lunedì 11 luglio 2022

...è un mondo di domande o di risposte?...

Molti mi chiedono: «Perché ti piacciono gli haiku?». «Perché sono epigrammi lirici», rispondo, rendendomi immediatamente conto che questa non potrà essere presa da tutti come una risposta chiara ed esauriente: è di risposte/ è un mondo di risposte/ oppure oppure…/. Già: è questa la questione delle questioni; siamo al mondo per farci delle domande o per cercare delle risposte? Detta in un altro modo: le risposte sono qui davanti a noi e non le troviamo per mancanza di …connessioni sufficienti; oppure, qui davanti a noi si parano, e continueranno a pararsi - insoddisfatte - le domande dalle infinite risposte? E dunque gli haiku, nella loro laconica brevità con quella inesauribile risonanza, mi paiono racchiudere contemporaneamente tutte le domande per una singola risposta e, viceversa, tutte le risposte a una singola domanda. Come sia possibile che una manciata di parole raccolte in 17 sillabe, suddivise in tre versi, possano dare questa sensazione è un mistero (yugen in giapponese): lago vetusto/ una rana si tuffa/ rumore d’acqua/. Tutto qui? Tutto qui, perché il lago non è propriamente un lago e quel vetusto non è un dato (numerico) di “certezza scientifica” e la rana, il rumore sono entrambi…anfibi, ambigui e…trasmigranti. Simbolicamente ed effettivamente. Tutto, davvero tutto, è qui. Proprio per questo gli haiku mi piacciono; «perché», come ho detto, «sono epigrammi lirici», e come tali, mi catturano per la loro formale brevità e per quella sostanziale risonanza che li contraddistingue; perché hanno a che fare con… il rumore di fondo dell’esistenza, quello che i metafisici Indù chiamerebbero prajāpati, il ronzio costante che precede ogni profilo sonoro, quel silenzio dietro al quale si avverte qualcUno che opera, se non proprio qualCosa in azione. Ecco gli haiku hanno a che fare con un complesso di forze ignote e incontrollabili che sembrano osservare e sostenere tutto ciò che accade. Domande e risposte comprese. Potremmo chiamarlo, questo insieme di forze, prajāpati, appunto, oppure percezione ambientale (umwelt) o anche yugen. Più “semplicemente” Kate Tempest lo chiama connessione creativa.
Ka(t)e Tempest (Westminster, 22 dicembre 1985) è un(a) rapper, poeta, compositrice, scrittrice, drammaturga e performer britannica. Nel 2013 ha vinto un Ted Hughes Award per il suo album in studio Brand New Ancients ed ha ricevuto la nomina di Poeta della Nuova Generazione dalla Poetry Book Society, un riconoscimento assegnato una volta ogni decade. I suoi dischi Everybody Down e Let Them Eat Chaos sono stati nominati per il Mercury Music Prize. Il secondo è accompagnato da una raccolta di poesie (pubblicata in italiano da edizioni e/o, Che mangino caos), che a sua volta ha avuto una nomination per il Costa Book of the Year nella categoria "Poesia". Il suo romanzo d'esordio The Bricks That Built the Houses è stato un bestseller del Sunday Times e ha vinto un Books Are My Bag Readers per il miglior autore esordiente. Quest’anno è stato tradotto il suo primo saggio, Connessioni (edizioni e/o), che è una riflessione sul potere della creatività e , a suo modo, la testimonianza di quel complesso di forze ignote e incontrollabili che osserviamo per osservarci e che sosteniamo per sostenerci. Ogni istante della nostra giornata, nella sua inevitabile brevità, è un'ottima occasione per connetterci: chiunque appartenga a una generazione che va dai millennials in avanti potrebbe abbinare il termine "connessioni" a qualcosa di digitale. Ma pur essendo Kae Tempest una fiera rappresentante della categoria dei nativi digitali, in questo saggio invita a focalizzarci su di un altro tipo di connessione. Kae Tempest (si) ci chiede se siamo sicuri che in quest'epoca di iperconnettività ci possiamo definire davvero legati - o connessi - gli uni agli altri o più semplicemente connessi come potrebbero esserlo il “lago vetusto”, la “rana” e il “rumore d’acqua” nel nostro haiku. In una società iper-individualista, competitiva e insostenibile (ambientalmente, socialmente ed economicamente), Tempest ci invita a uscire dal nostro "torpore …antropico", reazione (domanda o risposta?) alla crisi globale che, paradossalmente, porta a raggomitolarsi sempre di più su sé stessi. A questo intorpidimento si può reagire in un solo modo: essere creativi. Il saggio di Kae Tempest guarda alla creatività come il mezzo per contrastare l’intorpidimento del mondo moderno. Più esplicitamente, Tempest prende le mosse da Il Libro Rosso di Carl Gustav Jung e dalla sua teoria che dentro ognuno di noi risiedono un “spirito delle profondità” e uno “spirito del tempo”. Quest’ultimo, detto altrimenti l’ego quotidiano, si preoccupa di obiettivi e ambizioni più immediate. Entrambi gli spiriti sono necessari, scrive Tempest, ma li abbiamo sbilanciati. Per ritrovare il nostro equilibrio, dobbiamo recuperare la capacità di andare in profondità (come la rana) e riproporre ancora una volta le stesse domande sul “rumore di fondo dell’esistenza”, su quel “silenzioso ronzio” che precede ogni profilo sonoro e perfino ogni emissione vocale legata alla nostra iper-individualità. Ogni capitolo del saggio è preceduto da citazioni di William Blake, aforismi che ricalcano quella laconica brevità degli haiku della quale parlavo all’inizio e che continuano a risuonare nelle parole di Kae Tempest a commento delle citazioni, parole che si allargano come i cerchi provocati dal tuffo della rana in uno stagno antico e profondo come l’universo. La creatività , come diceva Blake, risiede in qualcosa che viene prima della percezione sensibile, una percezione visionaria che lui chiamava vortice. Per Kae Tempest questo vortice nasce dal quotidiano, dalla fatica. Da appunti scritti o scarabocchiati a penna sul taccuino e poi sistemati al computer, dalle sue barre rap e dalla sua musica. Ritmi, colori, versi che sono al tempo stesso percezione visionaria e percezione sensibile, cioè connessioni tra un mondo di domande e un mondo di risposte.

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