lunedì 26 agosto 2024

Meditare sul nostro cromosoma celeste

Se volessimo azzardare una “concreta definizione” della poesia (che essendo fatta di “assenza” è pressocché indefinibile) potremmo accostarle il seguente termine: concentrazione. Proprio quello che la poeta Miriam Bruni usa nel titolo di una sua raccolta Concentrati sul cromosoma celeste (Controluna Edizioni, 2022).
Già perché la poesia è di per sé un concentrato a volte ristretto e raffinatissimo di …esperienze, emozioni, sentimenti, riflessioni, suoni, colori, visioni: un vero e proprio Universo da raccogliere in un centro mediante poche parole e tanto - tantissimo- silenzio, quello che il filosofo e musicologo francese di origine russe Vladimir Jankélévitch sosteneva essere l’origine, il mezzo e il fine della musica e della poesia. Estremizzando il ragionamento, la poesia dunque altro non è che un concentrato di silenzi, di cose non dette. Cose che, però, seppur taciute, si fanno sentire e Miriam Bruni ce le fa sicuramente sentire. Nel caso di Miriam, però, si deve parlare non già di una concentrazione intesa nel modo che abbiamo appena definito quanto di un invito , una esortazione alla concentrazione intesa nel suo reale e regale significato di fissare la mente su un oggetto particolare. In ciò avvertiamo che questo esercizio sia un passo preliminare e imprescindibile alla contemplazione e alla meditazione. È il conoscere che cerco./Non l’accumularsi/di piaceri o distrazioni/in piacevoli serate./ Occorre nei prati/nascondersi davvero/se vogliamo che il prato/riveli il suo tesoro./Occorre a lungo in Cielo/lasciarsi seppellire/se del cielo intendiamo/sensatamente parlare./ [da Concentrati sul cromosoma celeste, pg.15] Concentrazione, contemplazione e meditazione sembrano essere le tre fasi della pratica poetica di Miriam Bruni che a questo punto si manifesta con un poiein specifico: una pratica spirituale. Generalmente si pensa che la concentrazione sia un grande esercizio di attenzione ma essa costituisce soltanto il primo passo di una pratica spirituale essendo appunto gli altri , contemplazione e meditazione, veri e propri successivi stadi di avanzamento. Per cui concentrare in (e con) poche parole…tantissimi silenzi; organizzare nell’universo Vuoto (del foglio bianco) un piccolo big bang; fissare la mente sul cromosoma celeste, rappresentano solo il primo passo. L’espansione non può che aprirci tutti alla contemplazione di questo universo e alla inevitabile meditazione (Da dove? Chi? Perché? Quale “verso”?) Quando si raggiunge lo stadio meditativo, non c'è possibilità di vacillare e la fede per la poesia di Miriam diventa stabile. Nella nostra società contemporanea innervata in tutte le manifestazioni da un onnipresente principio di prestazione la poesia di Miriam rappresenta una sorta di balsamo lenitivo che restituisce all’inazione, alla contemplazione e all’ Ascolto un ruolo essenziale per l’esistenza: solo il silenzio permette di tendere l’orecchio al mondo e solo l’ascolto può condurre all’esperienza vera, alla comprensione profonda del nostro cromosoma celeste. A chi mi dice/di alzare la voce/e impormi, rispondo:/”non urlano le creature,/eppure stanno liete./Con quanta luce e buio/ non sapete; se con lana/ o seta, spago grezzo,/insanguinato, io genero/e dal mio stelo stacco/ciò che disvelo e offro./In un’Ostia sottile/ e leggera Lui si cela./E di noi conserva tutto,/il Padre in cui confido,/più di me che talvolta/ li butto - i disegni -/ e distratta giaccio.”

domenica 11 agosto 2024

La Storia dei Padri e la natura dei lupi

La poesia quando e' autentica ci permette di ricordare la nostra (autentica) natura contrariamente a quanto ci viene ricordato da quella massima di Plauto (banalmente se non strumentalmente ) ripresa da Hobbes:l'uomo e' un lupo per l'uomo;dunque,anche per se' stesso! E' questa una massima alla quale abbiamo dato corso nella "nostra" storia-fino a quella personale- nella desolante ignoranza della natura, ripeto:autentica, degli uomini e dei lupi. I poeti, per fortuna,nascono per restituire la natura agli uomini e ai lupi. In effetti noi esseri umani nel corso della nostra storia, ubriachi d'astrazione, abbiamo dato corda a questa infame formula, ignorando la nostra ignoranza sulla nostra preistoria, sulle scienze della vita e soprattutto sull'etologia che ha dimostrato che la lupa alleva i lupacchiotti con una tenerezza senza pari e che il vecchio capobranco lascia la terra ai giovani: il branco, cioe', sembra seguire le leggi dei padri e si organizza secondo quelle in modo piu' razionale diHomo che e' lupo per l'uomo! Letta come prova di barbarie e crudelta', questa formula pare ignorare che, a tal proposito, gli individui ignoranti della nostra specie sono stati largamente anticipati dai cacciatori, dagli agricoltori e soprattutto dai poeti e di sicuro uno di questi e' Marco Mittica, una sorta di antenato contemporaneo che scrive di Storia della preistoria partendo (paradossalmente) dalla caduta di un impero o una sorta di cronista anacronistico che parla biologico di piccole apocalissi private. Nella sua raffinata raccolta La Legge dei Padri (RP Libri, 2023 con l'Introduzine essenziale di Antonio Bux e l'illuminante Postfazione di Biagio Russo), Marco Mittica usa ( o forse viene uasato perche' poeta) in modo esemplare l'inversione figura-sfondo per nascondere esperienze personali sullo sfondo di un campo di guerra rumoroso che rimanda a gigantesche stori e figure di barbari, chiese, imperatori e conquistatori a terre antiche e lontane e alle prime acerbe universita' delle conoscenze.
Marco Mittica usa la Storia quale pretesto per parlare di DNA e di quelle "mutazioni di private sequenze" quasi volesse spostare l'attenzione dal cuore al cervello, dallo spitito al corpo, dall'individuo alla specie (quante inversioni figura-sfondo!). Pero'.Pero'... Se gli occhi diventano lucidi; se alla gola sale un groppo; se il respiro s'inceppa su un verso senza alcuna "ragione ritmica", allora siamo davanti alla meraviglia, sfondo di qualunque conoscenza; siamo cioe' in presenza dell'arbitro assoluto della percezione umana quella che trasforma Homoin ...umanita', quella che trasforma lo storico, lo scienziato, il contadino o l'imbianchino in ...poeta. Ed e' in questo senso effettivo che l'uomo e' un lupo per l'uomo o, se preferite, l'uomo e' un poeta per l'uomo. Anche perche',come ha piu' volte ricordato Michel Serres, le statistiche meglio documentate dimostrano che la maggioranza degli esseri umani pratica la solidarieta' empatica (siete mai stati in un paesino della Val d'Agri dove "si risorge tra raffiche di grandine nel mese di giugno"?) piu' di quanto non si dedichi alla concorrenza o al saccheggio come la Storia, i TG e i social vogliono farci credere. I poeti come Marco Mittica ci aiutano cosi' ad ...amarsi-amare, a ripristinare cioe' una semplice verita': molti di noi sono buoni e pochi sono i malvagi. Ne' dappertutto, ne' sempre. Tutti rischiamo come individui e come specie, una volta o l'altra, una piccola-grande apocalisse/Apocalisse ma proprio per questo il Poeta canta: per ricordarci che alle catastrofi, la vita, sopravvive sempre.

martedì 9 aprile 2024

Partiamo da qui

Sia dal punto di vista formale che da quello tematico, Partire da qui - la raccolta poetica di Stefano Modeo appena pubblicata da Interno Poesia - si misura con un tema cruciale per i poeti: la partenza, l’esilio, il viaggio. La vera dimensione poetica, dai tempi di Odisseo, risiede in questi “transiti” variamente declinati.
Partire da qui è un’evocazione di inizi cioè di quei momenti embrionali e …partorienti che hanno a che fare con l’origine di “qualcosa”: l’inizio, come si sa, è il luogo letterario per eccellenza che segna un confine, ovvero una vera e propria separazione, tra il mondo e l’opera. Per il poeta, l’inizio- da intendersi come “da questo momento-luogo in poi-oltre” - stabilisce un confine fra la molteplicità di “molti possibili” (mondi, viaggi, volti, sfondi, parole,…) e l’emergenza di “un probabile” (mare, percorso, amore, figura, senso…). Ed è proprio di tutti gli inizi evocare presupposti, e Stefano Modeo, ancor prima della prima poesia - nell’ esergo epigrafico - lo fa tornando e lasciando, contemporaneamente e ancora una volta, Taranto, quasi continuasse a sentirsi insieme sepolto e risorto in mare e sulla terra! La partenza è sempre un posizionamento all’interno di un ordine o di un caos - l’un probabile di cui sopra - ma è anche definizione di una prospettiva magari da condividere con i “molti possibili” dei lettori. Così ”Lungo la linea dei due mari…” Taranto, è vero, “…si arrocca in una nuvolaglia grigio-scura”, ma “I delfini a volte arrivano fino alle boe/sotto i piloni, dove il sole/fa il cielo arancione”. Per il tramite di queste immagini l’attenzione, inevitabilmente, oscilla tra il luogo privilegiato delle partenze, il porto delle prue e degli approdi, e quello quasi onirico delle …restanze, la città dei risentimenti delle case, delle strade. E possiamo giustamente dire che, già da qui, dalla prima poesia della raccolta, siamo in viaggio e che già da qui, come nella migliore delle tradizioni letterarie, l'inizio è memorabile perché il poeta sa che non esiste arrivo, approdo, conclusione. Fine. Nella poesia c’è sempre un “verso” in più, quello del lettore e l’efficacia di questo “verso silenzioso” è tanto maggiore quanto più chiara è la ripercussione retrospettiva, quella vaga risonanza che investe di nuova luce tutto ciò che precede. Detto in altri termini l’efficacia della buona poesia è quella sensazione di… ordine e compiutezza data dal fatto di avere lì a disposizione tutti i versi da poter rileggere, tutte le immagini da poter rivedere, i suoni e gli altri dettagli persi da ricercare. L’efficacia di quella partenza è la voglia di …tornare. Così succede che quei Due mari (pg.11) ci permetteranno di compiere questo viaggio a ritroso perché Dal vagone del treno (pg.76) sul quale siamo saliti ci è sfuggito quel …confine segnato dalle punte degli scogli. E partiamo da qui: sarà un bel viaggio.

lunedì 4 dicembre 2023

Resistenza e sparizione di tracce

Mi è parso di trovare nella poesia di Sergio Bertolino, forse per un lessico decisamente “famigliare”, tracce di quello che per millenni noi umani siamo stati (probabilmente per via di residue sequenze di DNA neandertaliano e denisoviano): cacciatori. Come dice bene Pontiggia nella postfazione di questo delizioso trattato di resistenza e sparizione (Avagliano Editore, 2023), “…il paesaggio che qui si profila è quello delle origini che già avevamo esperito nella raccolta precedente [di Bertolino, dal titolo La sete], ma non con la stessa selvatica virulenza di ora, la stessa «fame di radici» e di «arcano» che agisce in queste pagine…”.
E però a ben “sentire” forse non si tratta di sete e nemmeno di fame delle radici quanto, piuttosto, di soddisfazione d’acqua, sazietà di luce alta e di profondi nutrienti all’apice delle sorgenti, degli orizzonti e dei cieli: semplicemente qui si profila una crescita arborea, selvatica, celeste della poesia di Sergio. Il lessico, per questo, è molto più famigliare di quello precedente (a qualunque lessico) perché qui, il paesaggio, ci circonda e lo abbiamo sotto gli occhi, nelle orecchie, sulla pelle e viene usato come i cacciatori usavano gli alberi, per restare e sparire: Lì fuori, di vero, non c’è che l’intimità (pg. 51). Proprio così: tutto quello che, dentro, intimamente siamo, è lì fuori, tanto che la linea che unisce quello che vediamo a quello che sentiamo non è una linea di fuoco ma di…mira. Di sguardo. Di meraviglia. Mezzogiorno. Viva e capiente l’ombra/tra i polmoni. E io, che non so guardarmi sparire,/perché rimanga verde oltre la cinta/un filo d’acqua, fumo o non cedo all’evidenza//(si è benedetti senza lingua/se mente un salice al cervello),//e punto i piedi dove credo/ sia la traccia, per odiarmi.[pg.13] Qui, nel Mezzogiorno d’ Italia, più che da altre parti, homo “ricorda” di essere stato predatore. E nella poesia di Sergio la preda è la poesia. Nel corso dei prestorici inseguimenti abbiamo imparato a ricostruire le forme e i movimenti di prede invisibili e silenziose, da orme nel fango, rami spezzati, odori stagnanti. Il “cacciatore” fiuta, registra e interpreta tracce infinitesimali come fili di bava; impara a nascondersi per non farsi vedere dalla preda; s’abitua a resistere alla loro resistenza. Così Sergio, in un lampo dimostra come , attraverso indizi minimi si può ricostruire l’aspetto di un “animale” che non si è mai avuto, propriamente, sotto gli occhi. Il poeta evidentemente è depositario di un sapere di tipo venatorio. Ciò che caratterizza questo sapere “aptico” è la capacità di risalire da dati apparentemente trascurabilissimi. quasi del tutto …spariti, a una “realtà” complessa non sperimentabile direttamente come la poesia. E questi dati vengono sempre disposti dal poeta in modo tale da dar luogo a una sequenza narrativa la cui formulazione più semplice potrebbe essere: «resto qua ma non ci sono» oppure «sparisco ma sono qua». Il poeta è dunque colui che per primo «racconta una storia» in quanto abile a leggere nelle tracce mute o appena percettibili lasciate dalla “preda”, una serie coerente di eventi, perché il “decifrare” o il “leggere” le tracce delle prede è di per sé metafora. Forse è questo, dunque, il motivo per cui, come rileva acutamente Pontiggia, “…in più occasioni [nella poesia di Bertolino] ci si [imbatte] in parole come «segni», «traccia», che il poeta-cacciatore…cerca di decifrare…” anche se qualcosa di oscuro resta come qualcosa di acclarato sparisce. Nella tua fame di radici,/non sai, non puoi sapere,/com’è perdersi umani/lì dove un raggio è smisurato,/la non-parola che tradisce./Sono solo e vado a caccia./Sono il suono. L’idea fissa.[pg.73] Esiste un’arte araba antica - e la Calabria di Sergio Bertolino è stata terra di conquista, dominio e lingua arabe - che ricorda l’arte paleolitica della decifrazione di tracce. Si tratta della firāsa che designava quella capacità di passare in maniera immediata dal noto all’ignoto, sulla base di indizi. Il termine, tratto dal sufismo, veniva usato per indicare sia le intuizioni mistiche, sia la perspicace prontezza a trarre conclusioni. In pratica si trattava di un sapere indiziario come quello che da sempre viene colto nei nostri dialetti: non a caso Sergio riserva, nel trattato di resistenza e sparizione, una sezione a questi “indizi radicali e necessari” ai quali credo destinerà, sempre più, le sue prossime “battute” di caccia. Lo aspetteremo intorno al fuoco per mangiare e bere insieme. Nci mbrogghia l’occhi nu lapuni/quandu bbrisci. È russa e non è sangu/chi mbilena. Fridda e non è nivi/pari nenti – ‘a testa mbàscia/pi sintiri comu veni. Ma figghiu/quanta luci ntimurisci e dassa suli?// I troppo celu mori nu cardiddhu. [Gli intriga gli occhi un’ape/all’alba. È rossa e non è sangue/ che avvelena. Fredda e non è neve/sembra niente – il capo basso/per sentire come viene. Ma figlio/quanta luce intimidisce e lascia soli?//Di troppo cielo muore un cardellino.]

giovedì 22 giugno 2023

La lingua balena di Jean Portante

Il poeta è colui che più o meno inconsciamente si mette al servizio del senso. Un senso, innanzitutto, proprio, identitario e autobiografico: cercare e scoprire (se esistono) le ragioni del proprio parlessere , per usare una nozione di Jacq Lacan. E, poi, un senso chiamiamolo originario, istituito sul primato di una sostanza - non necessariamente materiale- come fondamento del mondo, ad esempio la terra, l’acqua, l’aria. Crediamo che la lingua balena del “poeta nell’oceano” Jean Portante sia la perfetta sintesi di questo servizio. «È stato a L’Avana, sull’isola di Cuba, davanti all’Oceano» - dice Portante in una sua intervista - «che ho avuto l’immagine chiara di cosa poteva essere la mia scrittura: una scrittura balena. Davanti a quella immensa distesa d’acqua ho pensato a un’animale che era nella mia memoria: una balena, appunto, che nel 1953, quando io avevo solo tre anni, era arrivata in Lussemburgo. Non so se l’ho vista, perché la memoria di tre anni non so se ce l’abbiamo ancora». Ma l’inconscio certamente sì, a quell’età lo abbiamo, perché l’inconscio è più antico del linguaggio ed è molto più antico della memoria individuale. Questa balena depositata nell’immaginario del poeta dice molto sul senso: dice chi siamo, perché anche lei, come noi tutti, è una migrante “cosmica”, perché si muove non solo nello spazio ma anche nel tempo, vale a dire tanto nelle sostanze materiali come acqua, terra e aria che in quelle immateriali come l’inconscio, il linguaggio, la memoria. La balena infatti non è un pesce, in quanto prima di vivere in acqua ha vissuto molti anni, secoli, millenni sulla Terra, come un qualunque mammifero. Gli studiosi dicono che probabilmente era un’enorme cane che, a un certo momento della sua storia, ha deciso di andarsene e si è spostata nell’acqua. Dunque la balena è una dei primi migranti della storia, della vita e quando è arrivata nell’acqua ha fatto quello che ogni essere vivente fa: si è adattata mutandosi in quasi-pesce. Ha lasciato la terra per sopravvivere e evitare la sua estinzione come quella dei grandi animali di allora che sono scomparsi. La migrazione è, in fin dei conti, solo questo: l’urgenza di andare per continuare a vivere. Ovvero l’urgenza di vivere per continuare ad andare. In questa fase di adattamento c’è qualcosa che la balena non ha cambiato: è rimasta con un polmone, un organo che non le permette di vivere completamente in acqua. Il polmone è dunque una memoria terrestre. «Questo pensiero» - dice Portante - «mi ha dato molto. Mi ha suggerito quale è la memoria mia, di prima. La lingua madre! E dunque ho fatto come la balena, ho preso la lingua madre che è l’italiano e l’ho messa come un polmone dentro la lingua che ho scelto per la scrittura, che è la lingua francese…Scrivere in lingua balena significa che sto con una lingua che è come se fosse il francese, come la balena vive come se fosse un pesce». La quasi totalità della vasta produzione di Portante è quindi scritta in francese una lingua che, come lui stesso dice, ha appreso e addomesticato in quanto nella casa dei suoi genitori emigrati dall’ Abruzzo si parlava l’italiano, anzi il dialetto di San Demetrio nei Vestini vicino L’Aquila. E quando si nasce e si cresce in Lussemburgo con le sue tre lingue presenti nel territorio, vale a dire il tedesco della scuola, il francese della strada e la lingua di Carlo Magno, avere in tasca ( o nel polmone) anche l’italiano può diventare una cosa straordinaria per qualcuno. Ma per chi è al servizio del senso può anche essere una cosa terribile. La “tragicità” di questa condizione anfibia è quindi vissuta in toto da Portante così da emergere completamente nel suo…parlessere, a dispetto di tutti gli sforzi e i desideri per realizzare una definitiva integrazione. «In questo spazio ambiguo io ho messo tutta la mia scrittura» dice ancora Portante e, a proposito di ambiguità, oltre a quella dello spazio, potremmo aggiungere anche quella del tempo, della sostanza primordiale, dell’identità e di tutto quanto fa di noi stessi IL senso! Perché è il fenomeno stesso della vita con la circolazione (migrazione?) e la sua ubiqua ambiguità a fare senso. Jean Portante con la sua lingua balena si è messo al servizio di questa migrazione cosmica, perché nel suo parlessere riesce a… complementare e richiudere quello scarto anfibio tra inconscio e linguaggio, tra l’essere e le parole. Noi, noi tutti, pare dirci Portante, siamo migranti nell’Oceano-Vita e non ci limitiamo solo a usare le nostre parole ma siamo intimamente fatti di esse. Pertanto il primato della parola poetica (termine molto caro al nostro) rivela che essa non serve solo a nominare le cose e a servire il senso di quanto accade, ma è la condizione stessa per (dell’) esistere perché tutto ciò che è avvenuto prima non viene superato e completamente dimenticato da ciò che viene dopo, ma continua ad accadere. E solo una “étrange langue”, una strana lingua, può ricordarlo, ridirlo e ravvivarlo.

venerdì 5 maggio 2023

Pietre di passo: in ricordo di Angelo Andreotti

In un antico racconto del poeta Han-Yu sta scritto che tutto risuona non appena si rompe l’equilibrio delle cose. Il suono e, dunque, la musica, la voce, il canto sono i sintomi della rottura di un equilibrio, cioè del silenzio: l’amato silenzio di Angelo. Gli alberi e l’erba sono, nel loro equilibrio, silenziosi. Se arriva il vento e li scuote essi risuonano. L’acqua è in perfetto silenzio nel suo equilibrio poi la gravità la smuove e agita nelle maree, la mancanza di terra la precipita in cascate roboanti, in fiumi scroscianti e in laghi ribollenti. I metalli e le pietre sono muti ma echeggiano se qualcosa li percuote. Il cielo, il cielo stesso procede allo stesso modo: gli uccelli in primavera; il tuono in estate; gli insetti in autunno; il freddo in inverno. È stato sempre così, una dopo l’altra le quattro stagioni si inseguono in una sinfonia senza fine e questa continua pro-vocazione è un’ ulteriore prova che si sia rotto un equilibrio. Lo stesso vale per gli uomini: il suono umano più perfetto è la parola e la poesia è, a sua volta, la forma più perfetta di parola in quanto la più vicina al silenzio. «E così, quando l’equilibrio si rompe, il cielo sceglie i più sensibili tra gli uomini e li fa risuonare» [Han-Yu]
Si profila al mio sguardo il percorso/ ma è il corpo a doverlo provare/ punto d'appoggio per ogni passaggio/ misurato da pietre di passo./ Lì azzardo il piede/ confidando nel vaglio degli occhi./ Incedo nudo nel mondo più nudo/ poiché è la pietra/ a dirmi dove andare/ e nel caso sia assente/ può esortarmi a un ritorno/ messo a rischio dal volgermi indietro./ Angelo è stato uno di quegli uomini scelti dal cielo per risuonare. È inutile dire che continuerà a farlo: è stato scelto apposta. La sua vocazione poetica resterà come risonanza alla pro-vocazione: un modo per continuare a ritrovare l’equilibrio perduto, per procedere nel guado grazie alle sue amate “pietre di passo”, semplici ma maestose, così silenziose nel silenzio. In uno degli ultimi messaggi ha scritto: “Conto molto - strana consolazione- sul post-operatorio per aspettare l’altro me che diventerò”. Sono convinto che anche in questo caso sia diventato quello che ha scoperto e la scoperta è sempre illuminante oltre che risonante. Anche per noi che abbiamo la fortuna di azzardare il piede confidando nel vaglio dei suoi occhi. Ciao Angelo

mercoledì 19 aprile 2023

Il palinsesto di Cornelio

Nella nota di accompagnamento a La specie storta (Edizioni Tlon, 2023), l’autore Giorgiomaria Cornelio ci informa che le favole, i versi e le scritture presenti in questo libro sono nati per la festa della poesia “I Fumi della Fornace” e per il rito che anima questa festa.
Dal 2019 il paese di Montecassiano, nella Valle Cascia in provincia di Macerata, è diventato un laboratorio per un singolare esperimento cruciale: la scongiura dell’estinzione mediante il “semplice meccanismo” di una catastrofe individuale come ad esempio quella dell’arrovesciamento di un albero, di una identità, di una (T|t)erra, di un semplice luogo di partenza o di arrivo. Quando parliamo di estinzione evidentemente parliamo sia della scomparsa di un piccola comunità come quella insediata nel paesino marchigiano, sia della famigerata sesta Grande Estinzione di Massa, così spesso evocata in questi tempi da fine millennio intrisi di peste, guerra e cambiamento climatico. Cosicché nella festa della poesia in Valle Cascia, ad essere “realmente favoloso” è questa possibilità di una seconda vita che finisce per erodere l’idea stessa di estinzione restituendo un nuovo albero a un terreno rinnovato per accogliere ancora le radici storte della specie. È inutile ricordare che verticale (p.es.albero) e orizzontale (p.es.terreno) partecipano a quella divisione binaria attraverso cui per lungo tempo la nostra specie ha interpretato qualsiasi cosa, inclusa la differenza tra maschi e femmine. I due poli unici della geometria della croce sono con tutta evidenza separati da molteplici se non infinite varietà di una terza direzione che definiamo obliqua , diagonale. È la direzione che ci appare storta e che dunque parrebbe appagante raddrizzare. La si nota subito e la si vuole correggere: in proposito Cornelio indugia sui nomi dei tanti ….geometri della rettitudine che hanno attraversato la storia della nostra specie. Eppure, la direzione…storta è proprio quella più frequente e probabilmente gli arrovesciamenti, le catastrofi, servono proprio a liberarle tutte quelle direzioni probabilmente capaci di rivelare certi segreti che abbiamo sempre davanti agli occhi. D'altronde anche il tentativo di raddrizzare un quadro nega la sua “drittezza”. E dunque è una favola di inclinazioni e di storture la poesia di Cornelio dove gli arrovesciamenti formano radici e congiungimenti che sostanziano materia e memoria, amore e altruismo. E poiché dobbiamo abbandonare le direzioni usuali della classificazione (p. es. verso, epigrafe, prosa poetica, testo,…), Cornelio pare utilizzare non carta ma un supporto più confacente a una favola-mito. La pergamena, in quanto supporto scrittorio, è molto assorbente per cui l’inchiostro penetra e sprofonda. Essendo inoltre un materiale molto costoso, in passato la sua superficie veniva raschiata con una lama per cancellare le tracce della scrittura precedente: riscrivere su una pergamena parzialmente cancellata produce quello che i paleografi chiamano un palinsesto ( dal greco πάλιν = di nuovo e ψάω = raschiare). La specie storta proprio a partire dalla sua organizzazione interna pare proprio somigliare a un palinsesto anche nella sua accezione più contemporanea di prospetto schematizzato di trasmissioni …foniche, eserghi, citazioni e immagini ed è un palinsesto anche nell’accezione più legata alla geologia e alle pietre se non proprio a quei mattoni che, Cornelio ci racconta, provenivano da quell’antica fornace, situata sul posto e i fumi della quale hanno scritto, per così dire, la leggenda sulla stortura degli abitanti. L’aspetto notevole del palinsesto è che esso si forma non tramite stratificazioni successive con l’aggiunta di uno strato su un altro ognuno con le sue proprie scritture, ma al contrario grazie a successive raschiature e rimozioni. Così oltre agli archeologi e storici anche il Poeta ha adottato il concetto di palinsesto per riferirsi a un “terreno” che, nel corso del tempo, è stato ripetutamente usato, eroso e riusato. Allora sia nel libro, sia nella Valle Cascia, così come nei mattoni che venivano dalla vecchia fornace e persino nei fossili di rivolta, negli spiriti antichi e nuovi della specie, il passato non è sepolto sotto il presente, ma emerge in superficie. Il presente, invece che ha eroso il passato che, cioè, lo ha raschiato di nuovo e di nuovo ancora, affonda giù sempre più giù, in profondità. Il passato risale mentre il presente discende: non è tanto dunque uno stratificarsi ma un ruotare. Un arrovescio! La nostra moderna “sensibilità” è profondamente condizionata dall’idea che ogni cosa sia formata da strati - che terreno, alberi, edifici, libri e persino i corpi umani siano costituiti da uno strato sull’altro, ognuno già marcato da proprie specifiche “scritture”. Il passato perciò è visibile per così dire solo attraverso un foglio multistrato di plastica trasparente che è il nostro presente. Ma il palinsesto di Cornelio ci dice una cosa diversa e cioè che, con il passare del tempo, gli strati non si sommano ma viceversa si consumano tanto che ciò che è più lontano nel passato è più vicino sulla superficie del terreno, del cuore, della pagina. La specie storta è sempre più consapevole di calpestare sé stessa come si calpesta un vecchio sentiero divenuto talmente esile da non essere più riconoscibile. E così le nostre azioni più recenti, queste “nuove” parole sono piene di scottature profonde, mentre le tracce del distante passato sono così superficiali da essere sul punto di svanire completamente, perdute, proprio ora. Amore,/oggi l’incontro ci spatria/le ossa. Ci incurva/le giunture del difetto.//Tutta l’officina del corpo barluma./Ruota e sciacqua,/con nuovo/diluvio universale.//«Perché ecco,/l’inverno è passato».//Perché qui perdiamo/il nome. … Quando viene l’eclisse,/e l’organo non fiata,/e non c’è più lingua per dire/il papavero, l’acanto, la molecola/di resina…..o il santo patrono,/tu, e puoi,/ continua a pregarli.Dopo mezzanotte/albeggia mezzanotte.//Vedi: sono molte le trivelle che//ci scavano la crosta, sapendo/che ogni strato è una viscera/di dolore.//Questa buia cava,/questa che sempre screpola,/questa che è la sera/senza più barbaglio:/io la scendo./io la passo.//«e sorbendo il tuo parlare oscuro,/per te mi disseterò con acqua morta». Riferimenti - https://www.congerie.org/ - https://www.ilsole24ore.com/art/la-specie-storta-controcanto-parole-d-oppressione-AENtpS1C