giovedì 15 luglio 2021

Sono vasto, contengo moltitudini

Dopo aver letto il suo I poeti del sogno, (Inschillobeth , Roma 2020), l’autore, Antonio Fiori, è diventato, almeno per me, un chiaro e lampante esempio di mimetismo antropologico. Dunque un esempio perfetto anche della mia (nostra) identità.
Prima però facciamo un passo indietro all’epoca della… civiltà delle macchine. Nel settembre-dicembre 1977, sollecitato da Leonardo Sinisgalli, Italo Calvino scrive per il numero XXV della Civiltà delle macchine , la rivista creata dal poeta-ingegnere lucano, un pezzo dal titolo, appunto, Identità. “A scrivere sono io, certo, - scrive Calvino – “ma in questo io bisogna riconoscere la parte che ha il fatto che sono un bianco eurocentrico petrolifago e alfabetifero, perché se appartenessi a un altro tipo di cultura, con o senza scrittura, con ordinamento tribale o di clan, praticante culto vegetale o animale o degli antenati patrilineari o matrilineari, allora quello che scrivo dell’identità sarebbe completamente differente”. Calvino centra qui perfettamente l’aporia insita nel termine identità e nella sua stessa definizione e, in pratica, anticipa o se volete sintetizza, a modo suo, tanta antropologia su questo tema. Ad un certo punto scrive: “diciamo dunque che le condizioni necessarie dell’identità sono due: prima che io sia in grado di ripetere un’esperienza, sapendo di ripeterla, per esempio riconoscermi guardandomi allo specchio; seconda che gli altri siano in grado di capire da una volta all’altra che io sono sempre io”. Nel nostro mondo, “certezze” di questo tipo sono sempre più minacciate sia per la “difficoltà di guardarsi allo specchio e riconoscersi”, sia perché di altri ce ne sono molti di più e ne percepiamo come non mai la moltitudine. E più queste certezze si fanno labili più si sviluppa in noi una sorta di retorica dell’identità che ci fa dimenticare come ciò che definiamo Identità sia in effetti la risultante di un incontro con altri, di una contrapposizione ad essi ma anche di una mescolanza. Paradossalmente proprio in un momento storico nel quale motivazioni ideologiche, sociali, politiche e pandemiche spingono verso una riedizione di nozioni chiuse ed immobili, l’antropologia ha dimostrato in modi rigorosi e incontrovertibili che le identità di gruppi, popoli, etnie e personali non esistono in sé e per sé , ma si formano, si sviluppano e decadono in base e in funzione di continue contaminazioni, di intrecci complessi e di interazioni multiple, in modi e tempi caratterizzati da variabilità complessa. Si pensi a come il cambiamento climatico e la pandemia modificheranno (o hanno già modificato) le nostre identità. A questo punto potremmo anche noi, come ha fatto Calvino, lasciarci suggestionare dallo strumento più raffinato per definire questa benedetta identità . Una popolazione di agricoltori del Burkina Faso, i Samo, ritengono che l’identità di una persona sia costituita da nove componenti: 1) il corpo che si riceve dalla madre, 2) il sangue che si riceve dal padre, 3) l’ombra che il corpo proietta, 4) calore e sudore, 5 il respiro, 6) la vita, o meglio, una particella della vita, che è una entità in cui tutti gli esseri sono immersi, 7) il pensiero, suddiviso in intendimento e coscienza, 8) il doppio, che è la parte immortale, che può compiere e subire le stregonerie, 9) il destino individuale. A questi nove elementi bisogna poi aggiungere quattro attributi: il nome, l’omonimo soprannaturale, il segno dell’eredità e la presenza di una coppia di geni. Così gli elementi in gioco a definire una identità diventano 13-14 e collegano praticamente un singolo individuo all’umanità e all’universo. Possiamo allora ancora meravigliarci dei sotterfugi letterari come quelli cosiddetti di eteronimia o pseudonimia? Quei casi nei quali l’autore inventa (o scopre) un autore fittizio (o pseudoautore), che, nonostante la dimensione immaginaria, possiede una sua precisa personalità? Si pensi al filosofo Soren Kierkgaard o, al caso più rappresentativo tra i poeti, il portoghese Fernando Pessoa che aveva almeno altre quattro personalità letterarie (alias Álvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro, Bernardo Soares). O ancora, si pensi, a Elisa Sansovino alias Beppe Salvia. Gli eteronimi, come si sa, differiscono dagli pseudonimi perché questi ultimi sostituiscono il nome di un autore reale, che rimane così sconosciuto. Gli eteronimi invece coesistono con l'autore, e ne formano una sorta di estensione del carattere ( dei suoi desideri); sono personaggi completamente diversi che sembrano vivere di vita propria, scrivendo spesso con parole, metri e stili differenti da quelli dell'ortonimo (che è l’autore: vero e proprio fingitore!). E arriviamo a noi, al nostro Antonio Fiori visto come l’esempio più trasparente, un “gioiello” luminoso in grado di riflettere tutto quanto abbiamo detto su questa luce abbagliante dell’identità. Già nel suo famoso verso, Walt Whitman disse e contemplò tutto quanto: “Sono vasto, contengo moltitudini”. Nella operazione di Antonio Fiori, nel suo I poeti del sogno, questo verso si manifesta nella sua praticità: la poesia è vasta, contiene moltitudini di generi, poeti, epoche e lingue; di sangui che si sono mischiati nel corso della evoluzione della specie; di culture che si sono contaminate vicendevolmente; di parole, versi suoni e significati che hanno seguito orbite cometarie a volte così iperboliche da non poter rientrare a terra. Fiori nella sua (“nostra”) antologia poetica si veste e si traveste (o meglio sarebbe dire : si versa e si riversa) cercando di non dare nell’occhio. Attraversa le frontiere. Si ferma. Prende fiato e riparte. Si diverte a scivolare camuffato tra strade che hanno vissuto secoli, tra vite esaurite in un verso. Quasi ci invita a chiederci quello che si è chiesto lui nell’affrontare l’opera: “Come sarebbe stato se invece di travestirmi da Lucio Faleno, da Estella Ruiz Blanco, da Jules Tassard fino a Silvestra Bonetti e Kevin Stafford , avessi optato per travestirmi da Donato Angeli o addirittura restare vestito proprio da… Antonio Fiori?” Già, come veniamo osservati dagli altri. Ecco quello che ci sfugge: di quale luce ognuno di noi rifulge realmente. Ecco dove è la vera identità del poeta, dove si nasconde la vera poesia! Antonio Fiori non ce lo dice ma lo mostra al pari di quel gioiello della tradizione orientale la cui luminosità non dipende da una propria luce interna, ma da una… perfezione raggiunta, da quella capacità cioè di riflettere la luminosità della moltitudine di gioielli che lo circondano; ovvero più prosaicamente, l’identità può essere considerata equivalente al nodo di un tappeto, la cui esistenza dipende dai fili che lo compongono e che lo connettono agli altri nodi; ovvero più “scientificamente”, l’ identità può essere paragonata a un a-tomo che, come la fisica moderna ci ha svelato, contiene moltitudini. Proprio come un poeta.

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