giovedì 2 dicembre 2021

W.H. Auden: un "semplice cronista" di emozioni

È inutile nasconderlo. La fortuna di Wystan Hugh Auden (1907-1973) in Italia è stata segnata da un giudizio di Eugenio Montale (1896-1981) che definì il poeta inglese un “semplice cronista”. A ben poco sembrerebbe essere servito il giudizio di segno opposto dell’altro Nobel, il russo Iosif Brodskij (1940-1996), che invece definì Auden “la più grande mente del ventesimo secolo”. Auden rimane ancora oggi, in Italia, un poeta poco…praticato. Semplice cronista dunque o grande mente? Si sa, in queste cose, nei giudizi tra simili, il sentimento gioca un ruolo importante. L’ammirazione per un coraggio che non si è avuto, così come l’infatuazione per un’ invidiabile padronanza linguistica e tecnica: sono cose che potrebbero aver indirizzato, in un verso e nell’altro, il giudizio dei due Nobel per la letteratura. In tanti casi sarebbe meglio, molto meglio, affidarsi ad una emozione. Il modo in cui ci comportiamo o esprimiamo un giudizio a volte - ma succede più frequentemente di quanto si immagini - può risultare ambiguo e incomprensibile anche a noi stessi («Credimi, non so perché l’ho fatto»; «Giuro, l’ho detto ma non lo penso…»). Per lo meno l’emozione, se c’è, si vede! Non è nascosta, sotto mentite spoglie, dietro ai nostri “credere” o “giurare”.E' sull’emozione che giocano i nostri sedicenti neuroni specchio e la nostra empatia. E di questo ci occuperemo: di emozione e di sentimento e del fatto che tendiamo ad usare queste due parole in modo interscambiabile e a volte non pertinente, finendo di confondere i loro significati. In effetti emozione e sentimento sono strettamente correlati ma forse non ci soffermiamo più di tanto sulla loro differenza. Comprenderla potrebbe risultare importante anche solo per esprimere un giudizio… avvertito (e non avventato) su una poesia. Su un poeta. Su una persona. E proprio di una emozione, di qualcosa, cioè, che ci muove e dunque si mostra, parla Hanna Arendt (1906-1975) a proposito di Auden. E da qui cominciamo. “Io odio la compassione” disse Hannah Arendt a Mary Mc Carthy nel 1969 quando le raccontò di aver trascinato in ascensore Auden, completamente ubriaco, per accompagnarlo in camera. La sbornia era dovuta al rifiuto di Hannah a una proposta di matrimonio avanzata da Auden in preda, probabilmente, a… un’ansia dell’età. La Arendt e Auden erano legati da un’amicizia decennale e in quegli anni, quando entrambi avevano passato i 60, lei aveva pubblicato da poco il suo libro più famoso (La banalità del male) mentre l’elegante poeta inglese si era trasformato in un clochard trascurato e disperato. La Arendt tornerà su questo episodio quando due giorni dopo la morte del poeta, avvenuta nel settembre del 1973, scriverà ancora alla Mc Carthy: «Penso sempre a Wystan e alla miseria della sua esistenza, e al fatto che mi sia rifiutata di prendermi cura di lui quando venne e pregò di essere protetto». Probabilmente la Arendt provò nuovamente quella compassione non nel ricordo di un sentimento ma nella medesima spinta dell’emozione di quel tempo che le aveva fatto scrivere: «Io odio la compassione, mi spaventa, da sempre, e credo di non aver mai conosciuto qualcuno che abbia provocato in me così tanta compassione». Questa frase della Arendt racconta molto più del giudizio critico di Montale e di quello di Brodskij e ci dice tutto sulla differenza tra un emozione e un sentimento, tra ciò che ci spingerebbe a fare (e dire) qualcosa di impulsivo e ciò che c’indurrebbe a elaborare, in parole e azioni, una reazione. Le emozioni, come si sa, sono fisiche e istintive. Esse sono state programmate nei nostri geni nel lungo percorso evolutivo della nostra specie. Sono complesse e comportano una serie di reazioni fisiche e cognitive (molte delle quali ancora incomprese) e il loro scopo principale è proprio quello di ex-movere (trasportare fuori, smuovere, scuotere, mettere in movimento) cioè produrre una risposta manifesta ad uno stimolo. Ad esempio una persona ci provoca compassione. Questa emozione può essere “misurata” oggettivamente dal flusso di sangue, dall’attività cerebrale, dall’espressione facciale. Dal gesto. I sentimenti, al contrario, si sviluppano nelle nostre teste. Si tratta di associazioni mentali e reazioni ad una emozione. Sono del tutto personali e si acquisiscono attraverso l’esperienza. Il tipo di sentimento prodotto da una emozione, varia enormemente, da persona a persona e da situazione a situazione, perché i sentimenti sono modellati dal temperamento e dall’esperienza individuale. Per esempio vediamo una persona che sta male: la nostra reazione può variare dalla curiosità alla paura, all’odio, in funzione di associazioni mentali che vengono innescate (p.es. ricordi di persone care che sono state male; malessere provocato alla vista del sangue; incapacità di sostenere un dolore già provato, etc…). Ecco quella compassione provata ma…trattenuta dall’odio e dallo spavento della Arendt racconta, spiega e giudica Wystan Hugh Auden meglio di tanti giudizi critici, indiscutibilmente circostanziati e ben articolati ma sicuramente di natura sentimentale e già lontani dalla emotività che traspare in questo “ricordo” rielaborato da un articolo apparso il 12 gennaio del 1975 sul New Yorker con il titolo Remembering W.H. Auden e firmato da Hannah Arendt.
Incontrai Wystan tardi, quando ormai non era più nelle nostre disponibilità quella semplice complicità che si possiede da giovani, grazie a una incosciente certezza del futuro. Perciò condividemmo un’amicizia senza troppe confidenze anche perché in lui troneggiava una discrezione tutta inglese che dissuadeva da ogni forma di affettuosità familiare. Rispettai questo lato del suo carattere con l’illusione di riuscire a entrare in possesso di quel segreto necessario a un grande poeta, a uno che si era imposto di non usare parole sciatte e casuali per parlare di cose per le quali si poteva (e si doveva) usare una concentrazione densa e poetica. Allora pensai che potesse trattarsi di una deformazione professionale: la reticenza del poeta. Anche perché molti dei suoi lavori, emergevano, con estrema naturalezza, dalla parola parlata, dagli idiomi quotidiani se non proprio dal cockney [Poggia la tua testa assonnata, amore mio, sul mio semplice braccio senza fede]. Questa perfezione è molto rara, paragonabile solo a quella che si trova nelle poesie di Goethe o di Puskin. La loro caratteristica è essere intraducibili. Qui tutto dipende dalla fluidità di gesti che trasformano i fatti da prosaici a poetici. Se lo stile è altrettanto fluente, magicamente veniamo convinti che il linguaggio quotidiano sia ellitticamente poetico e ci predisponiamo ai veri misteri della lingua aprendo per bene le orecchie. Da subito Wystan mi risultò intraducibile: fui convinta della sua grandezza. Quanti traduttori si sono dati da fare e hanno tradito, senza troppi scrupoli, poesie come If I could tell you (Potessi dirtelo), che si srotola in modo naturale da semplici frasi colloquiali come “ce lo dirà il tempo” o “che t’avevo detto”: [Il tempo non lo dirà, io te lo dicevo. / Solo il tempo sa il prezzo da pagare; / se lo sapessi te lo direi. // Se dovessimo piangere quando i clown si danno da fare, / se dovessimo inciampare quando suonano i musicisti, / il tempo non lo dirà, io te lo dicevo. // Il vento verrà pure da qualche parte se ora soffia qui, / ci saranno cause che fan gialle le foglie; / Il tempo non lo dirà, io te lo dicevo. // Ora pensa che i Leoni prendono e se ne vanno, / e tutti i ruscelli e soldati se ne fuggono; / il tempo non lo dirà, ma io? / Potessi dirtelo, lo sapresti]. Quando l’ho visto caduto in miseria, senza una giacca o un secondo paio di scarpe, ebbi l’impressione di intravvedere vagamente quel segreto che, credo, sia nascosto nel suo motto “Enumera le tue fortune”. E, comunque, trovai difficile capire davvero perché accettasse quella situazione senza fare qualcosa per uscirne ma limitandosi ad attraversarla fino alla fine. Era ragionevolmente famoso anche se una simile ambizione non contò mai troppo per lui: era il meno vanesio tra gli autori che conoscevo. Non che fosse umile ma nel suo caso era proprio la consapevolezza di se stesso che lo proteggeva dagli adulatori. Questa sua qualità esisteva prima di ogni riconoscimento e di ogni fama, prima addirittura del successo. Tale consapevolezza non lo lasciò mai, ma non gli proveniva dalle adulazioni, dal confronto con gli altri o dai riconoscimenti letterari; era piuttosto connaturata alla sua grande abilità nel trattare la lingua, e nel farlo rapidamente, quando gli andava a genio o, meglio, direi: non gli andava nemmeno a genio, perché non amava esibire la palese perfezione finale e neppure vi aspirava. In altre parole Wystan era benedetto da quella rara confidenza in sé stesso che non necessitava di ammirazione e di buone opinioni altrui; e che può benissimo reggere l’autocritica senza cadere nel trabocchetto del dubbio perpetuo. Questa cosa spesso può essere confusa con l’arroganza, ma Wystan diventava arrogante solo quando qualche volgarità lo provocava; allora si proteggeva con i modi rudi e abbastanza improvvisi, tipici dell’inglese di razza. Wystan sapeva che “la poesia non fa accadere nulla: sopravvive”. Riteneva insensato che il poeta avocasse a sé dei privilegi o chiedesse permessi speciali. Nulla era maestoso in Auden quanto la sua integra sanità e la sua salda reputazione per la sanità. Il fatto principale era non avere illusioni, non accettare pensieri che impedissero di guardare in faccia la realtà. Ecco perché Wystan rigettò le sue immature credenze di sinistra; per gli eventi che sappiamo: processi a Mosca, patto Hitler-Stalin, esperienze di guerra civile spagnola. Sono gli eventi, così come le emozioni, a mostrare le cose, diceva, e dunque questo spiega da dove poteva essere saltato fuori: La storia agli sconfitti / sta bene se lo dite ma non giova né perdona. Non so se Stephen Spender avesse ragione a ribadire che fu la fede, la stringente necessità di Wystan; sono certa comunque che, più semplicemente, una necessità fu bazzicare con le parole e scrivere versi. Certamente sembra poco probabile che Wystan da giovane conoscesse il prezzo da pagare per diventare un grande poeta, e penso che verso la fine considerasse troppo alto questo prezzo. In ogni caso, i suoi lettori, possono solo essergli grati per averlo pagato fino all’ultimo centesimo, quel prezzo. E noi, suoi amici e sodali, possiamo trovare qualche consolazione nello scherzo sublime che Wystan continua a tenderci dall’altra parte del mondo: Wystan confidò a Spender che la sua anima saggia e incosciente avrebbe scelto per conto suo il giorno ideale per andarsene. La saggezza di sapere “quando vivere e quando morire” non è concessa ai mortali ma Wystan, sono indotta a crederlo, potrebbe averla ricevuta quale suprema ricompensa, quella che gli dèi crudeli elargiscono ai loro servitori più fedeli. Così Hannah Arendt ci svela Wystan Auden. E così, grazie a lei, scopriamo quanta emozione può esserci in un sentimento; quanto amore, affetto, complicità, amicizia e devozione possono nascondersi dietro l’…odio per la compassione. Una cronaca di emozioni che sarebbe piaciuta alla più grande mente dell’Età dell’Ansia.

giovedì 25 novembre 2021

Wystan Auden e l'Età dell'Ansia che ci interroga. Parte II

Tutti gli adulti, secondo Jung, sono dominati da una delle quattro funzioni della psiche, divise in funzioni valutative, (pensiero o sentimento, che influenzano il modo in cui prendiamo decisioni) e funzioni percettive, (intuizione e sensazione, che influenzano il modo in cui esperiamo il mondo esterno), nella duplice versione estroversa o introversa. Pensiero e sentimento sono funzioni speculari, così come intuizione e sensazione. Ciascun personaggio de L’Età dell’Ansia mostra chiaramente il dominio di una specifica funzione (Quant = Intuizione, Malin = Pensiero, Rosetta = Sentimento, Emble = Sensazione) e sembra essere prigioniero di un ruolo che viene sentito come sempre più insoddisfacente da un punto di vista esistenziale. L’Ansia del poema trova un esatto corrispettivo nella classica crisi di mezza età che per Jung è sintomo della necessità di integrare contenuti inconsci nella propria personalità. La ricerca di integrazione è un vero e proprio quest spirituale, che passa attraverso espressioni regressive, sintomi, queste, di una “malattia” ma che invece sono fasi necessarie per la riconquista di una personalità integrata. Il processo di integrazione (che Jung chiama “individuazione”) inizia solo dopo che un individuo abbia trovato una sua collocazione nel mondo. Et voilà. Auden nel suo poemetto racchiude l’esperienza della propria crisi di mezza età rappresentando la sua psiche e identificando il proprio stato dell’essere con quello di Rosetta - il più sentimentale dei quattro personaggi - proprio per compensare la sua personalità eccessivamente cervellotica ed intellettuale.
Cosicché L’Età dell’Ansia si trasforma in un vero e proprio mandala di guarigione che consentì ad Auden di integrare le sue funzioni latenti (e cioè Sentimento e Sensazione) e di affrontare le proprie proiezioni. Anche per me quel poemetto, nelle sue successive letture e approfondimenti, divenne un vero e proprio processo psichico di integrazione tra intelletto e sentimento. Imparai così che il percorso dell’uomo in cerca del proprio sé, nel tentativo di recuperare la propria integrità, è un processo di individuazione spirituale (non necessariamente religioso). Anche per Jung, infatti, tutto ebbe inizio con una crisi personale e continuò con una ricerca di tipo spirituale. In un viaggio in treno verso Schaffhausen, nel 1913, Jung ebbe la visione di una terribile alluvione che inondava l’Europa – migliaia di cadaveri e macerie galleggianti – che, come avrebbe detto più tardi, collegò ai disastri della Prima guerra mondiale. Jung quarantenne, già affermato professionista, era in balia di queste visioni apocalittiche e non riusciva a interpretarle in maniera soddisfacente. Decise così, nel pieno di questa crisi personale, di effettuare un esperimento su sé stesso che sarebbe poi durato fino al 1930 e che definì “confronto con l’inconscio”. Sviluppò allora uno specifico metodo di esplorazione psicologica (immaginazione attiva) finalizzato , tra le altre cose, a tradurre le emozioni in immagini. Così facendo gettò le basi per lo studio dei meccanismi universali della coscienza umana, andando alla ricerca di quei modelli di comportamento di carattere istintuale e culturale che definirà come “archetipi” e che oggi vengono indagati grazie alle neuroscienze e agli studi sulle emozioni effettuati dal neurofisiologo Antonio Damasio. Auden trovò dunque in Jung la possibilità di vedere l’angoscia (o la nevrosi) dell’uomo sotto la luce positiva della possibilità di un cambiamento esistenziale in quanto essa preludeva al processo di individuazione e di recupero della propria integrità psichica. L’intellettualismo di Auden, davanti a chi come Jung mirava decisamente a una riunificazione fra spirito e materia, era vicinissimo al mio intellettualismo di allora. Riconoscermi in tutte queste cose, avvertirle, sentirle, leggerle, anzi: provocarle nella lettura, rappresentò per me un aiuto indispensabile per il percorso di guarigione. Mostrare una fiamma che afferma fu una fase fondamentale per la costruzione e l’integrità della mia identità per trasformare cioè un’ansia da bisogno nel bisogno legittimo e necessario di un’ansia. Ma fu anche una scoperta, una di quelle due o tre rivelazioni delle quali parlava Brodskij: la rivelazione della Poesia quale strumento da continuare a perfezionare per sostenere un incomprensibile e misterioso, scopo antropologico.

lunedì 22 novembre 2021

Wystan Auden e l’Età dell’Ansia che ci interroga. Parte I

È stato un neuropsichiatra, nei primi anni ’80, a farmi capire la relazione tra ansia e panico e tra emozione e sentimento. È stato lui a farmi scoprire, in un sol colpo, la Psiche e la Poesia. Per una serie di eventi (il terribile terremoto del 1980, la morte di mio padre, un persistente disturbo visivo) sviluppai una forma di ansia che quel dottore…multidisciplinato curò non solo con medicine e terapie ad hoc ma anche con le…parole. Quell’ “ansia da bisogno di affermazione” - questa fu la diagnosi del dottore - mi parlava e mi interrogava. Pretendeva cioè da me un dialogo e delle risposte. Quel bravo neuropsichiatra mi fornì gli strumenti per rispondere. Tra questi strumenti c’erano le parole di quello che sarebbe diventato uno dei miei poeti preferiti: Wystan Hugh Auden. …oh, che io possa, composto come loro/d’Eros e di polvere,/assediato dalla medesima/negazione e disperazione,/mostrare una fiamma che afferma [W. H. Auden, da 1° settembre 1939]. Quel bisogno di affermazione era solo una legittima domanda di…individuazione, di ricomposizione di una integrità fino ad allora posseduta. Detto in altre parole: quel bisogno che avvertivo e così comune - imparai - a tante altre persone, era “solo” la causa di uno smarrimento, di una frammentazione della psiche. Fatto è che fu proprio quell’ansia patologica - visioni, incubi e attacchi di panico - e quell’appassionato dottore a mettere in moto la mia guarigione, a mostrarmi, parafrasando i versi del poeta, una fiamma che affermasse o riaffermasse qualcosa. Qualcuno. The Age of Anxiety: A Baroque Eclogue è un poemetto scritto da Auden nel 1947 e pubblicato in Italia dalla Mondadori nel 1966 (L'età dell'ansia : egloga barocca) nella traduzione di Lina Dessì e Antonio Rinaldi e con una riedizione più recente del 1994 per il Melangolo alla quale, da ora in poi, mi riferirò.
Ricordo che dopo la lettura del testo annotai solo una cosa: “pg. 263, traduzione discutibile di nitrogen in nitrogeno e non, più correttamente, in azoto”. Allora studiavo fisica e ne ero completamente infatuato: non capivo perché i traduttori non avessero optato per il più docile e orecchiabile azoto. Attribuii la cosa al solito provincialismo culturale italiano che riservava attenzione solo o quasi esclusivamente alla cultura umanistica declassando la scienza ad una cultura di secondo ordine. Non riconobbi allora di ignorare quasi tutto della Poesia: non sapevo nulla di allitterazione di versi accentuativi e sillabici e mi cullavo nella mia presunta formazione classica precedente a quella scientifica. Reputai così un errore grossolano aver adottato il temine obsoleto nitrogeno al posto del più scientifico azoto. Mi sbagliavo. L’opera di Auden si apre sullo sfondo di uno scenario apocalittico: il corpo del mondo violentato dalla Seconda Guerra Mondiale, le menti confuse di fronte al fallimento della convivenza civile e, in generale, della cosiddetta civiltà liberale. All’inizio del poemetto, quattro individui, sconosciuti fra loro ma uniti dallo stesso disagio, vengono presentati, nella loro ricerca di un rifugio alle ansie collettive e personali, in un bar di Manhattan. È la notte dei Defunti. Auden soppesa l’ansia di questi quattro personaggi attraverso l’universo simbolico di ciascuno: Quant ha una personalità divisa fra il suo umile lavoro di commesso e lo slancio di una mente che trasfigura e sublima gli episodi banali della sua vita; Malin ci guida nella prima e seconda parte del poema attraverso un’analisi del malessere dell’uomo che per lui passa attraverso l’intelletto; Rosetta è preda di fantasie sentimentali che solo alla fine del poema cadranno lasciando posto a una presa di coscienza della realtà; infine Emble è un giovane marinaio di bell’aspetto e in cerca di una vocazione, il cui paesaggio simbolico, sembra essere quello del quest eroico con la difficoltà della ricerca di un proprio “graal”. A questi quattro personaggi si aggiunge poi la voce di una radio, personaggio di segno negativo con il suo linguaggio adulterato, propagandistico e pubblicitario. La radio è l’escamotage che Auden utilizza come collegamento con il mondo esterno. Inoltre se ne serve per sbeffeggiare quelle trasmissioni radiofoniche a cui aveva malvolentieri lavorato durante la guerra civile spagnola, quando, benché si fosse offerto volontario come autista di ambulanze, era stato invece assegnato al settore propagandistico. Tutti questi personaggi, inclusa la radio, si esprimono per la maggior parte del tempo in un verso allitterativo ed è questo uno dei motivi per il quale nitrogen deve essere tradotto in nitrogeno e non in azoto! L’allitterazione è una ripetizione - spontanea, ricercata per finalità stilistiche o per un semplice aiuto mnemonico - di un suono o di una serie di suoni, acusticamente uguali o simili, all’inizio (e, più raramente, anche all’interno) di due o più vocaboli successivi. Così nel verso incriminato a pg. 263: Technicians sent north to get nitrogen from the ice-cap [Tecnici furono spediti dal nord per estrarre nitrogeno dalla calotta gelata]. È evidente che azoto non può …allitterare con tecnici e con nord. Il verso usato nel poema inoltre - altra cosa che allora non compresi - è accentuativo: invece di avere un numero fisso di sillabe, è il numero di accenti a essere predeterminato. In questo caso gli accenti sono quattro. Una cesura separa i due emistichi che tendono a formare una mini-unità logica. Le frasi si concludono spesso alla cesura (non alla fine del verso). Rime appaiono sporadicamente e sono in genere interne. Nel singolo verso le sillabe accentate sono collegate fra loro dall’allitterazione che viene determinata dalla terza sillaba accentata. Tutte le vocali accentate allitterano fra loro. Ogni accento sarebbe da considerare un vero e proprio beat musicale, simile a quello di un rap in cui le sillabe del testo hanno un valore temporale variabile in base all’andamento musicale. Ma Auden, imparai un po’ alla volta, non scriveva per soddisfare solo l’orecchio. Come dice Valentina Vella (https://colum.academia.edu/ValentinaVella), al piacere musicale bisogna aggiungere «…le evidenti esplorazioni junghiane del poema: proprio per questo Auden intraprese la ricerca di un verso… archetipico della lingua inglese…», che potesse, da solo, racchiudere il modo di parlare dei quattro protagonisti, di estrazioni sociali e culturali così differenti, e della “radio”. Il poema dunque è di fatto una vera e propria allegoria junghiana, nella quale i quattro personaggi rappresentano le quattro facoltà della psiche.[continua]

venerdì 12 novembre 2021

In viaggio con Brodskij: un monologo. Parte III

Durante la fase della scrittura ci sono momenti in cui sei quasi uno spettatore. Quando stai mischiando le parole a quelle due o tre idee, ti capita di ricevere cose che non sapevi nemmeno che esistessero là fuori. È a questo che ti conduce il linguaggio. Il linguaggio è uno straordinario acceleratore del processo cognitivo. Se la parola è ciò che ci distingue dalle altre specie, allora la poesia – l’operazione linguistica per eccellenza – è il nostro scopo antropologico. Chiunque consideri la poesia alla stregua di intrattenimento, di «lettura», commette un crimine antropologico, in prima istanza contro se stesso. Oggi viviamo in un mondo in cui quelli che fino a trent’anni fa erano considerati valori, vizi e virtù (non vi suonano strane queste parole?) non dico che si siano scambiati di posto, ma quantomeno sono entrati in crisi o ci appartengono solo privatamente. Domande come questa: “ siamo sicuri che i nostri valori siano universali?”; o come quest’altra: “ in cosa credi?”, un tempo non sarebbero risultate oziose. I nostri predecessori avevano forse più cose in cui credere. Il loro Pantheon, i loro templi, erano più popolati dei nostri. Noi, in un modo o nell’altro, siamo tutti terribilmente agnostici. Ma ci sono agnostici e agnostici. E direi che i poeti, in ultima analisi, venerano una sola cosa, che non conosce altra incarnazione se non nelle parole, vale a dire…il linguaggio. Ed è attraverso il linguaggio che il poeta cerca di animare la mitologia, di trovare il senso alle storie che ha ereditato. È un lavoro di interpretazione e credo che questa sia una funzione importante della specie. In un mio saggio ho scritto: «In certi periodi della storia solo la poesia è capace di confrontarsi con la realtà perché la condensa in un qualcosa di afferrabile, un qualcosa che altrimenti la nostra mente non saprebbe ritenere». È probabile cioè che la poesia dia il meglio di sé come testimonianza della sensibilità umana cosicché, grazie alla poesia, il linguaggio acquisisce il potere della rinomanza (il kleos come la chiamavano i Greci) e della risonanza. Giusto per fare un esempio, prendiamo l’età augustea. L’idea che ci siamo fatti della sensibilità umana dell’epoca è basata su Orazio, per esempio, sulla sua visione del mondo, o su quella di Ovidio o di Properzio. Non abbiamo altre vere testimonianze, francamente. Il carpe diem è una soluzione tampone che mantiene in equilibrio…l’Impero Romano. Cosa ha sempre offerto la poesia rispetto alla prosa , alla religione , alla filosofia e alla scienza? Cosa può fare la poesia per eludere il senso di caos e per difendere la nostra sensibilità dalla brutalità dei tempi? Come ho già detto la parola è una reazione al mondo, un po’ come fare le smorfie nel buio o le boccacce a qualcosa o qualcuno di antipatico. È una reazione e in questo senso è funzionale. È protettiva? Ti protegge? No, forse no. In realtà, però, ti mette a nudo ed è molto probabile che esporsi in questo modo porti realmente a saggiare le proprie qualità, la propria… resilienza. Oggi come oggi riuscire a produrre un qualcosa di armonioso equivale quantomeno a dire in faccia al caos: «Vedi, non puoi spezzarmi, non ancora». E quel «mi», nel linguaggio, sta per ognuno di noi. La poesia è dunque solo il modo in cui per te la luce o il buio si rifrangono. Cioè, apri la bocca. Apri la bocca per gridare, apri la bocca per pregare, apri la bocca per parlare o solo per confessarti. Beh, si presume che ogni volta ci sia qualcosa che ti costringe a farlo o a non farlo e, che ha fatto dire alla Szymborska: «al ridicolo di non scrivere poesie preferisco il ridicolo di farlo». Auden ha scritto che la poesia non fa accadere nulla: sopravvive. E in questa sua sopravvivenza la poesia purifica la lingua e fa moltissime altre cose, come appunto metterci a nudo: mettere a nudo la comune condizione umana. Tanto per cominciare la poesia è un formidabile acceleratore mentale; ingloba poi una gran quantità di materiale, materiale razionale e irrazionale. Per questo mi piace paragonarla a una soluzione tampone come ho già detto: questa immagine ha un valore onnicomprensivo perché riguarda tanto una poesia scritta che una poesia letta; la sua qualità dipenderà dalla capacità di chi scrive nel tenere insieme tante cose e da quella di chi legge nel rintracciarle e rimescolarle per una propria personale “soluzione”. Quella della soluzione tampone, poi, è una definizione lessicalmente intrigante perché potrebbe stare a significare anche ….risultato temporaneo e dunque suscettibile di ulteriore evoluzione e trasformazione ed è inutile che vi ricordi che se avete letto, in periodi diversi della vostra vita, L'infinito di Leopardi le vostre reazioni non saranno sempre le stesse. Credo inoltre che la poesia sia, in termini assolutamente mondani, la forma suprema di eloquio umano e, in quanto tale, rappresenti lo scopo antropologico, o, se preferite, genetico della nostra specie. Ripeto: non si tratta di un semplice intrattenimento, una «lettura». Se il linguaggio ci distingue nella vita, la poesia ci impegna nella biologia e nella fisica in quanto è forma della materia che sostanzia se stessa. E questa potrebbe ben rappresentare una di quelle due o tre rivelazioni che ho avuto nella mia vita. Che cosa si sa dopo una rivelazione che prima non sapevi? Ecco, hai la certezza che stai facendo la cosa giusta. Dato che la conferma arriva da così lontano, è quasi – come dire? – avvertire che qualcuno si è dato la pena di istruirti dalle profondità dello spazio e del tempo. Comunque credo semplicemente che quando succede te ne accorgi. Non puoi negarlo. Cerchi di essere il più razionale possibile, ma non funziona. In realtà, credo che uno dei prerequisiti perché una rivelazione accada sia che…beh, di solito ti arrivano quando sei alla frutta. Un grande filosofo russo, Lev Šestov, sosteneva che esistono tre metodi cognitivi. Uno analitico, un altro intuitivo/sintetico e poi c’è il terzo metodo, quello, volendo, usato dai profeti e dalle incarnazioni divine, ed è la rivelazione. È un mezzo cognitivo anche questo. E secondo Šestov normalmente le rivelazioni si verificano quando la ragione viene meno. La grande virtù della poesia è che nel processo creativo usi tutte e tre queste modalità cognitive contemporaneamente, se ti va bene. Se gettiamo uno sguardo schematico sul mondo e sui vari popoli che lo abitano, vediamo che in Occidente al momento l’enfasi è sulla razionalità, sulla «ragione». Mentre in Oriente dominano la riflessività e l’intuizione. Il poeta, di suo, è l’esemplare più sano che possa esistere, perché è una fusione di queste modalità. Mi avvio a concludere questo viaggio, senza inizio e meta, con la poesia. La storia è testimone del fatto che in tutte le società i lettori di poesia non superano l’1% della popolazione. Un tempo i poeti erano costretti a gravitare intorno alle corti, sedi del potere come oggi gravitano intorno alle università, nei circoli letterari e nei lit-blog del web. Oggi dunque l’accesso alla poesia è, in pratica, geograficamente e storicamente, globale. Intanto però le radici della poesia sono sempre più profonde e lontane e se un contadino del Perù si arrischiasse - e oggi può farlo a differenza di ieri - a leggere i versi di un qualunque poeta moderno, non potrebbe che sentirsi perduto. A tale proposito mi sento di proporre un metodo per affrontare il viaggio nella e con la poesia. È un semplice espediente che ho illustrato il 18 Maggio del 1988 nella prima edizione del Salone del libro di Torino. Innanzitutto leggere poesia è il modo migliore per affinare un gusto letterario. La poesia, come ho già detto, essendo la forma più ricercata di espressione umana, non è soltanto il mezzo più conciso e più denso per trasmettere l’esperienza umana: essa offre anche i canoni più alti per qualsiasi operazione linguistica, specialmente per quelle che si compiono sulla carta. Qui non vorrei essere frainteso: non sto cercando di sminuire l’autorità della prosa. La verità è che la poesia, semplicemente, è più vecchia della prosa e quindi ha camminato di più. Come molti, credo che la letteratura sia cominciata con la poesia, col canto di un nomade che precede tutti gli scarabocchi di un sedentario. Permettetemi a proposito di scarabocchi, di disegnare la seguente caricatura, perché le caricature accentuano l’essenziale. Immaginate un lettore che ha entrambe le mani occupate a reggere libri aperti. Nella sinistra tiene una raccolta di poesie, nella destra un volume in prosa. Vediamo un po’ quale è il libro che lascia cadere per primo. Bene, tanto per cominciare, l’oggetto nella sua mano sinistra sarà, con ogni probabilità, più leggero di quello che il nostro lettore tiene con la destra. In secondo luogo, come disse una volta Montale, la poesia è un’arte inguaribilmente semantica e per questo l’eventuale cialtroneria, in poesia, è quanto mai limitata. Dopo tre versi il lettore sa già che cosa tiene nella sinistra, perché la poesia si rivela rapidamente e la qualità del linguaggio si fa sentire immediatamente. Dopo questi tre versi il lettore può gettare un’occhiata a ciò che ha nella destra. Se a questo punto gli accadesse di lasciar cadere questo libro, il merito, sarà dell’autore che stringe nella sinistra: vorrà dire che quella poesia ha davvero qualcosa da aggiungere a quel preciso istante e alla sua esistenza. Concludendo, la poesia (scritta o letta) ha un passato ricco, ogni poeta (lettore) aggiunge una tappa al suo cammino secolare. Il viaggio della poesia procede proprio come un treno in corsa. Non si sa dove sia nata, e certamente non se ne conosce la destinazione. Se saliamo in vettura durante il tragitto può accadere di essere seduti in un posto lontano dal finestrino. La reazione più naturale – la più immediata e diffusa – potrebbe essere quella di voler scendere al più presto. Ma il viaggio con la poesia deve tenere conto anche del prezzo del biglietto, della carrozza, del suo affollamento e dei compagni di scompartimento: magari resterete sorpresi proprio da piccole inaspettate rivelazioni; imparerete a cogliere segreti nel prestare ascolto e più attenzione a tanti piccoli particolari. E così piano, piano, comincerete anche voi a parlare, non fosse altro che per semplice reazione. Comincerete magari a chiedervi cosa mai vorranno dire questi semplici versi di un famoso haiku giapponese, quello della rana: lago vetusto/ una rana si tuffa/ rumore d’acqua/ e comincerete a …dubitare della vostra banalità nel giudicarlo banale. Magari comincerete a contare le sillabe e scoprireste così che sono solo 17, distribuite in due quinari e un settenario. Forse qualcuno dei viaggiatori che condivide il vostro stesso viaggio vi farà notare che la rana è un anfibio e che nelle culture antiche è un simbolo di rigenerazione. Rigenerazione: proprio quella sensazione che proviamo quando ci tuffiamo. Improvvisamente vi sorprendereste a pensare che la rana potrebbe invece rappresentare proprio la parola che si tuffa nella pagina per generare un suono. Un Do segnato sul pentagramma musicale che non si sente fino a quando non si suona! E ancora. La stessa rigenerazione, non potrebbe essere considerata una vera e propria reincarnazione? Dunque, il lago vetusto è il nostro corpo invecchiato e il rumore d’acqua la memoria di qualcosa, la rinomanza del nome, cioè quello che viene detto, suonato, interpretato, tramandato… E così via.
Insomma comincerete a scoprire quanto è piacevole condividere questo comune viaggio senza inizio e senza meta con un buon libro ben stretto nella sinistra.

domenica 7 novembre 2021

In viaggio con Brodskij: un monologo. Parte II

Molti pensano che la poesia abbia a che fare con l’inventiva, che debba cioè spingersi sempre oltre cercando forme nuove, sperimentando mezzi espressivi nuovi, servendosi di provocazioni e prove di abilità vocali, linguistiche, mnemoniche…Ma, di fatto, di forma ce n’è una sola e la crei con le parole e certe regole. Inoltre, gli schemi metrici non sono semplici artifici tecnici, sono formule magiche. I nostri corpi sono pentametri giambici, sono il blank verse inglese di Shakespeare, evoluzione dell’ endecasillabo italiano. Gli schemi metrici sono vere e proprie entità spirituali, in ogni caso, oggetti magnetici che attraggono o respingono. La nostra natura, la nostra cultura non viene da luoghi e posti precisi ma dalla lingua e dal respiro. È bene ricordare che i romani usavano il verso di quindici sillabe per i canti militari proprio per la loro peculiare scansione con le brevi e le lunghe che accordava la marcia dei legionari. Nel passaggio dal latino al francese e alle altre lingue latine è successo che quelle 15 sillabe si sono ridotte a 14, a 12 e poi a undici. Cioè l’alessandrino francese e i versi che ne derivano, fino all’endecasillabo, non fanno che ripetere il rumore dei passi delle legioni romane. Tutto questo per dire che non si può insegnare a scrivere una poesia (tutt’al più a marciare): puoi solo insegnare i trucchi tecnici per… vederci più chiaro, per illuminare, come un faro, tutto intorno, saltuariamente; per (ri)percorrere la scala delle cose e osservare le trasformazioni; dai triremi ai sommergibili, dai mari ghiacciati a quelli surriscaldati, dalle burrasche egee agli uragani mediterranei. Il fascio luminoso dà conto di tutto questo. Se volessimo parlare di un impegno civile del poeta bisognerebbe parlare di una poesia della civiltà e non c’è migliore poesia in grado di sostenere la civiltà di quella italiana.
Tanto per cominciare c’è Umberto Saba, un tradizionalista ma con tutta una serie di tranelli. Poi Giuseppe Ungaretti, che ha preso Mallarmé alla lettera e dunque non lascia troppe parole sulla sua pagina per via del…segreto. Poi, ovviamente, c’è Montale e Pavese (fondamentale per chiunque si occupi di poesia) e ancora Zanzotto e Penna. La poesia italiana, inoltre, va suggerita per le sue operazioni mentali e per la sua sottigliezza. Oltre alla raffinata educazione di stampo europeo che ricevono, i poeti italiani possiedono una esemplare familiarità con l’artificio e soprattutto con le …colonne che in Italia sono onnipresenti come gli alberi. Il risultato di questa situazione è che l’artificio è percepito come naturale, e viceversa, il naturale come artificio. Il punto è che l’Italia, nell’immaginario collettivo, fornisce sempre qualcosa a cui anelare; la sua, è una poesia dell’occhio affamato, una scrittura che adotta una sorta di estetica barocca della curiosità, grazie alla quale fra tante parole, formule e altari, tace l’essenziale che deve essere scoperto, a volte inventato e che, a conti fatti, induce a guardare più attentamente. La civiltà funziona così: per induzione. Se dovessi dare un consiglio a un giovane poeta gli direi di leggere le cose antiche. Penso che nessuno abbia il diritto di prendere una penna in mano senza aver prima letto Gilgameš. O di scrivere in inglese prima di aver declamato le Metamorfosi di Ovidio. E lo stesso discorso vale per Omero e Dante. Dal mio punto di vista la letteratura contemporanea è un effetto di quella causa antica. Se vuoi imparare a respirare e insegnare un ritmo al tuo orecchio e alla tua lingua devi leggere Orazio. Se vuoi imparare una struttura di pensiero simbolico e vedere come “lavora” la metafora per animare la mitologia devi leggere Ovidio: nella sua versione di Eco e Narciso, entrambi appaiono nell’acqua, ma Narciso la scaccia; e quando Ovidio ti racconta la sofferenza della ninfa…Non è che ti metti a piangere…O magari sì. Credo che a modificare l’attitudine o la percezione di certi fenomeni come per esempio “leggere” (vorrei dire fare) poesia è quella sorta di disposizione d’animo elevata, quella leggerezza della quale hanno parlato a più riprese Simone Weil e Italo Calvino. L’equivoco da evitare è pensare di essere più avanti di quelli che non ci sono più, in quanto rivendichiamo una presunta modernità. Leggendo gli antichi ci rendiamo conto che questa idea è completamente sbagliata. Potrà al limite essere vera se riferita alla tecnologia, ma rispetto alla poesia ne usciamo decisamente ridimensionati. Se fossi più giovane, scriverei un libro di imitazioni. È un mio vecchio sogno, fare una raccolta di riscritture, in particolare della scuola alessandrina, soprattutto di un tizio che è il mio preferito e che fu una vera e propria ossessione per Salvatore Quasimodo: sto parlando di Leonida di Taranto, un tipo pieno di immaginazione. Ma le cose belle nascono da una sorta di “intervento divino” e non ha senso preoccuparsi perché questo possa accadere o meno, non lo puoi controllare. Resta un segreto anche per te. Solo la possibilità di fare il male è sotto il nostro controllo. Uso il termine “intervento divino” come una sorta di metafora psichica ma quello che davvero intendo è l’intervento del linguaggio su ognuno di noi e in ognuno di noi. È come quel famoso verso di Auden su Yeats: la folle Irlanda ti ferì facendoti poeta. Ciò che ti ferisce e ti fa poeta è il linguaggio: non sono la tua filosofia personale o il tuo credo politico e nemmeno la tua spinta creativa o la giovinezza. Come ha più volte ricordato Auden, per essere poeta non devi usare le parole per dire qualcosa, ma ti deve piacere «bazzicare le parole, ascoltare quello che hanno da dire». Per questo al culmine della mia cosmologia metterei il linguaggio, questa entità grandiosa e misteriosa. Dire che il poeta «sente la voce della Musa» non ha alcun senso, a meno che non si specifichi la natura della Musa. E se andiamo a vedere, la voce della Musa è la voce del linguaggio. O forse sarebbe ora di riconoscere nel linguaggio, nel suo gene e nel suo genio, l’imprescindibile Musa che genera le nove conosciute. È tutto molto più terra terra di quanto non sembri: la poesia è la tua reazione a ciò che senti, a ciò che leggi. Oggi l’unica cosa che mi sorprende davvero è quanto spesso ci imbattiamo, nonostante le circostanze, in esempi di decoro e raffinatezza. Perché la situazione di base, presa nella sua totalità, non aiuta certo a comportarsi in modo decoroso o corretto. Non credo nelle infinite capacità della ragione o della razionalità. Mi affido alla ragione solo nella misura in cui mi conduce all’irrazionale, perché è a questo che la ragione, in fondo, serve: a portarti il più vicino possibile all’irrazionale. Poi lì ti abbandona. Per un po’ sei preso dal panico. Ma è lì che dimorano le rivelazioni. Non che tu possa andarle a prendere a piacimento. Ma nella mia vita due o tre rivelazioni le ho ricevute, o quantomeno si sono posate sulla soglia della ragione e hanno lasciato il segno. So bene che tutto questo ha ben poco a che vedere con qualsiasi impresa religiosa ordinata. Il punto è questo: se per me esiste una divinità , questa è il linguaggio.

giovedì 4 novembre 2021

In viaggio con Brodskij: un monologo. Parte I

Iosif Aleksandrovic Brodskij (Leningrado, 24 Maggio 1940-New York, 28 Gennaio 1996). I primi anni della sua vita coincidono con quelli della Seconda guerra mondiale e con l'assedio di Leningrado. Il padre, fotoreporter di guerra, è quasi totalmente assente durante l'infanzia di Brodskij. Terminato l'assedio, il giovane poeta e sua madre sono evacuati a Čerepovec per poi tornare a Leningrado nel 1944. Non ancora sedicenne, abbandona gli studi per lavorare come apprendista tornitore nella fabbrica Arsenal di Leningrado. Nel 1964 fu arrestato con l'accusa di parassitismo e condannato a cinque anni di lavori forzati. Rilasciato dopo 18 mesi tornò a vivere a Leningrado. Nel 1970 fu costretto dalle autorità sovietiche a emigrare. Si stabilì in USA, dove tenne corsi in varie università. Brodskij ha esordito pubblicando nel 1958 alcune poesie in una rivista clandestina. Venne subito riconosciuto come uno dei lirici più dotati della sua generazione. Ebbe il sostegno di Anna Achmatova che gli dedicò una delle sue raccolte (1963). Dopo il rilascio seguito alla prima condanna, si dedicò soprattutto alla traduzione di poeti inglesi (Donne, Hopkins). La sua raccolta di versi Fermata nel deserto, uscì a New York nel 1970 confermando il suo straordinario estro poetico. Dopo l'emigrazione tenne corsi in varie università e svolse ampia attività saggistica (Fuga da Bisanzio, 1986) e poetica ( Elegie romane, 1982). Nel 1987 fu insignito del premio Nobel per la letteratura, e nel suo discorso a Stoccolma individuò le radici della sua opera di classico contemporaneo in quattro poeti: Anna Achmatova, Marina Ivanovna Čvetaeva, Robert Frost e Wystan Hugh Auden. Nel 1991 fu nominato poeta laureato degli Stati Uniti. Morì nel suo appartamento di Brooklyn il 28 gennaio 1996. Innamorato dell'Italia, espresse il desiderio di venire seppellito a Venezia, città di acqua e canali come la natale Leningrado, e lì ha trovato per sempre riposo. ______________________________________________________________________________ Il “monologo” seguente, diviso in tre parti, è una libera rielaborazione delle lezioni e interviste rilasciate da Iosif Brodskij e pubblicate in Italia da Adelphi.
_____________________________________________________________________________ Sì è vero, prima di ricevere il premio Nobel per la letteratura sono stato in prigione. Per quale motivo? Non lo so e non me lo sono mai chiesto: forse per lo stesso motivo per il quale mi hanno conferito il Nobel. Si vede che sono cambiato e i cambiamenti spaventano. All’inizio ero considerato russo - da alcuni, non da tutti - ed ora sono diventato americano (per altri ma non per tutti). Allo stesso modo, pur essendo nato uomo, mi sono trasformato, secondo gli accusatori sovietici, in un parassita; in un grande poeta, invece, per gli accademici di Svezia. Per natura e per cultura cerchiamo sempre una causa dietro ogni fenomeno se non addirittura un vero e proprio complotto: c’è sempre qualcosa che sta dietro a qualcos’altro che è dietro a qualcos’altro ancora e così via. Alla fine, rendiamo tutto molto più complicato di quello che, nella realtà, è. Intendiamoci: a volte una causa c’è. Altre, nessuna o, viceversa, più di una. Per esempio potrei ripetere tutti i capi di accusa che hanno portato alla mia condanna ma la sostanza, almeno per me, è semplicemente questa: se ti dai da fare per creare o soltanto esplorare dentro di te un mondo indipendente, sei destinato prima o poi a diventare un corpo estraneo nella società e, dunque, a essere assoggettato a tutte le leggi fisiche che riguardano i rifiuti. Credo che il compito di un poeta sia di mostrare alla gente la visione reale della scala delle cose. In questo, l’attività di uno scienziato non si discosta molto da quella dell’artista: in tal senso un fisico è un poeta e viceversa! Questo spiega perché Osip Mandel’ štam una volta disse: «Dante può essere compreso solo con l’ausilio della teoria dei quanti»! Entrambi, fisici e poeti, questi creatori o esploratori di mondi, cercano di mostrarci la vita come una lunga catena e sono capaci di indicare con precisione quale è il nostro anello in questa catena. Per lo meno dovrebbero condurre ognuno di noi verso questa possibilità: riconoscere quale sia il proprio anello nella catena. In tutte le mie poesie ho in fondo ripetuto costantemente lo stesso messaggio: «sii tenace, persevera e resisti». Oggi tutto questo potrebbe essere inglobato nella parola resilienza. E la poesia, come le parole che la formano, è in fondo una soluzione tampone. In chimica una soluzione tampone indica un certo numero di sostanze tenute insieme seppur separate e distinte; così, oggi, la parola resilienza, per me, è il …versamento in un’unica soluzione di diverse sostanze distinte, in equilibrio tra loro, che si chiamano forza, recupero, perseveranza, fiducia, etc… La mia è una filosofia della sopportazione, tutto qua. Quando sei in una brutta situazione, hai due modi per uscirne: mollare tutto oppure…entrarci dentro per attraversarla. La “materia” di cui (ci) siamo fatti permetterà di resistere il più a lungo possibile e io cerco di resistere più di tutti. In una poesia del 1966 scrissi: …Che c’è dinanzi a noi?/ Ci aspetta forse un’era diversa?/ Se è così, quale sarà l’impegno collettivo?/ Cosa mai dovremo portarle in sacrificio? E vedo ora che questa èra diversa, è meno morale, più impersonale, oserei dire meno umana. Apparentemente tutto questo può essere raccontato solo da un verso libero perché questo nostro innominabile attuale, così variabile, relativistico e non gerarchico sembra proprio richiedere una forma altrettanto variabile, relativistica e anarchica. Ma la poesia non è solo l’espressione di sé o un elenco delle proprie impressioni o emozioni su ciò che ci accade. La poesia è anche un’arte che richiede pertanto una certa perizia tecnica. Parafrasando (ancora) Robert Frost, scrivere in versi liberi sembrerebbe quasi giocare a tennis con la rete abbassata. Cioè, non giocare propriamente a tennis. Perché è apparso il verso libero? Come conseguenza di una forma determinata, chiusa? Verso libero, libertà? Ma chi si è liberato e da cosa? Si è liberato, il poeta, da una specie di schiavitù? Per farlo dovrà pur aver sperimentato tale schiavitù; altrimenti non potrà riconoscere la libertà. E di quali libertà possiamo parlare se la libertà fisica è stata determinata dagli Stati, quella politica dalle dittature e persino quella religiosa è determinata, ad esempio, dalla legge del karma o dal giudizio universale? E, prima di tutto, la nostra libertà non è determinata forse dallo stato di salute? Comunque tornando alla poesia come maestria tecnica sia chiaro che il …campo da tennis in ordine è molto importante, ma quello che accade nella esperienza poetica è che uno ha due, tre versi, a volte una parola e un paio di altre idee che gli frullano in testa. Si mette lì, buono buono, cercando di riversare tutto su carta, ma mentre lo sta facendo succede qualcosa: il risultato finale della poesia non è quello che aveva previsto all’inizio. Eppure quegli elementi di partenza, i versi, la parola le idee, vi sono inglobati. Durante una delle mie ultime lezioni salutai i miei studenti con alcuni versi, per me molto significativi, di Wystan Hugh Auden: Vieni nel nostro allegro deserto/ dove anche le bambole battono/ dove i mozziconi/ diventano amici fraterni/ e dove sono sempre le tre del mattino. Una parola, due o tre versi e un paio di idee nella testa della più grande mente del ventesimo secolo. Ed è poesia.

martedì 26 ottobre 2021

Philip Morre: istantanea di Callimaco a Venezia

Iniziamo subito col dire che la poesia di Philip Morre (eteronimo poetico del traduttore inglese John Francis Phillimore) è una poesia felice perché se ne avverte la varietà, l’ironia, la generosità, la ricchezza di sentimento. Non sempre la poesia riesce a trasferire tutto questo: la maggior parte delle volte è proprio la monotonia, l’austerità, l’avarizia (ermetica) , l’obbedienza alla pesantezza quello che resta a chi legge o ascolta poesia. Questo finisce per impaludare, costringere e restringere qualunque presentazione poetica riducendola a un rituale mesto, fintamente lirico e sentimentale. Con John/Francis, sia nella lettura che nella presentazione dei suoi testi, questo non accade e la felicità alla fine prevale su tutto. Intendiamoci Morre, da buon poeta quale è, tocca le grandi questioni ma le insaporisce, addolcendole o inasprendole, di volta in volta, con le piccole questioni, cosicché la scala delle domande viene percorsa interamente passando da interrogativi di memoria salingeriana (“…dove vanno le anatre quando il lago gela?Gli ippopotami mangiano banane?) a quelli più propriamente classici (Dove risiede l’anima? Il sangue è una marea?) Come dice il poeta Patrick McGuinness, amico di John/Francis e prefatore di questa raccolta (F. Morre, Istantanea di ippopotamo con banane, nella lineare eleganza di carta e segno dell’edizioni di Andrea Cati), la poesia di Morre “…è cosmopolita e allo stesso tempo tipicamente profondamente inglese…Queste poesie, sull’invecchiamento, la malattia, la solitudine…l’affievolirsi degli appetiti…sono esplorazioni accuratamente modulate di ciò che è piccolo, comune, di ciò che passa e che è passato…”.
La capacità di espandere l’esperienza nel tempo (indietro e avanti) e a gli altri ( “soli insieme a noi”), credo, che sia una peculiarità del fare poetico di Morre. Un esempio su tutti per intenderci: Visto che il gregge ha occupato la strada/ tu spegni il motore e accendi una sigaretta,/ abbassi scrupolosamente il finestrino/ e la fai penzolare all’esterno come/ per ficcarla nell’occhio del montone capobranco.// Abbiamo un traghetto da prendere,/ eppure sembri indifferente, forse ti gusti/ il piccolo brivido di spingere al massimo/ le quattro miglia che costeggiano la baia/ e giù fino all’abbraccio quasi circolare/ del litorale del porto.// Così restiamo seduti, lo sguardo perso nella foschia,/ mentre la marea lanosa si frange coi suoi belati/ a destra e sinistra della Saab e il tempo si adatta/ all’andatura lenta del pastore che noncurante/ sfila dietro la prua del suo naso/ come un principe che nobilmente ignori un neo. [Pastorale pg. 27]. Questa apparente quiete istantanea, (quasi dormiente: non si contano le pecore per questo?) è il presagio di un ritardo che qui viene… anticipato. E dunque viviamo ora e qui il piacere di un brivido che non ci sarebbe senza questo istante e che non potrà essere provato se la sigaretta venisse fumata in fretta e se il tempo non venisse rallentato da un pastore-Mosé che governa indifferente la sua marea lanosa. Si noti l’ambiguità perfettamente calibrata fra il movimento e l’ atto, fra ciò che passa nella testa e quello che si vede: la gamma delle emozioni è così ampliata e rilanciata da piccoli, sapienti gesti reali (spegnere il motore, accendere una sigaretta, abbassare il finestrino…) e da altrettanti ipotesi ideali (dissimulata indifferenza, l’inevitabile accelerazione, la sfida contro il tempo…) e dunque siamo contemporaneamente fermi nella Saab ma anche agitati dalle curve dei prossimi tornanti fino al porto, siamo cullati nell’abitacolo della macchina e sbattuti tra le onde (di lana? Di mare?). Tra queste espansioni e dislocazioni di sentimenti ed emozioni nella poesia di Morre si avverte poi la marea…classica quella che segna “… il paese della mente …” , quel paese che, come ci ricorda ancora Patrick McGuiness , “…solo gli espatriati ricordano perché resta fissato al momento in cui l’hanno lasciato…”. John Francis Phillimore è nato a Londra ma ha vissuto per gran parte della sua vita in Italia, da ultimo a Venezia , dove per dieci anni ha tenuto una libreria di libri usati nel Ghetto. Ora nella sua poesia le coste e i contorni di questo paese mentale acquisiscono sonorità, colori e immagini tipicamente classiche e molto riconoscibili per noi italiani a cominciare dai suoi “tradimenti” (le mistranslations) da Callimaco, fino ai pamphlet su Fra Angelico e alle tante poesie che lo stesso poeta definisce “intraducibili”. E proprio nella sua nota d’autore John/Philip confessa: “…questa voluta imprecisione delle mie versioni inglesi è il pretesto per la loro traduzione in una terza lingua…” Una confessione che rende ancora più apprezzabile il lavoro di traduzione fatto da Giorgia Sensi che ha curato la resa in questa “terza lingua” di Istantanee di ippopotamo con banane.

giovedì 21 ottobre 2021

Il Salone nell'arca

La mia amica Marcella Nigro, scrittrice e giornalista di Radionoff, mi ha inviato un breve resoconto sul Salone del Libro di Torino paragonandolo a una grande ...Arca.
"Entrare al Lingotto, durante Il Salone Internazionale del Libro a Torino è come entrare nell’arca, ma non in quella di Noè, che accolse una coppia di entrambi i sessi per ogni specie animale, bensì un’arca che “abbraccia” e “protegge” tutti noi reduci dalla pandemia da Covid-19 che abbiamo imparato sulla nostra pelle cosa significhi “fare assembramento” e per questo motivo vietato, ma che non vediamo l’ora di abusare, finalmente, anche dell’ultimo dei nostri cinque sensi: appunto, il tatto. Ma l’essere umano ha un’indole indomita, complessa, dalla memoria corta e, permettetemi, “ignorante”, si, nel senso che ignora. Ignora e finge di non ricordare le piaghe, le sofferenze, le tragedie che costellano la nostra storia millenaria, che, spesso e volentieri, sono nate proprio a causa nostra, per ultimo: lo scempio che stiamo compiendo nei confronti della natura, nonostante da decine di anni continuiamo a riempirci la bocca con parole che inneggiano a un futuro eco sostenibile. Io che sono stata in questa grande Arca, ho realmente vissuto la gioia e la curiosità di essere “sommersa” da libri, autori ed editori, in un vero e proprio abbraccio di parole; e il libro che ancora dovrà essere scritto è qui, sotto le mie mani, stretto tra le mie dita: come sarà? Sarà diverso, ma sempre uguale, travolgente ma rasserenante; mi trascinerà via con sé, vicino o lontano, poco importa, attraverso la fantasia che sgorga dalla mia esperienza, dalla mia quotidianità per giungere fino a te, che mi stai leggendo, avido e bramoso di saperne di più, ancora e ancora…" [Marcella Nigro].
Questo breve e puntuale reportage e la presenza di tanti giovani al Salone (Arca) hanno ispirato il seguente Post. I libri sono oggetti finiti che non finiscono mai di scorrere. Una specie di nastro di Möbius in quanto insistono su due facce del tempo e dello spazio. Questi piccoli parallelepipedi di parole prolungano l’esistenza di un’autrice o di un autore oltre il limiti che la natura ha loro assegnato compreso un futuro che non hanno potuto misurare. Oltre a questo, aiutano il lettore-viaggiatore a misurare e misurarsi il presente… addosso. Al Salone del libro di Torino si ha la sensazione del viaggio amplificata a dismisura nel tempo , come se il Lingotto contenesse un’enorme arca (o viceversa): gli autori sono tutti presenti, quelli del passato e quelli del presente. E il futuro (la fine del diluvio) sembra, qui, più afferrabile che altrove e già ora. Chi ha detto che la lettura è una immortalità all’indietro poteva spingersi oltre grazie a uno dei tanti nastri di Möbius e assegnare ai libri, e in generale alla cultura, anche un valore taumaturgico se non proprio vaccinale a garanzia della nostra salute individuale e quindi di un’immortalità di specie. E dunque fra tutti i libri presenti e gli autori intervistati vorrei parlare del libro che ancora non c’è, quello che cioè verrà scritto e che raccoglierà i frammenti del viaggio che abbiamo fatto insieme nel lungo periodo di diluvio pandemico. È un libro che potrebbe scriversi con le parole pronunciate da Albert Camus nel suo Discorso del banchetto del 1957. Parole così lontane ma tanto, tanto più vicine di quelle di autori e autrici attualmente in classifica. È il nastro di Möbius che continua a scorrere da La peste dello scrittore francese e non smette di attraversare il tempo occupando lo spazio che gli spetta anche in quest’arca piena di memoria e di vita. «…[Sono] un uomo che ancora può dirsi giovane, ricco solamente dei propri dubbi e di un’opera tutt’ora in cantiere, abituato a vivere…nei ripari dell’amicizia [ e in un clima] nel quale altri scrittori sono ridotti al silenzio e il suo Paese sta vivendo una sventura incessante…Ho conosciuto questo [vostro] smarrimento e questo [vostro] turbamento interiore e per ritrovare pace mi è stato necessario fare i conti con un destino troppo generoso. E poiché non potevo farlo appoggiandomi ai miei soliti meriti, per aiutarmi non ho trovato altro che ciò che mi ha sostenuto lungo la mia vita intera e nelle circostanze più avverse: l’idea che mi sono fatto della mia arte e del ruolo dello scrittore...». E mentre l’arca nel Salone (o il Salone nell’arca?) si riempiva di giovani, le parole di Camus risuonavano e si ripetevano a nastro: «…Ogni generazione, senza dubbio, si crede votata a rifare il mondo. La mia, tuttavia, sa che non lo rifarà. Ma il suo compito è forse più grande. Consiste nell’impedire che il mondo si sfasci. Erede di una storia corrotta in cui si fondono le rivoluzioni fallite, le tecniche impazzite, gli dèi morti e le ideologie estenuate, in cui poteri mediocri possono distruggere ogni cosa ma sono incapaci di convincere, in cui l’intelligenza si è abbassata al punto di farsi serva dell’odio [e dell’egoismo]…Davanti a un mondo minacciato di disintegrazione, dove i nostri grandi inquisitori rischiano di stabilire per sempre i regni della [estinzione], la nostra generazione sa che dovrebbe, in una sorta di folle corsa contro il tempo, restaurare tra le nazioni una pace che non sia quella della servitù, riconciliare nuovamente lavoro e cultura, e ricreare insieme a tutti gli uomini un’arca di alleanza…». Un’ arca. Un’arca piena di memoria, generazioni e di vita. Un’arca pronta ad ospitare un altro libro… da scorrere, un altro nastro di Möbius da srotolare. Il libro che non c’è ancora e che verrà scritto magari da una|uno fra le|i seimila lettrici|lettori nati nel XXI secolo che in più di 170 scuole, distribuite in 18 regioni italiane, hanno letto La peste di Camus. Proprio mentre intorno a loro infuriava la nuova peste. Verrà scritto questo nuovo libro e parlerà del coraggio e della capacità di mettere da parte l’egoismo, il proprio particolare, in vista di un orizzonte più largo nello spazio e più profondo nel tempo. Sarà, forse, un nuovo romanzo, un saggio o una raccolta poetica di certo sarà un parallelepipedo di parole che parleranno dell’inclinazione incorreggibile degli esseri umani a negare un’evidenza prima di esserne toccati direttamente; sarà un parallelepipedo di storie che racconteranno come si fronteggia, nella calamità, il meglio e il peggio degli umani e come nessuna apocalisse riuscirà a togliere la disposizione all’amore, all’amicizia, alla voglia di cantare e di contare. Sarà un libro che nel futuro restituirà questo presente che è stato sottratto a tanti perché da quest’arca si avverte che c’è (ci sarà) un Paese che non trova spazio nelle cronache, nei notiziari, nelle interminabili ed estenuanti maratone di “protagonisti”, nelle prese e nelle vite in diretta, in arene circensi tra pigli gladiatorî. Ci sarà (perché c’è) un Paese fatto di persone coraggiose, responsabili e oneste ma non eroiche perché «…non [bisogna credere] all’eroismo, so che è fin troppo facile e ho scoperto che uccide. [A noi] dovrebbe interessare che tutti [donne, uomini,…TUTTI] vivano e muoiano per ciò che amano.». Forse un libro così che proprio in questo momento si sta scrivendo, come un vero e proprio nastro di Möbius, potrebbe incidere anche su questa parte di tempo e ricevere da noi un aiuto per essere presentato in uno dei prossimi Saloni. Una volta scesi tutti dall’arca.

lunedì 13 settembre 2021

Le Poesie Imagiste di Hilda Doolittle

Nel gennaio del 1913 sulla rivista statunitense Poetry apparvero tre poesie firmate H.D., imagiste. Le tre composizioni erano state inviate pochi mesi prima da Ezra Pound alla direttrice della rivista, Harriet Monroe, accompagnate da un biglietto di accompagnamento che diceva più meno così: “È nel tipico discorso laconico degli Imagisti…Nessuno scopo, andare dritti al sodo, nessuno eccesso di aggettivi. Evitare metafore che si rendano impossibili a un esame. È un parlare dritto – dritto come il greco!”. Lo stesso termine Imagisme fu coniato da Pound proprio per descrivere una qualità della sua amica d’infanzia, Hilda Doolittle, H.D. che pensava e scriveva per “immagini”. Hilda divenne H.D. anche grazie a Ezra che la incluse tra gli Imagisti trasformandola quasi in una specie di griffe del movimento. Hilda Doolittle era nata il 10 settembre 1886 a Bethlehem, in Pennsylvania, unica sopravvissuta di cinque fratelli. Il padre, professore di astronomia e legatissimo alla sua unica figlia, disapprovò il fidanzamento della sedicenne Hilda con Ezra Pound che a lei dedicò numerose poesie d’amore. H.D. e Ezra Pound fecero parte di quegli scrittori americani che all’inizio del 1900 scoprirono …l’Europa e che qui trascorsero la maggior parte della loro vita pubblica e privata. Come poetessa H.D. alternò la Grecia al Giappone, potremmo dire Saffo a Hokusai: nell’imagismo sono le immagini ad essere cesellate con rigore scultoreo nel verso e, probabilmente, la famosa onda del maestro giapponese rende appieno lo spirito ( e la difficoltà) di tradurre immagini, così “nitidamente intagliate”, in parole altrettanto nette e per certi versi spietate. Hilda Doolittle, in Italia, è pressoché sconosciuta : Massimo Bacigalupo ha curato per Archinto Fine al tormento: ricordando Ezra Pound; nel 1986, per Lucini Mary de Rachewiltz collezionò un tributo dal titolo H.D. e l’editore Raffaelli ha editato alcuni libri in lingua originale. Nel 2006 l’editore Liguori pubblica Visioni e proiezioni a cura di M. Vitale e nel 2016 Iacobelli editore pubblica la traduzione de Il dono, il romanzo scritto in prima persona che la stessa autrice definì "quasi autobiografico”. Oggi dopo 60 anni dalla sua morte avvenuta a Zurigo, Interno Poesia ci consegna le Poesie Imagiste di Hilda Doolittle nella traduzione di Giorgia Sensi.
La raccolta oltre che avvalersi di una nitida traduzione della Sensi che restituisce alle parole della Doolittle le sue immagini, si arricchisce di un prezioso saggio breve della traduttrice nel quale si traduce e …si ”tradisce” un'autentica passione per questa poesia indispensabile e ridotta alla sua purezza. Nella traduzione la Sensi ha pienamente rispettato l’urgenza del sentimento che secondo la Doolittle doveva venire perfettamente rappresentata dal linguaggio dove tanto i verbi che i sostantivi venivano messi al servizio di un'essenzialità di segno che non può e non deve cedere spazio ad alcuna notazione superflua. Per fare un esempio: in una delle poesia più famose di H.D., Oread, la Sensi riesce a restituire in ogni verso la propria immagine conchiusa e nel ritmo, che viene conservato nel passaggio da un rapido crescendo a un improvviso arresto, riesce ad evocare la furia dell’onda che dopo essersi gonfiata si abbatte nel silenzio [Turbina, mare –/ turbina i tuoi pini appuntiti,/ schizza i tuoi grandi pini/ sui nostri scogli,/ gettaci addosso il tuo verde,/ coprici con le tue pozze d’abete. ] La neutralità dello sguardo della Doolittle, come richiesto dalle regole imagiste, implicava la capacità di rendere, attraverso perizia poetica, l’invisibile movimento originario della natura. È probabile che la Doolittle nel comporre Oread avesse ben presente l’immagine dell’onda pietrificata di Hokusai; immagine chiara ma allo stesso tempo paradossale per esprimere il movimento. Quel particolare gioco di pieno e di vuoto - onnipresente nelle immagini giapponesi ma anche in quelle greche - dà figura al movimento ritmico della natura, a un flusso di ascesa e ricaduta che se è inscritto in tutte le cose può in-scriversi anche nella poesia. Era questa la lezione di H.D. e che oggi, grazie a Interno Poesia e a Giorgia Sensi, ci viene restituita intatta.

mercoledì 1 settembre 2021

Quando le donne suonavano i tamburi

Questa estate il mondo, per me, si è fatto cosmo grazie a una “donna che suona il tamburo”. Mettere ordine da sempre è stata una faccenda da donne. Non equivocate. Mi spiego. Mettere ordine vuol dire misurare e misurare implica il concetto di numero ovvero di entità che possono essere sommate o sottratte e che procedono in un ordine progressivo. Quando, come esseri umani, prendemmo coscienza che i numeri potevano esprimere lo scheletro del mondo, pervenimmo a una scoperta (invenzione?) che ha avuto un effetto maggiore di qualunque altra scoperta: il mondo cessava di essere semplicemente un mondo e diventava un kosmos, un insieme misurato ed ordinato dotato di senso e significato. Le donne , da sempre, sono state le depositarie naturali di questo potere di trasformare il caos in cosmo. Quando ho cominciato a leggere le poesie di Antonietta Gnerre contenute nella sua ultima raccolta, Quello che non so di me, il tamburo, per così dire, ha cominciato a battere e il disordine attuale ha lasciato uno spazio, seppure piccolo ed estivo, a un ordine dotato di senso e significato.
Vedi, l’Irpinia somiglia all’universo./La misuro con le imposte delle case distanti,/….Ecco, l’istante comprende ciò che siamo stati,/la resa degli anni che si riorganizza/…(pg. 17). È nella Misura dei nomi, nella prima sezione di questa raccolta, che Antonietta si presenta come donna che suona il tamburo e che mette ordine. Più e più volte questa generosità gratuita e spontanea di dare senso e significato attraverso una misura di nomi e cose, emerge chiara nella poesia di Antonietta. Si presenta immediatamente, questa generosità, fin dall’inizio, da quel… cercare nel tempo della semina le tracce confuse delle volpi (pg. 19); si ripete nel mostrarsi ancora nel…bacerei tutte le foglie che ho visto cadere (pg. 24). E così via, viene ribadita nel corso di tutta la raccolta a dimostrazione di quella coerenza e compattezza segnalata da Alessandro Zaccuri nella prefazione. Misurare, dunque contare, per fare. Così anche un semplice poggiare le mani sui muri caldi dell’ultima estate…serve a misurare chi siamo (pg. 31). Vi è una consapevolezza discreta ma profonda in questo generoso… fare: sai, siamo qui per misurarci nelle cose create/per imparare a numerare le noci,//come fanno i contadini./O a portare via i dolori dalle pietre(pg. 49). E così, pagina dopo pagina, poesia dopo poesia, verso dopo verso, Antonietta conta e racconta dell’universo (o dell’Irpinia, ma a questo punto , avrete capito, non ha importanza), la posizione esatta di tutti gli alberi(pg. 51). Tocca a noi a questo punto …impastare i suoi pensieri, cioè ascoltare il …numero, il suono, il ritmo del…tamburo. Quello che di noi non sappiamo (o abbiamo dimenticato) "ha contato tutte le mani che hanno lavato le lenzuola. E le cose ferme a terra… (e son solo)… tra gli abbracci delle piante e delle stelle”. Quello che di noi ha prestato attenzione è riuscito a tenere conto di tutte quelle cose emerse da millenni e che sono giunte qui e ora tra le pagine di una “semplice” raccolta. Il raccolto. Per millenni i tamburi sacri del Mediterraneo precristiano e dell’Asia occidentale sono stati suonati da donne, da sacerdotesse che erano custodi delle tradizioni spirituali delle prime civiltà e detenevano le chiavi per sperimentare il divino grazie alla … misura e al ritmo. Queste donne sapevano molto bene che il terrore che nasce dal caos poteva essere controllato: osservare le fasi della luna è stato il più antico modo di segnare il tempo. Se il sole stabilisce il ritmo quotidiano, il crescere e il calare della luna furono lo strumento naturale per misurare cicli settimanali, mensili, vitali. Sul ritmo …femminile era basato un calendario lunare precedente di circa 15.000 anni lo sviluppo dell’agricoltura. La più antica radice indo-ariana collegata ai corpi celesti è quella che significa “luna”, la radice “me” che in sanscrito diventa “mami”: io misuro. A questa stessa radice è collegato anche il termine “metra” che vuol dire matrice , utero e per traslato, madre, origine di qualcosa. Così la corrispondenza, anzi la simmetria cioè la commensurabilità, tra mettere ordine e creare è definitivamente stabilita tanto da mostrarsi nel modo più concreto possibile nella coerenza, appunto, e compattezza della Poesia di Antonietta Gnerre, una di quelle donne sapienti, che nel mondo greco sarebbero state definite pharmakeutriai, ovvero inventrici di farmaci e di rimedi salutari . Una di quelle Madri (mātrā) che al suono di un tamburo è in grado di misurare (metron) e di creare un cosmo. Anche per un breve e minuscolo spazio estivo. Riferimenti - Antonietta Gnerre, Quello che non so di me, Interno Poesia Editore, 2021; - Layne Redmond, Quando le donne suonavano i tamburi, Venexia, 2021; - Giorgio De Santllana, Hertha von Dechend, Sirio, Adelphi, 2020; - Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, 2008; - Ananda Ketish Coomaraswamy, La tenebra divina, Adelphi, 2017.

sabato 24 luglio 2021

TRA la parola e il mondo

Non è bello autocitarsi ma lo faccio esclusivamente per riaffermare un…compiacimento di specie e poi perché credo che la poesia sia un indecifrabile fenomeno di citazioni astronomiche, geologiche, biologiche e biografiche. In una mia precedente recensione sulla poesia di Angelo Andreotti, poeta del quale continuo ad occuparmi anche qui di seguito, ho “presentito”, per così dire, il titolo della sua nuova raccolta: “…possiamo immaginare un mondo senza luoghi…ma è difficile immaginare un mondo senza lo scorrere del tempo anche se questo fluire …è assente alla descrizione del mondo. Questo flusso non può essere descritto, studiato, interrogato ma solo mostrato e uno dei modi per farlo è quello di mischiare le parole al mondo…” Il poeta è colui che sta tra parola e mondo; è cioè l’individuo della specie umana che in questa confusione, anzi: tra queste confusioni (le parole da una parte e tutto ciò che accade dall’altra) sta sulla superficie che le separa. Come un faro nel suo calmo fermento di nebulosa iridiscenza che nulla indica e nulla dice ma mostra. Nel Prologo dell’ultima raccolta di Andreotti, Tra parola e mondo (Manni Editore 2021), c’è questa immagine del faro che ancora una volta mi rafforza nell’idea che il poeta, dalla sua posizione più o meno privilegiata, più o meno scomoda, invia sempre lo stesso identico messaggio iridescente e, se volete, sonoro, per gettare luce (e suono) sulle trasformazioni che accadono intorno a lui.
Da questo discende il mio personale compiacimento di…specie per l’autocitazione: bazzicando da tempo le parole di Andreotti nel loro precipitare da un tempo e da un ritmo comune, mi piace confermare la presenza nella nostra specie di individui che ci riportano, “naturalmente”, tra i boschi, per terra, nelle caverne: Nel bosco i rami, già dal primo autunno,/schiudono il cielo con dita ritorte./La terra stringe alle radici gli alberi/ma le radici obbediscono al sole/...[pg.9] Gli individui di questa specie, i poeti, vivono ancora -metaforicamente parlando, s’intende - nelle caverne dove il pavimento è la terra stessa. Le pareti e il tetto sono la terra stessa. Vivere in una caverna è vivere NELLA terra non SU DI ESSA : Alla terra ai tuoi piedi tu chiedi/se quando sei a occhi chiusi/tra le palpebre serrate e buie/fuori il tempo rimuove le cose./ [pg. 31] Dalla terra il poeta trae nutrimento così come fanno le piante che crescono nelle vicinanze e gli animali che vagano nei pressi o il povero vagabondo in cerca di riparo. Dalla bocca della caverna (porta bianca) si vede il mondo reale e non un’immagine di esso. A volte si traccia un segno sulle pareti delle grotte, non per rappresentare paesaggi ma figure di sé, dei propri cari, degli antenati, degli spiriti. Proprio nel cuore della grotta, il fuoco-nel focolare-è una fonte non solo di calore ma di vita stessa. E a livello sonoro, la grotta risuona dei rumori del mondo. Così la grotta non è un contenitore della vita più di quanto lo sia il nostro corpo. Non viviamo all’interno del nostro corpo, ma - nel respirare, nel disegnare, nell’ascoltare, nel…mangiare- raccogliamo continuamente e alternativamente il mondo in noi stessi e del mondo ci liberiamo: .../l'insaziabile lingua del mistero/che è radice occulta nella notte,/voce che alla terra lega il cielo./... [pg. 43]. Evidentemente tutto nasce NEL suolo e non SU DI ESSO. Il poeta questo lo sa e ciò che …conta per una pianta, conta anche per lui, individuo nella caverna: avere accesso all’energia solare, alla luce! ...., chiedi,/come la luce invernale chiede/il colore delle cose al sole./[pg. 50] Questo aspetto dell’esperienza poetica viene sempre “evidentemente nascosto” da Andreotti ma, per fortuna, è già stato così vividamente evocato e descritto da Paul Klee: “Il seme mette radici, la linea dapprima si dirige verso la terra non per viverci ma per ritrarne energia onde emergere…”. eppure/inerpicandosi lungo il cielo/spalancò ariose lontananze, larghe/vallate percorse dal vento./...[pg.63] È il TRA tra la parola e il mondo, è questa la poesia perché la "pianta" è DELLA (e non SULLA) terra che è anche del cielo. È grazie a questa esposizione al mondo che la parola continua a esplodere non distruggendo, perforando una superficie bensì creandola. Ciò che il poeta pur non conoscendo ( o forse proprio per questo) crea è posto su questa superficie che separa parola e mondo. Ciò che distingue Questo individuo della specie non è la ricchezza o la povertà del suo vocabolario; non è la sua maggiore o minore conoscenza delle cose che accadono nel mondo; non è la perfezione o imperfezione dei suoi versi. No. Ciò che distingue il poeta è la sua attenzione agli stimoli anche a quelli più apparentemente insignificanti: una bambina che si scusa per averti urtato; un fiore che si schiude in questo istante; un orto di passeri e merli; una nebbia che fluttua l’orizzonte. La differenza dunque non sta in quanto si conosce ma...quanto bene. Mi appoggio a terra che odora di argilla,/tra ortiche e gelsi, sambuchi e tarassaco./Qui distinguo i colori sfuggenti,/i rumori infrattati in cespugli/così fitti da togliere il passo./Qui torno ogni tanto poiché/tutto ciò che il tempo mi ha perso/lo ritrovo nel tempo che mi ospita./ [pg.115]

giovedì 15 luglio 2021

Sono vasto, contengo moltitudini

Dopo aver letto il suo I poeti del sogno, (Inschillobeth , Roma 2020), l’autore, Antonio Fiori, è diventato, almeno per me, un chiaro e lampante esempio di mimetismo antropologico. Dunque un esempio perfetto anche della mia (nostra) identità.
Prima però facciamo un passo indietro all’epoca della… civiltà delle macchine. Nel settembre-dicembre 1977, sollecitato da Leonardo Sinisgalli, Italo Calvino scrive per il numero XXV della Civiltà delle macchine , la rivista creata dal poeta-ingegnere lucano, un pezzo dal titolo, appunto, Identità. “A scrivere sono io, certo, - scrive Calvino – “ma in questo io bisogna riconoscere la parte che ha il fatto che sono un bianco eurocentrico petrolifago e alfabetifero, perché se appartenessi a un altro tipo di cultura, con o senza scrittura, con ordinamento tribale o di clan, praticante culto vegetale o animale o degli antenati patrilineari o matrilineari, allora quello che scrivo dell’identità sarebbe completamente differente”. Calvino centra qui perfettamente l’aporia insita nel termine identità e nella sua stessa definizione e, in pratica, anticipa o se volete sintetizza, a modo suo, tanta antropologia su questo tema. Ad un certo punto scrive: “diciamo dunque che le condizioni necessarie dell’identità sono due: prima che io sia in grado di ripetere un’esperienza, sapendo di ripeterla, per esempio riconoscermi guardandomi allo specchio; seconda che gli altri siano in grado di capire da una volta all’altra che io sono sempre io”. Nel nostro mondo, “certezze” di questo tipo sono sempre più minacciate sia per la “difficoltà di guardarsi allo specchio e riconoscersi”, sia perché di altri ce ne sono molti di più e ne percepiamo come non mai la moltitudine. E più queste certezze si fanno labili più si sviluppa in noi una sorta di retorica dell’identità che ci fa dimenticare come ciò che definiamo Identità sia in effetti la risultante di un incontro con altri, di una contrapposizione ad essi ma anche di una mescolanza. Paradossalmente proprio in un momento storico nel quale motivazioni ideologiche, sociali, politiche e pandemiche spingono verso una riedizione di nozioni chiuse ed immobili, l’antropologia ha dimostrato in modi rigorosi e incontrovertibili che le identità di gruppi, popoli, etnie e personali non esistono in sé e per sé , ma si formano, si sviluppano e decadono in base e in funzione di continue contaminazioni, di intrecci complessi e di interazioni multiple, in modi e tempi caratterizzati da variabilità complessa. Si pensi a come il cambiamento climatico e la pandemia modificheranno (o hanno già modificato) le nostre identità. A questo punto potremmo anche noi, come ha fatto Calvino, lasciarci suggestionare dallo strumento più raffinato per definire questa benedetta identità . Una popolazione di agricoltori del Burkina Faso, i Samo, ritengono che l’identità di una persona sia costituita da nove componenti: 1) il corpo che si riceve dalla madre, 2) il sangue che si riceve dal padre, 3) l’ombra che il corpo proietta, 4) calore e sudore, 5 il respiro, 6) la vita, o meglio, una particella della vita, che è una entità in cui tutti gli esseri sono immersi, 7) il pensiero, suddiviso in intendimento e coscienza, 8) il doppio, che è la parte immortale, che può compiere e subire le stregonerie, 9) il destino individuale. A questi nove elementi bisogna poi aggiungere quattro attributi: il nome, l’omonimo soprannaturale, il segno dell’eredità e la presenza di una coppia di geni. Così gli elementi in gioco a definire una identità diventano 13-14 e collegano praticamente un singolo individuo all’umanità e all’universo. Possiamo allora ancora meravigliarci dei sotterfugi letterari come quelli cosiddetti di eteronimia o pseudonimia? Quei casi nei quali l’autore inventa (o scopre) un autore fittizio (o pseudoautore), che, nonostante la dimensione immaginaria, possiede una sua precisa personalità? Si pensi al filosofo Soren Kierkgaard o, al caso più rappresentativo tra i poeti, il portoghese Fernando Pessoa che aveva almeno altre quattro personalità letterarie (alias Álvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro, Bernardo Soares). O ancora, si pensi, a Elisa Sansovino alias Beppe Salvia. Gli eteronimi, come si sa, differiscono dagli pseudonimi perché questi ultimi sostituiscono il nome di un autore reale, che rimane così sconosciuto. Gli eteronimi invece coesistono con l'autore, e ne formano una sorta di estensione del carattere ( dei suoi desideri); sono personaggi completamente diversi che sembrano vivere di vita propria, scrivendo spesso con parole, metri e stili differenti da quelli dell'ortonimo (che è l’autore: vero e proprio fingitore!). E arriviamo a noi, al nostro Antonio Fiori visto come l’esempio più trasparente, un “gioiello” luminoso in grado di riflettere tutto quanto abbiamo detto su questa luce abbagliante dell’identità. Già nel suo famoso verso, Walt Whitman disse e contemplò tutto quanto: “Sono vasto, contengo moltitudini”. Nella operazione di Antonio Fiori, nel suo I poeti del sogno, questo verso si manifesta nella sua praticità: la poesia è vasta, contiene moltitudini di generi, poeti, epoche e lingue; di sangui che si sono mischiati nel corso della evoluzione della specie; di culture che si sono contaminate vicendevolmente; di parole, versi suoni e significati che hanno seguito orbite cometarie a volte così iperboliche da non poter rientrare a terra. Fiori nella sua (“nostra”) antologia poetica si veste e si traveste (o meglio sarebbe dire : si versa e si riversa) cercando di non dare nell’occhio. Attraversa le frontiere. Si ferma. Prende fiato e riparte. Si diverte a scivolare camuffato tra strade che hanno vissuto secoli, tra vite esaurite in un verso. Quasi ci invita a chiederci quello che si è chiesto lui nell’affrontare l’opera: “Come sarebbe stato se invece di travestirmi da Lucio Faleno, da Estella Ruiz Blanco, da Jules Tassard fino a Silvestra Bonetti e Kevin Stafford , avessi optato per travestirmi da Donato Angeli o addirittura restare vestito proprio da… Antonio Fiori?” Già, come veniamo osservati dagli altri. Ecco quello che ci sfugge: di quale luce ognuno di noi rifulge realmente. Ecco dove è la vera identità del poeta, dove si nasconde la vera poesia! Antonio Fiori non ce lo dice ma lo mostra al pari di quel gioiello della tradizione orientale la cui luminosità non dipende da una propria luce interna, ma da una… perfezione raggiunta, da quella capacità cioè di riflettere la luminosità della moltitudine di gioielli che lo circondano; ovvero più prosaicamente, l’identità può essere considerata equivalente al nodo di un tappeto, la cui esistenza dipende dai fili che lo compongono e che lo connettono agli altri nodi; ovvero più “scientificamente”, l’ identità può essere paragonata a un a-tomo che, come la fisica moderna ci ha svelato, contiene moltitudini. Proprio come un poeta.

martedì 22 giugno 2021

I poeti del Sogno e i sogni del Poeta

La poesia emerge dove meno te l’aspetti ma c’è un luogo, eminentemente favorito, per questa…apparizione ed è il sogno. Si racconta che il primo poeta anglosassone imparò l’arte del canto in sogno. Caedmon era un pastore analfabeta che a mala pena parlava. Ogni volta che durante un festeggiamento intorno al fuoco si decideva che si dovesse cantare una canzone, Caedmon, si tirava indietro con la scusa di dover badare al gregge. Una sera dopo cena qualcuno gli passò l’arpa e lui, più imbarazzato del solito, scappò in una stalla. Qui si addormentò e fece uno strano sogno. Una figura misteriosa, probabilmente un messaggero divino, gli apparve e gli disse “Devi cantarmi qualcosa”. Caedmon nel sogno gli rispose: “Non ne sono capace. Per questo ho preferito nascondermi qui , piuttosto che stare con i miei amici ad ubriacarmi intorno al fuoco”. Ma l’angelo (o il demone) lo incalzò chiedendogli di cantare e Caedmon spazientito e allo stesso tempo intimorito da questa figura domandò: “Ma dimmi. Cosa devo cantare?” Questo episodio mi è tornato alla mente leggendo il libro di Antonio Fiori , I poeti del sogno. Piccola antologia (Inschibboleth, Roma, 2020) che è una sorprendente antologia di poeti di diverse epoche che nel corso della storia hanno ricevuto tutti lo stesso identico sogno. Tutti, a cominciare dal primo poeta antologizzato, Lucio Faleno Magno con alcuni suoi fragmenta dell’età augustea, fino all’ultimo, il ligure Gherardo Finzio laureato in architettura e praticante presso lo studio di un giovane Renzo Piano, tutti e dodici questi poeti hanno fatto quello stesso sogno: un misteriosa figura, percepita come un angelo ( o un demone), che riferisce loro lo stesso (incomprensibile) messaggio. Nei versi dei poeti antologizzati non vi è ovviamente alcun riferimento al sogno, ma Fiori nella sua appassionata e appassionante “ricerca”, ricostruisce le vite di questi poeti e stabilisce per ognuno, attraverso cenni biografici, documenti apocrifi, aneddoti, la pertinenza dell’accaduto, di un sogno che in un modo o nell’altro ha decisamente influenzato la vita dell’autore. Le testimonianze e gli stessi testimoni riportati da Fiori nelle biografie dei poeti sono tutti autentici e documentabili. Gli amici dei poeti, alcuni avversari o peggio, artisti invidiosi del successo o della bravura del poeta, sono personaggi realmente esistiti. Chi davvero non esiste nella realtà di questo libro è il Poeta o meglio, paradossalmente, ne esiste solo uno: Antonio Fiori. Già perché gli autori di questa suggestiva antologia metaletteraria sono tutti inventati , creati dall’unico artefice che così senza nulla fare, fa. Decidendo con quest’opera di “sparire” come poeta, di confondere ogni traccia letterariamente rilevabile della sua presenza ( i testi sono così vari e filologicamente corretti per l’epoca di ogni singolo “autore”, da “non essere” testi di…Antonio Fiori), l’autore sembra porre la domanda che aspetta una ineludibile risposta: che cos’è reale? E insieme agli altri enigmi racchiusi in questo piccolo scrigno letterario (p.es. cosa dice l’emissario divino? In quale lingua parla? Perché i poeti antologizzati sono 12?), è questo l’enigma degli enigma. Cosa è davvero reale della/nella nostra vita? Noi contemporanei abitiamo un mondo quantistico nel quale la nostra realtà, se vogliamo davvero esserne consapevoli, a livello subatomico è sensibile più alla volontà e alla percezione che alla nostra abilità intellettuale e tecnico scientifica, il che suggerisce una vaga somiglianza con questo mondo di messaggi provenienti da chissà dove ( da un inconscio più o meno collettivo? Da un aldilà? Da un altro universo o da un altro tempo?) creato da Antonio Fiori. Gli enigmi verranno tutti (quasi) risolti dall’autore nella sua postfazione e quindi come è nella migliore delle tradizioni, terrò nascosto il “finale” dell’antologia (quando mai il lettore è stato incuriosito da questo se non nei gialli?) , ma tornando per un attimo al famoso sogno iniziale del nostro pastore anglosassone, noi sappiamo cosa il messaggero risponde quando Caedmon gli chiede “ Ma cosa devo cantare?” “Canta l’origine delle cose create”, gli ordina il messaggero. Caedmon allora apre la bocca e per la prima volta canta e, con sua grande meraviglia, ne sgorgano magnifici versi in lode a Dio. Caedmon si risveglia così poeta ma la poesia che canta al risveglio non è così bella come quella che aveva …cantato?...ascoltato?...nel sogno. Già, tutti i poeti sanno che non è possibile tradurre letteralmente ciò che si ascolta senza sacrificare una parte dell’originaria bellezza. Per questo il messaggio dell’angelo o demone, pur essendo sempre lo stesso, risulta incomprensibile e intraducibile a tutte le lingue dei dodici poeti del sogno. E così Fiori ancora una volta ci suggerisce che si viene spinti a scrivere una poesia, ci si sente chiamati a cantare, per via di un impulso trascendente, un indefinibile desiderio di superare la dimensione finita e storica e raggiungere finalmente la Realtà che sta dietro a tutte le cose. Nel biglietto d’invito era ossequioso/ in ciascuno chiudeva: “L’aspetto fiducioso”./ La festa era la sera degli Angeli, il due agosto./ Quel giorno, all’ora del tramonto, tutto era pronto:/ accesi i candelabri, i tavoli imbanditi/ la piccola orchestra che prova gli strumenti/ il salone, al centro, già vuoto per le danze./ Ma l’attesa fu vana, e fu snervante./ A mezzanotte, insonne, aperte le finestre,/ solo, ascoltava la voce delle onde. / [di Carlo Gasperino, 1934]

mercoledì 14 aprile 2021

Geologia dell'io: l' Urlo di Joumana Haddad

Stavo rileggendo la poesia Itaca di Costantino Kavafis nella traduzione riportata in questi agili libretti che il sabato e la domenica invitano a prendere quotidiani e settimanali, quando mi è arrivato un whatsapp. Prima di continuare fatemi però dire una cosa: se il bene rifugio del mondo materiale è il mattone, non vi è ombra di dubbio che quello per il mondo ideale è la poesia. Nei momenti di crisi (economiche , pandemiche, storiche, ambientali, individuali) eccoti arrivare il bene rifugio in formato mattone o…mattoncino (come a volte, ahinoi, risulta percepita la poesia). Dunque riprendiamo. Il whatsapp del mio amico e appassionato sodale di nuovi versi mi suggerisce una delle sue ultime rivelazioni/scoperte, la poetessa libanese Joumana Haddad e il messaggio arriva proprio quando nella poesia di Kavafis stavo leggendo: negli empori fenici indugia e acquista/madreperle coralli ebano e ambre/tutta merce fina… e poiché credo che di questi tempi, le uniche cose sicure siano le coincidenze ho mollato gli antichi empori fenici di Kavafis e mi sono fiondato nel moderno Libano alla speranzosa scoperta della… svelata rivelazione. Non vorrei essere frainteso: Itaca di Kavafis è una poesia bellissima soprattutto se chi la legge (e a furia di rileggerla) crede di aver capito che Itaca è la conoscenza, che il viaggio è la vita e che i Lestrigoni, i Ciclopi e Poseidone sono le proprie paure. Ma una poetessa, libanese e che solo per questo, mi ricordava la giovane Warda del capitano Jon Iturri nel bellissimo libro di Alvaro Mutis, L’ultimo scalo del Tramp Steamer, erano tutti ingredienti che rafforzavano la coincidenza e che in breve finirono per esercitare su di me un’accelerazione fisica e mentale così prepotente da staccarmi definitivamente da Itaca, dal Mar Ionio, da Terra, dalla poesia di Kavafis. Io sono il sesto giorno di dicembre del 1970. Così si presenta nel “primo” verso della sua poesia, Geologia dell’io, Joumana Haddad. E questo… Genesi sui generis è già tutto un programma. Sono l’ora poco dopo le dodici. Continua Joumana e poi il tempo, improvvisamente, non perde più tempo. Sono le urla di mia madre che mi dà la vita,/le sue urla che le danno vita. Vita che, per dare e darsi vita, urla e dunque questo natale meridiano e privato si trasforma in un piccolo big bang sonoro dove a dispetto di qualunque luce arriva prima l’ urlo (cosa è, in fondo, quella radiazione “fossile” captata e registrata in ogni direzione e verso del nostro Universo?). In barba a qualunque legge fisica! L’urlo è la prima poesia di Joumana. In barba a qualunque “legge” poetica. Il silenzio viene prima del buio e dunque la voce prima della luce. E questa affermazione del suono si avverte in tutta la poesia di Joumana. È il suono dello schiaffo del medico che la rianimò, il suono di tutti gli altri schiaffi, successivi al primo, che hanno provato a rianimarla, che l’hanno distrutta. È la voce di Abele che la rimprovera, la litania delle tabelline, la bugia di Babbo Natale. La menzogna di Dio. In Geologia dell’io, davvero Joumana continua la poesia nata da quel primo verso, l’urlo della madre che ha (ri)dato vita a entrambe e in questa stratificazione del suo io-cosmo, questa donna-uomo che sarà-sarò, questi lei e lui che gridano e i lui e lei che leggono queste parole, ognuna, ognuno sembra scoprire la propria universale individualità così vicina al sentire di una popolazione “primitiva” dell’Africa interna che nella persona umana distingue le seguenti componenti: il corpo e l’urlo che si riceve dalla madre, il sangue che si riceve dal padre, l’ombra che il corpo proietta e il calore, il sudore. E poi ancora il respiro e la vita, o meglio, una particella di quella vita nella quale tutti gli esseri sono immersi e poi il pensiero suddiviso in intendimento e coscienza e il doppio, la parte cioè immortale che può compiere e subire le stregonerie, quella parte cioè che si stacca ogni notte per vagare nei sogni e poi recarsi, poco prima di morire, nel villaggio dei morti dove avrà altre due vite e altre due morti per incarnarsi nuovamente e continuare a urlare e proferire parole come quelle di Joumana a volte scomode, a volte anche crudeli ma sempre avvolgenti e vibranti, impreviste e imprevedibili… Sono la mia spina dorsale che urla in faccia ai miei traditori./Sono i miei occhi che cercano il buio che m’appartiene./Sono il mio dolore/il mio dolore, sì./Sono il mio grido nel pieno della notte/(soppresso al momento giusto)./Sono quello che mi dicono di non dire/di non sognare/di non pensare/di non osare/di non prendere. …. Sono la follia e l’assenza che mi hanno preceduta./E le piccole, irrilevanti cose che svelano… E così grazie a Joumana e a questa “piccola” epifania posso davvero fare ritorno a ….Itaca e cambiare idea, scoprire cioè che quell’isola non è propriamente la conoscenza come avevo, fino a poco (tanto, troppo) tempo fa, creduto, ma è Carne. Che la Vita non è un viaggio ma un Urlo e che, per questo, siamo noi a fare paura ai Lestrigoni ai Ciclopi, a Poseidone. Sì, credo che sia proprio così, le uniche cose sicure sono le coincidenze nel vero senso della parola: le coincidenze che da Itaca ti fanno arrivare in Libano e che da un verso ti conducono al… verso opposto. Dopo aver viaggiato in compagnia di Joumana Haddad ognuno di noi è la donna (o l’uomo ) che non è adesso, ognuno di noi capisce di essere tutte le cose e le persone che era ieri, che sarà domani e che compongono, scompongono e ricompongono quest’urlo che dà e ci dà vita.