lunedì 4 dicembre 2023

Resistenza e sparizione di tracce

Mi è parso di trovare nella poesia di Sergio Bertolino, forse per un lessico decisamente “famigliare”, tracce di quello che per millenni noi umani siamo stati (probabilmente per via di residue sequenze di DNA neandertaliano e denisoviano): cacciatori. Come dice bene Pontiggia nella postfazione di questo delizioso trattato di resistenza e sparizione (Avagliano Editore, 2023), “…il paesaggio che qui si profila è quello delle origini che già avevamo esperito nella raccolta precedente [di Bertolino, dal titolo La sete], ma non con la stessa selvatica virulenza di ora, la stessa «fame di radici» e di «arcano» che agisce in queste pagine…”.
E però a ben “sentire” forse non si tratta di sete e nemmeno di fame delle radici quanto, piuttosto, di soddisfazione d’acqua, sazietà di luce alta e di profondi nutrienti all’apice delle sorgenti, degli orizzonti e dei cieli: semplicemente qui si profila una crescita arborea, selvatica, celeste della poesia di Sergio. Il lessico, per questo, è molto più famigliare di quello precedente (a qualunque lessico) perché qui, il paesaggio, ci circonda e lo abbiamo sotto gli occhi, nelle orecchie, sulla pelle e viene usato come i cacciatori usavano gli alberi, per restare e sparire: Lì fuori, di vero, non c’è che l’intimità (pg. 51). Proprio così: tutto quello che, dentro, intimamente siamo, è lì fuori, tanto che la linea che unisce quello che vediamo a quello che sentiamo non è una linea di fuoco ma di…mira. Di sguardo. Di meraviglia. Mezzogiorno. Viva e capiente l’ombra/tra i polmoni. E io, che non so guardarmi sparire,/perché rimanga verde oltre la cinta/un filo d’acqua, fumo o non cedo all’evidenza//(si è benedetti senza lingua/se mente un salice al cervello),//e punto i piedi dove credo/ sia la traccia, per odiarmi.[pg.13] Qui, nel Mezzogiorno d’ Italia, più che da altre parti, homo “ricorda” di essere stato predatore. E nella poesia di Sergio la preda è la poesia. Nel corso dei prestorici inseguimenti abbiamo imparato a ricostruire le forme e i movimenti di prede invisibili e silenziose, da orme nel fango, rami spezzati, odori stagnanti. Il “cacciatore” fiuta, registra e interpreta tracce infinitesimali come fili di bava; impara a nascondersi per non farsi vedere dalla preda; s’abitua a resistere alla loro resistenza. Così Sergio, in un lampo dimostra come , attraverso indizi minimi si può ricostruire l’aspetto di un “animale” che non si è mai avuto, propriamente, sotto gli occhi. Il poeta evidentemente è depositario di un sapere di tipo venatorio. Ciò che caratterizza questo sapere “aptico” è la capacità di risalire da dati apparentemente trascurabilissimi. quasi del tutto …spariti, a una “realtà” complessa non sperimentabile direttamente come la poesia. E questi dati vengono sempre disposti dal poeta in modo tale da dar luogo a una sequenza narrativa la cui formulazione più semplice potrebbe essere: «resto qua ma non ci sono» oppure «sparisco ma sono qua». Il poeta è dunque colui che per primo «racconta una storia» in quanto abile a leggere nelle tracce mute o appena percettibili lasciate dalla “preda”, una serie coerente di eventi, perché il “decifrare” o il “leggere” le tracce delle prede è di per sé metafora. Forse è questo, dunque, il motivo per cui, come rileva acutamente Pontiggia, “…in più occasioni [nella poesia di Bertolino] ci si [imbatte] in parole come «segni», «traccia», che il poeta-cacciatore…cerca di decifrare…” anche se qualcosa di oscuro resta come qualcosa di acclarato sparisce. Nella tua fame di radici,/non sai, non puoi sapere,/com’è perdersi umani/lì dove un raggio è smisurato,/la non-parola che tradisce./Sono solo e vado a caccia./Sono il suono. L’idea fissa.[pg.73] Esiste un’arte araba antica - e la Calabria di Sergio Bertolino è stata terra di conquista, dominio e lingua arabe - che ricorda l’arte paleolitica della decifrazione di tracce. Si tratta della firāsa che designava quella capacità di passare in maniera immediata dal noto all’ignoto, sulla base di indizi. Il termine, tratto dal sufismo, veniva usato per indicare sia le intuizioni mistiche, sia la perspicace prontezza a trarre conclusioni. In pratica si trattava di un sapere indiziario come quello che da sempre viene colto nei nostri dialetti: non a caso Sergio riserva, nel trattato di resistenza e sparizione, una sezione a questi “indizi radicali e necessari” ai quali credo destinerà, sempre più, le sue prossime “battute” di caccia. Lo aspetteremo intorno al fuoco per mangiare e bere insieme. Nci mbrogghia l’occhi nu lapuni/quandu bbrisci. È russa e non è sangu/chi mbilena. Fridda e non è nivi/pari nenti – ‘a testa mbàscia/pi sintiri comu veni. Ma figghiu/quanta luci ntimurisci e dassa suli?// I troppo celu mori nu cardiddhu. [Gli intriga gli occhi un’ape/all’alba. È rossa e non è sangue/ che avvelena. Fredda e non è neve/sembra niente – il capo basso/per sentire come viene. Ma figlio/quanta luce intimidisce e lascia soli?//Di troppo cielo muore un cardellino.]

giovedì 22 giugno 2023

La lingua balena di Jean Portante

Il poeta è colui che più o meno inconsciamente si mette al servizio del senso. Un senso, innanzitutto, proprio, identitario e autobiografico: cercare e scoprire (se esistono) le ragioni del proprio parlessere , per usare una nozione di Jacq Lacan. E, poi, un senso chiamiamolo originario, istituito sul primato di una sostanza - non necessariamente materiale- come fondamento del mondo, ad esempio la terra, l’acqua, l’aria. Crediamo che la lingua balena del “poeta nell’oceano” Jean Portante sia la perfetta sintesi di questo servizio. «È stato a L’Avana, sull’isola di Cuba, davanti all’Oceano» - dice Portante in una sua intervista - «che ho avuto l’immagine chiara di cosa poteva essere la mia scrittura: una scrittura balena. Davanti a quella immensa distesa d’acqua ho pensato a un’animale che era nella mia memoria: una balena, appunto, che nel 1953, quando io avevo solo tre anni, era arrivata in Lussemburgo. Non so se l’ho vista, perché la memoria di tre anni non so se ce l’abbiamo ancora». Ma l’inconscio certamente sì, a quell’età lo abbiamo, perché l’inconscio è più antico del linguaggio ed è molto più antico della memoria individuale. Questa balena depositata nell’immaginario del poeta dice molto sul senso: dice chi siamo, perché anche lei, come noi tutti, è una migrante “cosmica”, perché si muove non solo nello spazio ma anche nel tempo, vale a dire tanto nelle sostanze materiali come acqua, terra e aria che in quelle immateriali come l’inconscio, il linguaggio, la memoria. La balena infatti non è un pesce, in quanto prima di vivere in acqua ha vissuto molti anni, secoli, millenni sulla Terra, come un qualunque mammifero. Gli studiosi dicono che probabilmente era un’enorme cane che, a un certo momento della sua storia, ha deciso di andarsene e si è spostata nell’acqua. Dunque la balena è una dei primi migranti della storia, della vita e quando è arrivata nell’acqua ha fatto quello che ogni essere vivente fa: si è adattata mutandosi in quasi-pesce. Ha lasciato la terra per sopravvivere e evitare la sua estinzione come quella dei grandi animali di allora che sono scomparsi. La migrazione è, in fin dei conti, solo questo: l’urgenza di andare per continuare a vivere. Ovvero l’urgenza di vivere per continuare ad andare. In questa fase di adattamento c’è qualcosa che la balena non ha cambiato: è rimasta con un polmone, un organo che non le permette di vivere completamente in acqua. Il polmone è dunque una memoria terrestre. «Questo pensiero» - dice Portante - «mi ha dato molto. Mi ha suggerito quale è la memoria mia, di prima. La lingua madre! E dunque ho fatto come la balena, ho preso la lingua madre che è l’italiano e l’ho messa come un polmone dentro la lingua che ho scelto per la scrittura, che è la lingua francese…Scrivere in lingua balena significa che sto con una lingua che è come se fosse il francese, come la balena vive come se fosse un pesce». La quasi totalità della vasta produzione di Portante è quindi scritta in francese una lingua che, come lui stesso dice, ha appreso e addomesticato in quanto nella casa dei suoi genitori emigrati dall’ Abruzzo si parlava l’italiano, anzi il dialetto di San Demetrio nei Vestini vicino L’Aquila. E quando si nasce e si cresce in Lussemburgo con le sue tre lingue presenti nel territorio, vale a dire il tedesco della scuola, il francese della strada e la lingua di Carlo Magno, avere in tasca ( o nel polmone) anche l’italiano può diventare una cosa straordinaria per qualcuno. Ma per chi è al servizio del senso può anche essere una cosa terribile. La “tragicità” di questa condizione anfibia è quindi vissuta in toto da Portante così da emergere completamente nel suo…parlessere, a dispetto di tutti gli sforzi e i desideri per realizzare una definitiva integrazione. «In questo spazio ambiguo io ho messo tutta la mia scrittura» dice ancora Portante e, a proposito di ambiguità, oltre a quella dello spazio, potremmo aggiungere anche quella del tempo, della sostanza primordiale, dell’identità e di tutto quanto fa di noi stessi IL senso! Perché è il fenomeno stesso della vita con la circolazione (migrazione?) e la sua ubiqua ambiguità a fare senso. Jean Portante con la sua lingua balena si è messo al servizio di questa migrazione cosmica, perché nel suo parlessere riesce a… complementare e richiudere quello scarto anfibio tra inconscio e linguaggio, tra l’essere e le parole. Noi, noi tutti, pare dirci Portante, siamo migranti nell’Oceano-Vita e non ci limitiamo solo a usare le nostre parole ma siamo intimamente fatti di esse. Pertanto il primato della parola poetica (termine molto caro al nostro) rivela che essa non serve solo a nominare le cose e a servire il senso di quanto accade, ma è la condizione stessa per (dell’) esistere perché tutto ciò che è avvenuto prima non viene superato e completamente dimenticato da ciò che viene dopo, ma continua ad accadere. E solo una “étrange langue”, una strana lingua, può ricordarlo, ridirlo e ravvivarlo.

venerdì 5 maggio 2023

Pietre di passo: in ricordo di Angelo Andreotti

In un antico racconto del poeta Han-Yu sta scritto che tutto risuona non appena si rompe l’equilibrio delle cose. Il suono e, dunque, la musica, la voce, il canto sono i sintomi della rottura di un equilibrio, cioè del silenzio: l’amato silenzio di Angelo. Gli alberi e l’erba sono, nel loro equilibrio, silenziosi. Se arriva il vento e li scuote essi risuonano. L’acqua è in perfetto silenzio nel suo equilibrio poi la gravità la smuove e agita nelle maree, la mancanza di terra la precipita in cascate roboanti, in fiumi scroscianti e in laghi ribollenti. I metalli e le pietre sono muti ma echeggiano se qualcosa li percuote. Il cielo, il cielo stesso procede allo stesso modo: gli uccelli in primavera; il tuono in estate; gli insetti in autunno; il freddo in inverno. È stato sempre così, una dopo l’altra le quattro stagioni si inseguono in una sinfonia senza fine e questa continua pro-vocazione è un’ ulteriore prova che si sia rotto un equilibrio. Lo stesso vale per gli uomini: il suono umano più perfetto è la parola e la poesia è, a sua volta, la forma più perfetta di parola in quanto la più vicina al silenzio. «E così, quando l’equilibrio si rompe, il cielo sceglie i più sensibili tra gli uomini e li fa risuonare» [Han-Yu]
Si profila al mio sguardo il percorso/ ma è il corpo a doverlo provare/ punto d'appoggio per ogni passaggio/ misurato da pietre di passo./ Lì azzardo il piede/ confidando nel vaglio degli occhi./ Incedo nudo nel mondo più nudo/ poiché è la pietra/ a dirmi dove andare/ e nel caso sia assente/ può esortarmi a un ritorno/ messo a rischio dal volgermi indietro./ Angelo è stato uno di quegli uomini scelti dal cielo per risuonare. È inutile dire che continuerà a farlo: è stato scelto apposta. La sua vocazione poetica resterà come risonanza alla pro-vocazione: un modo per continuare a ritrovare l’equilibrio perduto, per procedere nel guado grazie alle sue amate “pietre di passo”, semplici ma maestose, così silenziose nel silenzio. In uno degli ultimi messaggi ha scritto: “Conto molto - strana consolazione- sul post-operatorio per aspettare l’altro me che diventerò”. Sono convinto che anche in questo caso sia diventato quello che ha scoperto e la scoperta è sempre illuminante oltre che risonante. Anche per noi che abbiamo la fortuna di azzardare il piede confidando nel vaglio dei suoi occhi. Ciao Angelo

mercoledì 19 aprile 2023

Il palinsesto di Cornelio

Nella nota di accompagnamento a La specie storta (Edizioni Tlon, 2023), l’autore Giorgiomaria Cornelio ci informa che le favole, i versi e le scritture presenti in questo libro sono nati per la festa della poesia “I Fumi della Fornace” e per il rito che anima questa festa.
Dal 2019 il paese di Montecassiano, nella Valle Cascia in provincia di Macerata, è diventato un laboratorio per un singolare esperimento cruciale: la scongiura dell’estinzione mediante il “semplice meccanismo” di una catastrofe individuale come ad esempio quella dell’arrovesciamento di un albero, di una identità, di una (T|t)erra, di un semplice luogo di partenza o di arrivo. Quando parliamo di estinzione evidentemente parliamo sia della scomparsa di un piccola comunità come quella insediata nel paesino marchigiano, sia della famigerata sesta Grande Estinzione di Massa, così spesso evocata in questi tempi da fine millennio intrisi di peste, guerra e cambiamento climatico. Cosicché nella festa della poesia in Valle Cascia, ad essere “realmente favoloso” è questa possibilità di una seconda vita che finisce per erodere l’idea stessa di estinzione restituendo un nuovo albero a un terreno rinnovato per accogliere ancora le radici storte della specie. È inutile ricordare che verticale (p.es.albero) e orizzontale (p.es.terreno) partecipano a quella divisione binaria attraverso cui per lungo tempo la nostra specie ha interpretato qualsiasi cosa, inclusa la differenza tra maschi e femmine. I due poli unici della geometria della croce sono con tutta evidenza separati da molteplici se non infinite varietà di una terza direzione che definiamo obliqua , diagonale. È la direzione che ci appare storta e che dunque parrebbe appagante raddrizzare. La si nota subito e la si vuole correggere: in proposito Cornelio indugia sui nomi dei tanti ….geometri della rettitudine che hanno attraversato la storia della nostra specie. Eppure, la direzione…storta è proprio quella più frequente e probabilmente gli arrovesciamenti, le catastrofi, servono proprio a liberarle tutte quelle direzioni probabilmente capaci di rivelare certi segreti che abbiamo sempre davanti agli occhi. D'altronde anche il tentativo di raddrizzare un quadro nega la sua “drittezza”. E dunque è una favola di inclinazioni e di storture la poesia di Cornelio dove gli arrovesciamenti formano radici e congiungimenti che sostanziano materia e memoria, amore e altruismo. E poiché dobbiamo abbandonare le direzioni usuali della classificazione (p. es. verso, epigrafe, prosa poetica, testo,…), Cornelio pare utilizzare non carta ma un supporto più confacente a una favola-mito. La pergamena, in quanto supporto scrittorio, è molto assorbente per cui l’inchiostro penetra e sprofonda. Essendo inoltre un materiale molto costoso, in passato la sua superficie veniva raschiata con una lama per cancellare le tracce della scrittura precedente: riscrivere su una pergamena parzialmente cancellata produce quello che i paleografi chiamano un palinsesto ( dal greco πάλιν = di nuovo e ψάω = raschiare). La specie storta proprio a partire dalla sua organizzazione interna pare proprio somigliare a un palinsesto anche nella sua accezione più contemporanea di prospetto schematizzato di trasmissioni …foniche, eserghi, citazioni e immagini ed è un palinsesto anche nell’accezione più legata alla geologia e alle pietre se non proprio a quei mattoni che, Cornelio ci racconta, provenivano da quell’antica fornace, situata sul posto e i fumi della quale hanno scritto, per così dire, la leggenda sulla stortura degli abitanti. L’aspetto notevole del palinsesto è che esso si forma non tramite stratificazioni successive con l’aggiunta di uno strato su un altro ognuno con le sue proprie scritture, ma al contrario grazie a successive raschiature e rimozioni. Così oltre agli archeologi e storici anche il Poeta ha adottato il concetto di palinsesto per riferirsi a un “terreno” che, nel corso del tempo, è stato ripetutamente usato, eroso e riusato. Allora sia nel libro, sia nella Valle Cascia, così come nei mattoni che venivano dalla vecchia fornace e persino nei fossili di rivolta, negli spiriti antichi e nuovi della specie, il passato non è sepolto sotto il presente, ma emerge in superficie. Il presente, invece che ha eroso il passato che, cioè, lo ha raschiato di nuovo e di nuovo ancora, affonda giù sempre più giù, in profondità. Il passato risale mentre il presente discende: non è tanto dunque uno stratificarsi ma un ruotare. Un arrovescio! La nostra moderna “sensibilità” è profondamente condizionata dall’idea che ogni cosa sia formata da strati - che terreno, alberi, edifici, libri e persino i corpi umani siano costituiti da uno strato sull’altro, ognuno già marcato da proprie specifiche “scritture”. Il passato perciò è visibile per così dire solo attraverso un foglio multistrato di plastica trasparente che è il nostro presente. Ma il palinsesto di Cornelio ci dice una cosa diversa e cioè che, con il passare del tempo, gli strati non si sommano ma viceversa si consumano tanto che ciò che è più lontano nel passato è più vicino sulla superficie del terreno, del cuore, della pagina. La specie storta è sempre più consapevole di calpestare sé stessa come si calpesta un vecchio sentiero divenuto talmente esile da non essere più riconoscibile. E così le nostre azioni più recenti, queste “nuove” parole sono piene di scottature profonde, mentre le tracce del distante passato sono così superficiali da essere sul punto di svanire completamente, perdute, proprio ora. Amore,/oggi l’incontro ci spatria/le ossa. Ci incurva/le giunture del difetto.//Tutta l’officina del corpo barluma./Ruota e sciacqua,/con nuovo/diluvio universale.//«Perché ecco,/l’inverno è passato».//Perché qui perdiamo/il nome. … Quando viene l’eclisse,/e l’organo non fiata,/e non c’è più lingua per dire/il papavero, l’acanto, la molecola/di resina…..o il santo patrono,/tu, e puoi,/ continua a pregarli.Dopo mezzanotte/albeggia mezzanotte.//Vedi: sono molte le trivelle che//ci scavano la crosta, sapendo/che ogni strato è una viscera/di dolore.//Questa buia cava,/questa che sempre screpola,/questa che è la sera/senza più barbaglio:/io la scendo./io la passo.//«e sorbendo il tuo parlare oscuro,/per te mi disseterò con acqua morta». Riferimenti - https://www.congerie.org/ - https://www.ilsole24ore.com/art/la-specie-storta-controcanto-parole-d-oppressione-AENtpS1C

giovedì 1 dicembre 2022

Christian Bobin: la vita e nient'altro

Il 25 Novembre è scomparso il poeta francese Christian Bobin. A molti questo nome non dirà molto, ma il Post delle fragole è pieno dei suoi silenzi, della sua discrezione e del suo dono.
Scrivere è un modo di rispondere alla vita. Abbiamo sempre bisogno di rispondere a un dono con un altro dono, non per sdebitarci, ma per continuare a donare e ricevere, senza fine”. Così scrive Bobin in Mozart e la pioggia (AnimaMundi Edizioni, 2015). E dunque se la vita è un dono , un munus, per la communitas, un qualcosa cioè da condividere con altri, allora questo dono va ricambiato con una speciale attenzione e cura a sé e agli altri; questo dono va ricambiato con qualcosa che possa consentire una sorta di immunitas di gregge, un vero e proprio vaccino per affrontare l’irrimediabile dualità della vita, una immunizzazione collettiva per prendersi cura della vita in toto. La scrittura dunque è, per Bobin, il pharmakon che è contemporaneamente veleno e cura proprio come lo è la parola per sua natura: ambigua. In questo Bobin pur privilegiando la prosa, è Poeta. “La santità non è affatto ciò che immaginiamo. Oggi ho incontrato una schiera di primule che chiacchieravano all’aria aperta e facevano delle loro chiacchiere una preghiera che saliva dritta al cielo. Il loro cuore era aperto alle piogge, alla siccità e persino allo sradicamento. Non scegliere tra ciò che viene, era il loro modo impeccabile di essere sante. Mi rigiravo nei miei pensieri quando mi sono apparse ai lati della strada, offrendo alla luce la culla colorata dei loro petali. Il vento ne faceva vibrare le forme, stampando su uno sfondo d’erba un testo degno di lode. La maggior parte di coloro che incontro mi fanno pena. Vedo un’ombra – un dispiacere, un’assenza, una mancanza – che attraversa i loro occhi anche quando ridono, come una lucertolina che si infila fra due pietre, timorosa di essere intravista. Ed io sono simile a loro. Il mio cuore batte nel buio. La vita si rattrista perché può attenderci solo di rado. Con noi è come una madre disposta a dare il cuore per sfamare i suoi bambini e i suoi bambini non vogliono assaggiare quest’alimento sublime e nemmeno sentirne parlare. Lo splendore delle primule, per giungere sino a me, aveva dovuto squarciare la notte che mi circonda il cuore. Considero un miracolo vedere cose poverissime. Non mi stanco di questi miracoli, e sono davvero incapace di spiegare perché a volte non c’è nulla e altre volte c’è tutto. Il paradiso sarebbe vivere un’intera giornata come una sola di queste primule.”[ Da Resuscitare, AnimaMundi Edizioni, 2003] Nulla può essere detto in maniera definitiva proprio per l’ambiguità della parola ma è proprio questa molteplicità di significato che rende la poesia un dono per il mondo, producendo il miracolo di vedere cose poverissime e accostarsi silenziosamente e rispettosamente a Chi Non Sa Nulla, a chi ha dimenticato anche il suo nome perché E' tutti i nomi. Chi Non Sa Nulla cosa potrà mai dire all’uomo che grazie alla parola lo interroga? Ecco, forse, l’opera di Christian Bobin, a cominciare dal suo famoso libretto sul Santo di Assisi, potrebbe aiutarci ad “ascoltare con gli occhi” e a “guardare con le orecchie”, a vivere qualche secondo come una sola di quelle primule. Bobin è morto nella sua casa di campagna in Borgogna non lontano dal suo paese d’origine, Le Creusot, dove era nato nel 1951. Qui circondato dalla natura ha condotto la sua opera e la sua vita ritirata a testimonianza di una gioia sempre a portata di mano pur nell’irriducibile dualità e ben sapendo che il fondo della vita è simultaneamente terrificante e bello. Essendo la sua opera una riflessione sull’arte letteraria e quindi, come scambio di doni, sulla vita, quando scriveva usava espressioni come questa : «scrivere è disegnare una porta su un muro invalicabile, e poi aprirla» o ancora «la posta in gioco è sempre una gaiezza fondamentale, conservare il sentimento lieto del dono della vita». I suoi modelli sono stati quelli che puntavano a rendersi degni della Perfezione perché «le anime sono dei compassi la cui punta trema al momento di piantarsi: solo i santi tracciano il cerchio perfetto». Da qui la sua ammirazione per la semplicità e per le cose minuscole, per quegli autori che più si rileggono e più mostrano nuove profondità. Autori che mostrano la sacralità della parola e la purezza della vita senza alcuna pretesa di insegnare qualcosa o di svelare un mistero.

lunedì 11 luglio 2022

...è un mondo di domande o di risposte?...

Molti mi chiedono: «Perché ti piacciono gli haiku?». «Perché sono epigrammi lirici», rispondo, rendendomi immediatamente conto che questa non potrà essere presa da tutti come una risposta chiara ed esauriente: è di risposte/ è un mondo di risposte/ oppure oppure…/. Già: è questa la questione delle questioni; siamo al mondo per farci delle domande o per cercare delle risposte? Detta in un altro modo: le risposte sono qui davanti a noi e non le troviamo per mancanza di …connessioni sufficienti; oppure, qui davanti a noi si parano, e continueranno a pararsi - insoddisfatte - le domande dalle infinite risposte? E dunque gli haiku, nella loro laconica brevità con quella inesauribile risonanza, mi paiono racchiudere contemporaneamente tutte le domande per una singola risposta e, viceversa, tutte le risposte a una singola domanda. Come sia possibile che una manciata di parole raccolte in 17 sillabe, suddivise in tre versi, possano dare questa sensazione è un mistero (yugen in giapponese): lago vetusto/ una rana si tuffa/ rumore d’acqua/. Tutto qui? Tutto qui, perché il lago non è propriamente un lago e quel vetusto non è un dato (numerico) di “certezza scientifica” e la rana, il rumore sono entrambi…anfibi, ambigui e…trasmigranti. Simbolicamente ed effettivamente. Tutto, davvero tutto, è qui. Proprio per questo gli haiku mi piacciono; «perché», come ho detto, «sono epigrammi lirici», e come tali, mi catturano per la loro formale brevità e per quella sostanziale risonanza che li contraddistingue; perché hanno a che fare con… il rumore di fondo dell’esistenza, quello che i metafisici Indù chiamerebbero prajāpati, il ronzio costante che precede ogni profilo sonoro, quel silenzio dietro al quale si avverte qualcUno che opera, se non proprio qualCosa in azione. Ecco gli haiku hanno a che fare con un complesso di forze ignote e incontrollabili che sembrano osservare e sostenere tutto ciò che accade. Domande e risposte comprese. Potremmo chiamarlo, questo insieme di forze, prajāpati, appunto, oppure percezione ambientale (umwelt) o anche yugen. Più “semplicemente” Kate Tempest lo chiama connessione creativa.
Ka(t)e Tempest (Westminster, 22 dicembre 1985) è un(a) rapper, poeta, compositrice, scrittrice, drammaturga e performer britannica. Nel 2013 ha vinto un Ted Hughes Award per il suo album in studio Brand New Ancients ed ha ricevuto la nomina di Poeta della Nuova Generazione dalla Poetry Book Society, un riconoscimento assegnato una volta ogni decade. I suoi dischi Everybody Down e Let Them Eat Chaos sono stati nominati per il Mercury Music Prize. Il secondo è accompagnato da una raccolta di poesie (pubblicata in italiano da edizioni e/o, Che mangino caos), che a sua volta ha avuto una nomination per il Costa Book of the Year nella categoria "Poesia". Il suo romanzo d'esordio The Bricks That Built the Houses è stato un bestseller del Sunday Times e ha vinto un Books Are My Bag Readers per il miglior autore esordiente. Quest’anno è stato tradotto il suo primo saggio, Connessioni (edizioni e/o), che è una riflessione sul potere della creatività e , a suo modo, la testimonianza di quel complesso di forze ignote e incontrollabili che osserviamo per osservarci e che sosteniamo per sostenerci. Ogni istante della nostra giornata, nella sua inevitabile brevità, è un'ottima occasione per connetterci: chiunque appartenga a una generazione che va dai millennials in avanti potrebbe abbinare il termine "connessioni" a qualcosa di digitale. Ma pur essendo Kae Tempest una fiera rappresentante della categoria dei nativi digitali, in questo saggio invita a focalizzarci su di un altro tipo di connessione. Kae Tempest (si) ci chiede se siamo sicuri che in quest'epoca di iperconnettività ci possiamo definire davvero legati - o connessi - gli uni agli altri o più semplicemente connessi come potrebbero esserlo il “lago vetusto”, la “rana” e il “rumore d’acqua” nel nostro haiku. In una società iper-individualista, competitiva e insostenibile (ambientalmente, socialmente ed economicamente), Tempest ci invita a uscire dal nostro "torpore …antropico", reazione (domanda o risposta?) alla crisi globale che, paradossalmente, porta a raggomitolarsi sempre di più su sé stessi. A questo intorpidimento si può reagire in un solo modo: essere creativi. Il saggio di Kae Tempest guarda alla creatività come il mezzo per contrastare l’intorpidimento del mondo moderno. Più esplicitamente, Tempest prende le mosse da Il Libro Rosso di Carl Gustav Jung e dalla sua teoria che dentro ognuno di noi risiedono un “spirito delle profondità” e uno “spirito del tempo”. Quest’ultimo, detto altrimenti l’ego quotidiano, si preoccupa di obiettivi e ambizioni più immediate. Entrambi gli spiriti sono necessari, scrive Tempest, ma li abbiamo sbilanciati. Per ritrovare il nostro equilibrio, dobbiamo recuperare la capacità di andare in profondità (come la rana) e riproporre ancora una volta le stesse domande sul “rumore di fondo dell’esistenza”, su quel “silenzioso ronzio” che precede ogni profilo sonoro e perfino ogni emissione vocale legata alla nostra iper-individualità. Ogni capitolo del saggio è preceduto da citazioni di William Blake, aforismi che ricalcano quella laconica brevità degli haiku della quale parlavo all’inizio e che continuano a risuonare nelle parole di Kae Tempest a commento delle citazioni, parole che si allargano come i cerchi provocati dal tuffo della rana in uno stagno antico e profondo come l’universo. La creatività , come diceva Blake, risiede in qualcosa che viene prima della percezione sensibile, una percezione visionaria che lui chiamava vortice. Per Kae Tempest questo vortice nasce dal quotidiano, dalla fatica. Da appunti scritti o scarabocchiati a penna sul taccuino e poi sistemati al computer, dalle sue barre rap e dalla sua musica. Ritmi, colori, versi che sono al tempo stesso percezione visionaria e percezione sensibile, cioè connessioni tra un mondo di domande e un mondo di risposte.

giovedì 23 giugno 2022

Patrizia Cavalli: una breve nota

Mi sono sforzato di trovare un incipit degno per ricordare con la presente nota, Patrizia Cavalli, poeta italiana, venuta a mancare - a noi e a tutte le parole - pochi giorni fa. Poi questa parolina, appunto, che ho scelto per definire questo testo: nota, ha prodotto nel momento stesso di disporsi sul foglio una deviazione ai miei pensieri e al mio progetto originario.
Una nota è una nota e richiede solo …ascolto. La poesia di Patrizia Cavalli è quanto di più simile alla musica si possa ascoltare, o meglio ancora, provare. Perché la musica mette alla prova tutto noi stessi. Mette alla prova il corpo che ha voglia di seguire il ritmo: dita che tamburellano su una superficie; mani a voler afferrare i suoni che scorrono per aria; piedi a produrre passi e balzi per affrancarsi dal massimo peccato: Addosso al viso mi cadono le notti/ e anche i giorni mi cadono sul viso./ Io li vedo come si accavallano/ formando geografie disordinate:/ il loro peso non è sempre uguale,/ a volte cadono dall’alto e fanno buche,/ altre volte si appoggiano soltanto/ lasciando un ricordo un po’ in penombra./ Geometra perito io li misuro/ li conto e li divido/ in anni e stagioni, in mesi e settimane./ Ma veramente aspetto/ in segretezza di distrarmi/ nella confusione perdere i calcoli,/ uscire di prigione/ ricevere la grazia di una nuova faccia./ È tutto così semplice,/ sì, era così semplice,/ è tale l’evidenza/ che quasi non ci credo./ A questo serve il corpo:/ mi tocchi o non mi tocchi,/ mi abbracci o mi allontani./ Il resto è per i pazzi./ [da Le mie poesie non cambieranno il mondo, 1974)] E insieme al corpo, la poesia mette alla prova lo spirito che pare appartenere a quel mondo invisibile di vibrazioni così accordato alle melodie da produrre risonanze e battimenti in grado di cullarti ma anche frantumarti come succede a un vetro costretto all’ infisso che reagisce al motore di un auto: Io guardo il cielo, il cielo che tu guardi/ ma io non vedo quello che tu vedi./ Le stelle se ne stanno dove sono,/ per me luci confuse senza nome,/ per te costellazioni nominate/ prima che il sonno scioglierà il tuo ordine./ Ah, sognami senza ordine e dimentica/ i tanti nomi, fammi stella unica:/ non voglio un nome ma stellarti gli occhi,/ esserti firmamento e vista chiusa,/ oltre le palpebre, splenderti nel buio/ tua meraviglia e mia, immaginata./ [da Vita meravigliosa, 2020] E con il corpo e lo spirito, anche la mente viene messa alla prova dalla poesia nel suo dilatarsi in un bing bang privato, piccola creazione in grado di produrre tipi di particelle ancora sconosciute e nuove onde per galassie e stelle nuove: Io scientificamente mi domando/ come è stato creato il mio cervello,/ cosa ci faccio io con questo sbaglio./ Fingo di avere anima e pensieri/ per circolare meglio in mezzo agli altri,/ qualche volta mi sembra anche di amare/ facce e parole di persone, rare;/ esser toccata vorrei poter toccare,/ ma scopro sempre che ogni mia emozione/ dipende da un vicino temporale./ [da L’io singolare proprio mio, 1992] In un Universo dove la materia impersonale esiste per sempre, mentre l'esistenza personale si estingue alla morte, quello che può sopravvivere di un essere è una voce, una semplice nota o come dicevano i Greci: la rinomanza. Per questo l’ immortalità, condizione propria degli dei e inaccessibile agli esseri umani, è riservata a questa poeta e a questa poesia.