mercoledì 27 agosto 2025

Squeeze the day: la poesia di McGuiness come forma della perdita

La nuova raccolta di Patrick McGuiness curata con grande sensibilità da Giorgia Sensi ha per titolo Linea fissa (Interno Poesia, 2025). Per entrare nel cuore della raccolta faccio mia la citazione di Philip Morre riportata nella prefazione: “Se la privazione è per Larkin ciò che i narcisi erano per Wordsworth, allora la perdita è per McGuinness ciò che il giorno è per Orazio: qualcosa da cogliere, da spremere, da salvare.” Questa frase che intreccia il nostro poeta con Larkin, Wordsworth e Orazio, racchiude una storia intera e la poetica tutta di Patrick McGuiness: una storia (e una poesia) che non consola, ma resiste. Che non celebra il presente, ma lo interroga. Che non cerca la bellezza, ma la verità del dolore. Patrick McGuinness si definisce “un belga che scrive in inglese”. Ma questa definizione è solo la soglia di un’identità più complessa. Nato in Tunisia, cresciuto in Belgio, anglofono per scelta e francofilo per vocazione, McGuinness è un autore che non abita una sola lingua, né una sola patria. La sua biografia è una geografia mobile, un mosaico di appartenenze che si riflette nella sua poesia: una poesia che non cerca radici, ma risonanze. In lui convivono il classicismo e l’avanguardia, la memoria personale e la storia europea, la precisione filologica e l’urgenza emotiva. È poeta, romanziere, traduttore, critico, professore di letteratura comparata: un autore che, per citare Walt Whitman, “contiene moltitudini”. E queste moltitudini non sono solo culturali o linguistiche, ma anche affettive e temporali: McGuinness scrive dal margine, dal confine, dal punto in cui il passato si fa presente e il presente si fa forma. La sua poesia è attraversata da una tensione costante tra ordine e perdita, tra struttura e smottamento. Non c’è mai un’identità fissa, ma, appunto, una linea fissa: una linea che tenta di trattenere ciò che scivola, di dare forma a ciò che si dissolve. La prima sezione della raccolta si intitola Squeeze the day. Un titolo che sembra giocare con il celebre carpe diem oraziano, ma che in realtà ne propone una variazione ironica e dolorosa. Non si tratta di cogliere il giorno come un fiore, ma di spremere il tempo come un frutto maturo, forse già guasto, forse già perduto. Il verbo “squeeze” suggerisce un gesto fisico, quasi violento, che implica urgenza, necessità, sopravvivenza. In questo senso, Squeeze the day si avvicina più al Seize the day di Saul Bellow che al carpe diem classico. Nel romanzo di Bellow, il giorno non è una promessa, ma una sfida, un campo di battaglia interiore. Anche in McGuinness, il giorno è impregnato di perdita. Non è il tempo della gioia, ma quello della memoria, della privazione, della madre assente. Il giorno è già finito, diceva / e ne era convinta. / Spezzava i tempi dentro di me, / mi faceva vivere come se stessi evaporando: / mi diceva che non sarei mai stato / mio contemporaneo. La poesia diventa allora un atto di cura, un modo per abitare il lutto, per dare forma all’assenza. Non c’è consolazione, ma c’è testimonianza. Non c’è redenzione, ma c’è resistenza. Sempre Philip Larkin scriveva: “La privazione è per me ciò che i narcisi erano per Wordsworth”. In Linea fissa, la madre scomparsa si manifesta come passero, spia, ostaggio, profumo, specchio. È ovunque e poi d’un tratto sparita. /Se fosse un uccello, lei sarebbe un passero:/ allo stesso tempo ovunque e poi d’un tratto sparito.// Partì centinaia di volte, per migliaia mi lasciò solo,/ e quando le sue ali si aprirono, chiusero il cielo./ La perdita non è solo lutto, ma dislocazione temporale, alterazione del ritmo vitale. La madre non è solo assente, è agente poetico, capace di modificare il tempo e la percezione. McGuinness afferma: “Ciò che non c’è rimane, in un certo senso, sempre lì, finché viene ricordato ed espresso a parole.” La poesia diventa allora lingua della mancanza, forma dell’assenza, memoria attiva. Non si tratta di riempire il vuoto, ma di renderlo udibile, di abitare il silenzio. Squeeze the day non è solo un invito a vivere, ma a ricordare. A non sprecare il dolore. A trasformarlo in forma. In linea fissa. La poesia di Patrick McGuinness ci insegna che il tempo non si coglie, si strizza. Che la memoria non consola, ma resiste. Che la perdita non è una fine, ma una soglia: il punto da cui si scrive, da cui si guarda, da cui si ama. In Linea fissa, ogni verso è un tentativo di trattenere ciò che scivola. Di dare voce all’assenza. Di fare del vuoto una forma. E forse è proprio questa la funzione più alta della poesia: fissare ciò che non può essere trattenuto, rendere visibile ciò che è già scomparso, salvare il giorno, anche quando il giorno è perduto. McGuinness ci lascia una...traccia, una linea, forse tenue all'inizio ma che si rafforza ad ogni lettura. Non una certezza, non una risposta. Ma una linea. Fissa. Fragile forse, ma che si rafforza ad ogni passaggio: come quesi sentieri di montagna che qualcuno per primo ha segnato e che altri ricalcano. Una linea che perdura quando la vita s'assenta. Una voce che resta quando tutto tace.

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