lunedì 3 febbraio 2025

In Absentia, continua presenza

Se c’è una cosa che è possibile sperimentare “facilmente” con la poesia, soprattutto in presenza di testi brevi, è l’efficacia di una lettura completa fatta cioè con gli occhi, con la bocca (dunque voce e orecchie) e con la mente. Per maggiore chiarezza diciamo che con il termine mente, non bisogna limitarsi al “nostro cervellino” ragionevole, quello che fa i calcoli, che guida l’auto o che vuole sapere come vanno a finire le cose. La mente nella poesia è sempre una questione di sensi-cuore-vita: è certamente testa ma unita a intuizione, percezione ed emozione. In genere quando leggiamo un testo (saggistico, narrativo, giornalistico, etc…) sperimentiamo la lettura vorace degli occhi, soprattutto se si è animati da una sorta di automatismo a scoprire chi è, per così dire, …l’ ”assassino”. Raramente sperimentiamo la lettura con le labbra (o a voce alta) e meno che meno quella con il cuore. Nella poesia invece accade - ripeto: per la natura breve del verso, delle strofe e del componimento - di poter fare ritorno più e più volte e in modalità differenti su ogni singola…parola, nota, intonazione e pausa. Nel fare questo ci si accorge così che se, ad esempio, un poeta “parla del silenzio” di Dio, l’ascolto in primis diventa, fondamentale. Nel caso di In absentia, l’ultima raccolta di Alessandro Canzian (Interlinea Edizioni, Novara, 2024) l’efficacia di questa lettura poetica, tripartita tra occhi, labbra e cuore risulta fondamentale.
Cerchiamo quindi di entrare in questi “dispositivi poetici” dei quali parla Martin Rueff nell’ottima post-fazione alla raccolta di Canzian. Allora, prima di tutto, gli occhi. «Le poesie delle tre sezioni [Minimalia, In fondo e In absentia]sono per la maggior parte delle strofe di cinque versi (il francese usa la parola quintil) non rimate e costruite su una nitida opposizione drammatica…» dice Rueff, ma a me ( ai miei occhi) queste poesie brevi hanno subito richiamato dei tanka al di là dell’assenza del rigoroso susseguirsi di sillabe lungo i 5 versi del componimento classico giapponese (5-7-5-7-7). Lo scopo della forma del tanka , come richiamato da uno dei suoi maggiori poeti moderni, il giapponese Tsukamoto Kunio (1922-2005), “…è quello di mostrare delle visioni”. E infatti questi pseudo-tanka di Canzian sono carichi di immagini filtrate dall’occhio della mente Le lenzuola distese/ sono più casa delle case./ Grate, gronde e greppi./ Da lontano un geco/ le traversa mozzato./ [pg.21] Tali visioni lasciano intravedere, paesaggi distrutti, corpi di ragazze sbrindellati, lenzuola, tovaglie piene di briciole, spighe di grano tra la polvere (Donbass, Gaza). Immagini di un universo caotico i cui frammenti non trovano ricomposizione alcuna in un’armonia vitale Nulla di vivo si muove/ dicono dei nervi come/ delle rane, le rane scoppiate./ Le rane che rincorrevamo di notte/ come oggi l’inverno./ [pg.42] I due versi finali dei quintil-tanka di Canzian possono sembrare esplicativi di quanto espresso nei primi tre, cioè possono argomentare o rafforzare il vano tentativo di recuperare un ordine, un’armonia o una senso almeno visivo, per lo meno quantitativo Hanno spiantato per chilometri/ qualunque cosa viva/ alberi compresi./ Conta quanti loro morti/ valgono uno dei nostri./ [pg.46] Ma allo steso tempo in altre testi, gli ultimi due versi possono essere contradittori , cioè quasi a smentire, negare o contrastare , ciò che si è espresso nei primi tre. È tipico del tanka questo dispositivo poetico ” basato sul contrasto fra una cosa vista e la sua iscrizione nella sensibilità…” come felicemente intuito da Martin Rueff Lasciata la ragazza a terra/ senza jeans e maglietta e il resto/ della notte a venire/ con la pancia scoperchiata/ sembra una libertà./ [pg. 47] Passiamo alle labbra o meglio a quel ticchettio appena percepito delle dentali e labiali che sbattono in bocca prima di farsi sentire. Senza farsi sentire troppo. Proprio come quel topo, figura misteriosa che Claudia Mirrione (https://imperfettaellisse.it/archives/4247) individua come correlativo oggettivo di Dio, un Dio che sussurra appena o tace del tutto, quasi a voler ricordare che il destino del poeta è da sempre quello di affrontare un corpo a corpo con il silenzio. Già, il silenzio di Dio così…fragoroso dopo la creazione Il quinto giorno Dio rimase/ In un silenzio attonito./ Per qualche istante/ il rumore dell’universo./ [pg.57] Per il Dio di Canzian non esiste il settimo giorno, quello del riposo. Dio è sempre a lavoro e non può fermarsi nemmeno per una risposta, perché non ha tempo per ( e non è Tempo per) rispondere Il sesto giorno riprendemmo/ a parlare, io e Dio./ «Usami come uno straccio/ da cucina» disse lui./ Per anni la cucina/ lasciata così com’era./ [pg.58] Quando Giobbe (o il Poeta) in preda al dolore interroga Dio perché vorrebbe avere una risposta sulle ragioni della umana condizione, Dio gli risponde in mezzo alla tempesta: “Dov’eri quando io mettevo le basi sulla Terra? Dillo se hai tanta sapienza”. Insomma Dio non risponde affatto alla domanda diretta di Giobbe ma lo invita piuttosto ad osservare la complessa architettura del creato. Per questo il Poeta è costretto ad assentarsi dal mondo: per osservare meglio. Continua Dio, in absentia, a parlare con Giobbe: “Conosci tu il tempo in cui partoriscono le camozze? Hai osservato il parto delle cerve? Sai contare i mesi della loro gravidanza?...”. Nel testo biblico il discorso di Dio continua per tre capitoli: una vera e propria lezione di storia naturale. Che bisogno c’è, ci si domanda. E perché mai questo lungo viaggio “into the Great Wide Open” costituisce un rimedio contro il silenzio e l’assenza? Probabilmente perché la nostalgia di quello che stiamo perdendo deve essere sempre rinnovata se non, addirittura anticipata; perché ogni vita persa, anche quella più piccola, ad esempio, di un topo, esige di restare memorabile. Allo stesso modo una poesia come questa di Alessandro Canzian esige di essere letta anche se nessuno la legge o pochi la leggeranno con gli occhi, le labbra e il cuore. Perché come dice Giorgio Agamben “il destinatario di una poesia non è una persona reale ma un’esigenza”: continuare a dire e a fare sempre le medesime cose. In silenzio. In absentia.

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