mercoledì 14 aprile 2021

Geologia dell'io: l' Urlo di Joumana Haddad

Stavo rileggendo la poesia Itaca di Costantino Kavafis nella traduzione riportata in questi agili libretti che il sabato e la domenica invitano a prendere quotidiani e settimanali, quando mi è arrivato un whatsapp. Prima di continuare fatemi però dire una cosa: se il bene rifugio del mondo materiale è il mattone, non vi è ombra di dubbio che quello per il mondo ideale è la poesia. Nei momenti di crisi (economiche , pandemiche, storiche, ambientali, individuali) eccoti arrivare il bene rifugio in formato mattone o…mattoncino (come a volte, ahinoi, risulta percepita la poesia). Dunque riprendiamo. Il whatsapp del mio amico e appassionato sodale di nuovi versi mi suggerisce una delle sue ultime rivelazioni/scoperte, la poetessa libanese Joumana Haddad e il messaggio arriva proprio quando nella poesia di Kavafis stavo leggendo: negli empori fenici indugia e acquista/madreperle coralli ebano e ambre/tutta merce fina… e poiché credo che di questi tempi, le uniche cose sicure siano le coincidenze ho mollato gli antichi empori fenici di Kavafis e mi sono fiondato nel moderno Libano alla speranzosa scoperta della… svelata rivelazione. Non vorrei essere frainteso: Itaca di Kavafis è una poesia bellissima soprattutto se chi la legge (e a furia di rileggerla) crede di aver capito che Itaca è la conoscenza, che il viaggio è la vita e che i Lestrigoni, i Ciclopi e Poseidone sono le proprie paure. Ma una poetessa, libanese e che solo per questo, mi ricordava la giovane Warda del capitano Jon Iturri nel bellissimo libro di Alvaro Mutis, L’ultimo scalo del Tramp Steamer, erano tutti ingredienti che rafforzavano la coincidenza e che in breve finirono per esercitare su di me un’accelerazione fisica e mentale così prepotente da staccarmi definitivamente da Itaca, dal Mar Ionio, da Terra, dalla poesia di Kavafis. Io sono il sesto giorno di dicembre del 1970. Così si presenta nel “primo” verso della sua poesia, Geologia dell’io, Joumana Haddad. E questo… Genesi sui generis è già tutto un programma. Sono l’ora poco dopo le dodici. Continua Joumana e poi il tempo, improvvisamente, non perde più tempo. Sono le urla di mia madre che mi dà la vita,/le sue urla che le danno vita. Vita che, per dare e darsi vita, urla e dunque questo natale meridiano e privato si trasforma in un piccolo big bang sonoro dove a dispetto di qualunque luce arriva prima l’ urlo (cosa è, in fondo, quella radiazione “fossile” captata e registrata in ogni direzione e verso del nostro Universo?). In barba a qualunque legge fisica! L’urlo è la prima poesia di Joumana. In barba a qualunque “legge” poetica. Il silenzio viene prima del buio e dunque la voce prima della luce. E questa affermazione del suono si avverte in tutta la poesia di Joumana. È il suono dello schiaffo del medico che la rianimò, il suono di tutti gli altri schiaffi, successivi al primo, che hanno provato a rianimarla, che l’hanno distrutta. È la voce di Abele che la rimprovera, la litania delle tabelline, la bugia di Babbo Natale. La menzogna di Dio. In Geologia dell’io, davvero Joumana continua la poesia nata da quel primo verso, l’urlo della madre che ha (ri)dato vita a entrambe e in questa stratificazione del suo io-cosmo, questa donna-uomo che sarà-sarò, questi lei e lui che gridano e i lui e lei che leggono queste parole, ognuna, ognuno sembra scoprire la propria universale individualità così vicina al sentire di una popolazione “primitiva” dell’Africa interna che nella persona umana distingue le seguenti componenti: il corpo e l’urlo che si riceve dalla madre, il sangue che si riceve dal padre, l’ombra che il corpo proietta e il calore, il sudore. E poi ancora il respiro e la vita, o meglio, una particella di quella vita nella quale tutti gli esseri sono immersi e poi il pensiero suddiviso in intendimento e coscienza e il doppio, la parte cioè immortale che può compiere e subire le stregonerie, quella parte cioè che si stacca ogni notte per vagare nei sogni e poi recarsi, poco prima di morire, nel villaggio dei morti dove avrà altre due vite e altre due morti per incarnarsi nuovamente e continuare a urlare e proferire parole come quelle di Joumana a volte scomode, a volte anche crudeli ma sempre avvolgenti e vibranti, impreviste e imprevedibili… Sono la mia spina dorsale che urla in faccia ai miei traditori./Sono i miei occhi che cercano il buio che m’appartiene./Sono il mio dolore/il mio dolore, sì./Sono il mio grido nel pieno della notte/(soppresso al momento giusto)./Sono quello che mi dicono di non dire/di non sognare/di non pensare/di non osare/di non prendere. …. Sono la follia e l’assenza che mi hanno preceduta./E le piccole, irrilevanti cose che svelano… E così grazie a Joumana e a questa “piccola” epifania posso davvero fare ritorno a ….Itaca e cambiare idea, scoprire cioè che quell’isola non è propriamente la conoscenza come avevo, fino a poco (tanto, troppo) tempo fa, creduto, ma è Carne. Che la Vita non è un viaggio ma un Urlo e che, per questo, siamo noi a fare paura ai Lestrigoni ai Ciclopi, a Poseidone. Sì, credo che sia proprio così, le uniche cose sicure sono le coincidenze nel vero senso della parola: le coincidenze che da Itaca ti fanno arrivare in Libano e che da un verso ti conducono al… verso opposto. Dopo aver viaggiato in compagnia di Joumana Haddad ognuno di noi è la donna (o l’uomo ) che non è adesso, ognuno di noi capisce di essere tutte le cose e le persone che era ieri, che sarà domani e che compongono, scompongono e ricompongono quest’urlo che dà e ci dà vita.