due anni che lavoravo sui totem e sentivo il desiderio di percorrere nuovi sentieri; così ho cominciato a realizzare una serie di lavori “etichettati” FRAMMENTI alcuni dei quali sono a Ro Ferrarese...”

Ma come tradisce la massa sonica della parola stessa, i due suoni (i due semi) «fra» e «menti» sono legati alla stessa unità significativa come un’orbita ellittica ai suoi fuochi: il termine frammenti vive nell’ellisse generata da «fra» che è fuoco di separazione tra due cose (ma anche riferimento a un pensiero, un sentimento segretamente nascosto...”fra sé e sé”); e l’altro fuoco, «menti», che è riferito a quanto di più intricato e complesso possa essere contenuto negli spazi biologici, quella capacità di (in)-formare e (ri)-creare (dal sanscrito manas=facoltà di misurare, giudicare le cose).
Il paradosso è che è attraverso quel «fra» che i frammenti di Sbolci schiudono un ampio spettro semantico, assumono una grande varietà di profili di molteplici io. Quel fra è cioè il tertium visibile-invisibile che rende possibile la circolazione del tratto, l’addensarsi di colori secondari, l’avvicendarsi di tempi e spazi, ritmi e infiniti delimitati. In quel fra che separa nettamente due frammenti viene messa in scena la soggettività dell’artista, il “fraseggio”.
Mi ripeterò dicendo che così come il DNA si riannoda e spiraleggia nella cellula, il “codice” dell’artista, evidentemente segreto a lui stesso, s’avvolge nelle opere come seme in cerca d’ovulo, come soggettività complementabile e modulabile attraverso la ricerca di un altro da sé luminoso o di un tratto (di sé) geneticamente disposto a duplicarsi. Un incessante e continuo essere-fra che diviene ininterrotto attraversamento e incontro in un luogo; durata e (s)cadenza del tempo. E ancora se preferite un fra origine e meta; mezzo e modo; causa ed effetto; infinito e polvere.
È su questo fuoco che Sbolci conduce la sua battaglia contro un’astrazione negativa dove alla nostalgia dell’infinito sostituisce - astrazione autentica – nostalgia fra questo infinito dipanando grandi matasse di tratti e forme; omaggiando altri artisti e altre tavolozze più o meno consapevoli, più o meno metabolizzate.
Si tratta di nostalgie geometriche e policrome che sembrano emergere da ogni tratto dell’opera alle differenti scale di osservazioni che vanno dal singolo pezzo del puzzle alla cornice o, per meglio dire, alle cornici. Da Euclide a Mandelbrot e ritorno.
Ma se questo è tutto racchiuso nelle vicinanze di questo fuoco (il fra) così biologico e genetico non possiamo però dimenticare, parafrasando Emerson, che ...la natura, che ha fatto l’artista, ha fatto anche la sua opera. La carne cioè si fa respiro e il corpo si fa mente. Arriviamo così all’altro fuoco dell’ellisse: l’incontro con gli altri, le «menti» dei frammenti.
Qui nell’altro fuoco dell’ellisse continua ad essere evidente la gravità che la natura dell’arte totemica esercita sull’artista, la spinta di una mente che suscita domande alle quali solo un pensiero logico squadrato ed euclideo può rispondere.
Le cornici che racchiudono questi frammenti - quasi fossero le membrane cellulari a protezione del nucleo e del codice genetico - sono quadrati che sorgono da orizzonti rettangolari; teste spigolose che poggiano su spalle robuste. Sono le menti che si toccano come le caselle di una scacchiera, come gli abitanti del pianeta Flatlandia che possono conoscersi solo...di lato ed evidentemente impossibilitati a conoscersi realmente.
I frammenti sono fatti così come tante cose sparse fra le cose e pensieri di menti imponderabili e incomunicabili: raccoglierli e metterli insieme potrebbe dare quella sensazione di completezza e bellezza alle quali l’artista (l’opera)...la Natura aspirano.
Orbitare tra questi due fuochi, il primo così metabolico e biologico, il secondo così simbolico e totemico, produce il respiro dell’opera di Sbolci, la sua ellisse. È questa sua astrazione positiva che riesce a ricomporre e tenere insieme i frammenti di una realtà e di una soggettività sempre più minacciate e difficili da tenere integre.
Tra la difficoltà di restare fra sé e sé e quella di confrontarsi con gli altri, Sbolci con la sua arte risponde a questa profonda domanda di co-esistenza e lo fa in un modo che a me piace immaginare così:

«Spesso andando a zonzo tra i suoni e i frammenti della luce meridiana di una delle nostre città (Ferrara, Livorno, Matera, Palermo...) faccio una pausa per buttare giù qualche parola su un foglio di carta o, perché no?, sulle note del cellulare. Oppure mi fermo davanti a qualcosa che mi colpisce e traccio su un taccuino qualche segno o scatto una foto.
Ma faccio tutto questo solo per meditare, sì, per meditare sugli equivoci e sulle questioni eterne della vita, sulla co-esistenza e sulla profondità del fatto che ogni cosa che emerge alla fine converge sia che si tratti di infinito che di polvere.
E dopo aver fatto questo mi accomodo davanti al mio orizzonte a mangiare qualcosa e poi mi metto all’opera...».

lunedì 9 luglio 2018

L'infinito delimitato di Renzo Sbolci

Vorrei che questo Post si formasse sotto i vostri occhi come un’opera dell’artista livornese Renzo Sbolci [1], dei quali – opera & artista= operartista- vi parlerò approfittando di una sua mostra inaugurata da poco a Ro Ferrarese grazie all'impegno di Giovanni Dalle Molle e dei Caschi Blu della Cultura. Comincio così da un materiale raccolto alla rinfusa, pezzetti così piccoli da sembrare granelli di polvere. Ha ragione il critico Renzo Orsini quando parla dell’opera di Sbolci quale risultato della ricomposizione di una enorme lastra di cristallo andata in frantumi: ma nel frantumarsi non solo abbiamo perso, della lastra originale, il disegno ma anche la capacità di guardarci, un disegno, attraverso perché per via di una trasmutazione, il cristallo si è mutato in legno dipinto a pastelli cerosi.
Così quella disposizione ordinata e infinita di un universo cristallino ma indecifrabile ha lasciato il posto a un assemblaggio caotico e opaco ma molto significativo.
È inutile nascondere che buona parte di questo processo creativo sia dovuta alla natura della città di Livorno che fece dire a Caproni: «i miei versi sono nati in simbiosi con il vento». Bene, così appaiono nascere le opere di Sbolci e se cosi è allora lasciamo soffiare il vento anche su questo Post.
“La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole”.
In queste poche e sostenute folate di Italo Calvino [2]ci sembra di intravedere la descrizione di un’opera di Sbolci: la tela di legno non racconta il suo passato, non può cioè dire nulla sulla forma dell’universo prima che questo accadesse e cadesse in frantumi, in polvere, ma lo contiene tutto in quei piccoli pezzetti giustapposti tra loro a formare linee e poi inCroci e a farsi largo fuori dal piano nello spazio di chi osserva. E contenendo questo passato, veramente come le linee della mano, l’opera non può che contenere anche il suo futuro: l’opera di Sbolci non è...presente è una mutazione continua riconoscibile come una marea, a volte, ma altre irriconoscibile e imprevedibile come una burrasca o una catastrofe naturale.
Ma sempre, per quanto catastrofica , una mutazione accade sull’orlo di due mondi, all’incrocio o sulla superficie che separa qualcosa che ancora riconosciamo attraverso dettagli minimi ma significativi (le griglie delle finestre, gli scorrimano delle scale, le antenne dei parafulmini), da qualcosa di nuovo e assolutamente misterioso che sta per prendere corpo, che sta per manifestarsi.
E quella superficie tripartita, l'orlo del mondo, che separa cielo terra e mare, Sbolci, come tutti gli abitanti di mare, la conosce bene, l’ha sempre avuta dinnanzi agli occhi - negli occhi - fin da bambino, e la conosce così bene da tracciarla a occhi chiusi, camuffandola nei suoi totem, spezzettandola, quella linea infinita d’universo, in tanti graffi, seghettature, intagli, svirgole.
E con l’abilità del funambolo, che si appoggia ad ogni granello di polvere pur di attraversare il vuoto, riesce a farci strada e a portarci dall’altra parte del percorso.
Sani e salvi.

36 [3]
...
Il porto a chi vuole tornare
per raccontare con vanto agli altri
d'averlo visto tutto questo mondo
illuso quasi d'esserne padrone;
deluso di non aver trovato nulla
che somigliasse a lui.

Noi, invece,
eterni appassionati,
affamati di tramonti infocati,
di albe tranquille, di cupi notti stellate...
Noi,
ancora lontani sull'effimera riga
come funamboli su corda sospesa
a giocare con l'imprevisto,
a danzar con i venti,
a cantar col mare,
ad amare.

Riferimenti

[1] - www.renzosbolci.it
[2] - I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, 1972
[3] - R. Sbolci, La neve d'Agosto, Aletti Editore, 2013