giovedì 28 agosto 2025

Una forza che ha cara la vita

American primitives è la quinta raccolta poetica di Mary Oliver pubblicata negli Stati Uniti nel 1983 e tradotta in Italia nel 2022 da Paola Loreto per la bianca Einaudi con il titolo Primitivo americano. La lirica di Mary Oliver rientra nel movimento letterario conosciuto come ecopoetry. Nata nel 1935 a Maple Hills Heights, un sobborgo di Cleveland nell’Ohio, la Oliver ha vissuto a Provincetown, Massachusetts e Hobe Sound in Florida fino al 2019, anno della sua morte. Oliver è una voce poetica molto apprezzata negli Stati Uniti: il suo pensiero ecologista, erede della migliore tradizione americana partita da Whitman, Thoreau, e proseguita dai poeti della beat generation fino ad arrivare ai contemporanei Mark Strand e Louise Gluck (Nobel per la letteratura nel 2020), ha sempre ricevuto ampi consensi tanto da trasformare le sue raccolte in veri e propri bestsellers, e lei nel « poeta americano di gran lunga più venduto»(New York Times). Il ritardo con il quale l’abbiamo scoperta qui in Italia è quasi sicuramente dovuto al gusto ( e al retrogusto) del panorama poetico nazionale: rivolto più a chi scrive e meno a chi legge ( quanti , quanti concorsi poetici!); sempre devoto e ossequioso alle solite chiese chiuse e sempre più auto (auto)-riferito (esibito). La poesia della Oliver è stata probabilmente considerata troppo semplice, diretta e poco sperimentale per i palati raffinati nostrani i quali, evidentemente, non riescono a vedere nella poesia ciò che la Oliver, così semplicemente, vede e ci fa vedere : «una forza che ha cara la vita [ e che] richiede una visione» ( M. Oliver, A Poetry Handbook , Houghton Mifflin Ed., 2024). È una visione che Paola Loreto, nella sua magnifica prefazione, ha definito dionisiaca: “Primitivo americano è un libro dionisiaco,…un libro dell’esultanza per l’immersione nella proliferazione disordinata e incontrollata della natura […].Le poesie [ di Primitivo americano] celebrano sensazioni fisiche primordiali come la percezione del pericolo del freddo estremo o dell’appagamento nel nutrirsi di altra materia naturale che è al tempo stesso diversa e uguale a sé […], Oliver mette in scena sia la metamorfosi del non-umano in umano- quando, folgorata dalla meraviglia, descrive una cerva che partorisce come una donna bellissima- sia dell’umano nel non-umano, quando descrive se stessa come un orso che rapina un favo di miele o se ne riempie la bocca con una grossa zampa…” Si avverte nella poesia della Oliver questa forza che non può essere identificata né catturata ma che pare esistere allo stesso modo di un… mito e, si sa, il mito è una miniatura di un evento reale o fittizio. Il processo di poetare (creare), riducendo una “cosmologia” alla scala dei propri pensieri e sensazioni, è di fatto un processo di miniaturizzazione: «Potrei mostrarti l’infinito in un guscio di noce», dice Amleto. Secondo questo criterio il segreto del tempo storico non è rappresentato dal suo scorrere o che, nel suo trascorrere, il tempo passi fino a diventare passato. No, non è questo. Il vero segreto del tempo è rappresentato dal suo diventare sempre più piccolo fino a ridursi a un puntino e a rendersi invisibile alla nostra vista. In questa sorta di prospettivismo, per così dire, mito-cosmico , la morte umana non è uno svanire nel nulla, ma il compimento di una necessità: iniziare una nuova rigenerazione nelle “cascate di un interminabile cambiamento” (“Unending/waterfall of change”). E la Oliver, in ogni suo verso, pare sussurrarci proprio questo, smuovendo ricordi umani e animali, ponendoci in una prospettiva tale da consentire la vista non solo della noce ma anche dell’universo in essa racchiuso . In questa revisione del rapporto fra io e mondo, tipica del pensiero ecologista contemporaneo, la vecchia e “catastrofica” prospettiva antropo-centrica lascia il posto a quella eco-centrica e relazionale tra umano e non umano ed è per grazia di tale prospettiva che la Poesia di Mary Oliver manifesta quella forza cara alla vita che potremmo chiamare semplicemente fede. TECUMSEH*- Sono scesa, non molto tempo fa,/ al Mad River, mi sono inginocchiata sotto i salici/ e ho bevuto alla sua corrente increspata,/ qualsiasi pazzia sia stata c’è una malattia/ peggiore del rischio di morire ed è dimenticare/ quello che non dovremmo dimenticare mai./ Tecumseh viveva qui./ Le ferite del passato/ sono ignorate ma restano attaccate/ come i rifiuti impigliati tra i rami gialli,/ giornali e sacchetti di plastica, dopo le piogge.// Dove sono gli Shawnee adesso?/ Lo sai? O dovresti/ scrivere a Washington, e anche allora,/ qualsiasi cosa ti dicessero,/ ci crederesti? A volte/ vorrei dipingermi il corpo di rosso e uscire/ nella neve brillante/ a morire.// Il suo nome significava Stella Cadente./ Dalla regione del Mad River a nord fino al confine/ raccolse le tribù/ e le armò ancora una volta. Giurò/ di tenere l’Ohio e ci mise/ più di vent’anni a perderlo.// Dopo lo scontro finale e cruento, al Thames,/ fu finita, salvo che/ il suo corpo non si riusciva a trovare./ Non fu mai trovato,/ e puoi farne quello che vuoi, dire/ che la sua gente venne tra le foglie nere della notte/ per trascinarlo a una tomba segreta, o che/ si ritramutò in un ragazzino e saltò/ in una canoa di betulla e se ne tornò/ a casa remando giù per i fiumi. Comunque,/ almeno di questo sono sicura: se lo incontriamo/ lo riconosceremo,/ sarà ancora/ così arrabbiato./ * TECUMESH (“Stella cadente” o “Cometa fiammeggiante”) fu un capo Shawnee, a cui si deve una strenua resistenza all’espansione americana nell’odierna regione dei Grandi Laghi organizzando una confederazione delle tribù dei nativi nord-occidentali. Nato a Springfield, nell’Ohio, intorno al 1768, morì nel 1813, nella battaglia presso il fiume Thames, in Canada. E davvero la storia potrebbe essere come una ….cometa fiammeggiante che si riduce a un puntino freddo e buio quando si allontana per rigenerarsi nuovamente in una stella splendente quando ritorna.

mercoledì 27 agosto 2025

Squeeze the day: la poesia di McGuiness come forma della perdita

La nuova raccolta di Patrick McGuiness curata con grande sensibilità da Giorgia Sensi ha per titolo Linea fissa (Interno Poesia, 2025). Per entrare nel cuore della raccolta faccio mia la citazione di Philip Morre riportata nella prefazione: “Se la privazione è per Larkin ciò che i narcisi erano per Wordsworth, allora la perdita è per McGuinness ciò che il giorno è per Orazio: qualcosa da cogliere, da spremere, da salvare.” Questa frase che intreccia il nostro poeta con Larkin, Wordsworth e Orazio, racchiude una storia intera e la poetica tutta di Patrick McGuiness: una storia (e una poesia) che non consola, ma resiste. Che non celebra il presente, ma lo interroga. Che non cerca la bellezza, ma la verità del dolore. Patrick McGuinness si definisce “un belga che scrive in inglese”. Ma questa definizione è solo la soglia di un’identità più complessa. Nato in Tunisia, cresciuto in Belgio, anglofono per scelta e francofilo per vocazione, McGuinness è un autore che non abita una sola lingua, né una sola patria. La sua biografia è una geografia mobile, un mosaico di appartenenze che si riflette nella sua poesia: una poesia che non cerca radici, ma risonanze. In lui convivono il classicismo e l’avanguardia, la memoria personale e la storia europea, la precisione filologica e l’urgenza emotiva. È poeta, romanziere, traduttore, critico, professore di letteratura comparata: un autore che, per citare Walt Whitman, “contiene moltitudini”. E queste moltitudini non sono solo culturali o linguistiche, ma anche affettive e temporali: McGuinness scrive dal margine, dal confine, dal punto in cui il passato si fa presente e il presente si fa forma. La sua poesia è attraversata da una tensione costante tra ordine e perdita, tra struttura e smottamento. Non c’è mai un’identità fissa, ma, appunto, una linea fissa: una linea che tenta di trattenere ciò che scivola, di dare forma a ciò che si dissolve. La prima sezione della raccolta si intitola Squeeze the day. Un titolo che sembra giocare con il celebre carpe diem oraziano, ma che in realtà ne propone una variazione ironica e dolorosa. Non si tratta di cogliere il giorno come un fiore, ma di spremere il tempo come un frutto maturo, forse già guasto, forse già perduto. Il verbo “squeeze” suggerisce un gesto fisico, quasi violento, che implica urgenza, necessità, sopravvivenza. In questo senso, Squeeze the day si avvicina più al Seize the day di Saul Bellow che al carpe diem classico. Nel romanzo di Bellow, il giorno non è una promessa, ma una sfida, un campo di battaglia interiore. Anche in McGuinness, il giorno è impregnato di perdita. Non è il tempo della gioia, ma quello della memoria, della privazione, della madre assente. Il giorno è già finito, diceva / e ne era convinta. / Spezzava i tempi dentro di me, / mi faceva vivere come se stessi evaporando: / mi diceva che non sarei mai stato / mio contemporaneo. La poesia diventa allora un atto di cura, un modo per abitare il lutto, per dare forma all’assenza. Non c’è consolazione, ma c’è testimonianza. Non c’è redenzione, ma c’è resistenza. Sempre Philip Larkin scriveva: “La privazione è per me ciò che i narcisi erano per Wordsworth”. In Linea fissa, la madre scomparsa si manifesta come passero, spia, ostaggio, profumo, specchio. È ovunque e poi d’un tratto sparita. /Se fosse un uccello, lei sarebbe un passero:/ allo stesso tempo ovunque e poi d’un tratto sparito.// Partì centinaia di volte, per migliaia mi lasciò solo,/ e quando le sue ali si aprirono, chiusero il cielo./ La perdita non è solo lutto, ma dislocazione temporale, alterazione del ritmo vitale. La madre non è solo assente, è agente poetico, capace di modificare il tempo e la percezione. McGuinness afferma: “Ciò che non c’è rimane, in un certo senso, sempre lì, finché viene ricordato ed espresso a parole.” La poesia diventa allora lingua della mancanza, forma dell’assenza, memoria attiva. Non si tratta di riempire il vuoto, ma di renderlo udibile, di abitare il silenzio. Squeeze the day non è solo un invito a vivere, ma a ricordare. A non sprecare il dolore. A trasformarlo in forma. In linea fissa. La poesia di Patrick McGuinness ci insegna che il tempo non si coglie, si strizza. Che la memoria non consola, ma resiste. Che la perdita non è una fine, ma una soglia: il punto da cui si scrive, da cui si guarda, da cui si ama. In Linea fissa, ogni verso è un tentativo di trattenere ciò che scivola. Di dare voce all’assenza. Di fare del vuoto una forma. E forse è proprio questa la funzione più alta della poesia: fissare ciò che non può essere trattenuto, rendere visibile ciò che è già scomparso, salvare il giorno, anche quando il giorno è perduto. McGuinness ci lascia una...traccia, una linea, forse tenue all'inizio ma che si rafforza ad ogni lettura. Non una certezza, non una risposta. Ma una linea. Fissa. Fragile forse, ma che si rafforza ad ogni passaggio: come quesi sentieri di montagna che qualcuno per primo ha segnato e che altri ricalcano. Una linea che perdura quando la vita s'assenta. Una voce che resta quando tutto tace.