domenica 17 giugno 2018

L'Investitura di Giovanna Menegùs


Una poesia di Giovanna Menegùs, tratta dalla sua ultima -intensissima- raccolta “metapoetica”, mi ha ricordato Micòl Finzi Contini.
Il ritratto che Bassani fa della protagonista del suo giardino è quello di una Signora senza abiti eleganti, ma elegante, senza gioielli e acconciature importanti ma splendente. I vestiti di Micòl sono i suoi libri, le frasi e i versi dei suoi autori più amati e ascoltati. Micòl è una donna colta e dunque, di raffinata eleganza e di natura sfuggente alla tradizionale iconografia femminile. A qualunque invadenza, anche quella di tipo amoroso, Micòl contrappone, quale bene superiore, la libertà. Più che un ritratto, quindi, si tratta della biografia di una pratolina contegnosa che all’assalto del vento e del sole contrappone il suo stelo flessibile o il bavero bianco rosato tutto rialzato e che, di notte, riposa il suo occhio giallo canarino nella corolla richiusa.

È la biografia di Giovanna: la sua autobiografia come si scrive in Investitura di voci (96, rue de-La-Fontaine Edizioni, 2018) a pg.63

Sotto pesanti gocce di rugiada
e un cielo ancora incerto nel mattino
e pratoline se ne stanno
richiuse e contegnose

-lo sfrangiato bavero
bianco rosato
tutto rialzato

l’esile collo
un po’ reclinato


spiano ombrose

col loro occhio giallo canarino

(invisibile)

(Omaggio a Emily Dickinson 13)

Una biografia che l’autrice sottolinea in modo breve e compendioso, risaltandone, pertanto, l’importanza, in una nota al testo che prende solo due righe:

(13) Oltre e più che un ipotetico ritratto di Emily Dickinson, considero questi versi una sorta di allusivo autoritratto mio. Per questo stanno in apertura di Quasi estate. (pg. 91)

Nel romanzo di Bassani, l’oggetto della tesi di Micòl è Emily Dickinson, la più claustrale delle poetesse; la sua stanza è riempita dalla collezione di piccoli oggetti di vetro di Burano, e dagli scaffali della biblioteca, dove sono ordinati i romanzi in traduzione - soprattutto russi - e i libri delle letterature italiana, inglese e francese e, ovviamente, l’intera produzione della poetessa americana.
È questo particolare allineamento tra Emily-Micòl-Giovanna (astronomicamente avrebbe il nome di congiunzione ) che mi ha portato a definire questa raccolta, metapoetica.
Come è noto per metaletteratura, anticamente detta anche contaminatio, si intende una concezione capacitiva della letteratura per cui un enorme deposito di materiale scritto (documenti, libri, enciclopedie, appunti su tovagliolini di argomenti e di autori differenti), può essere consultato per essere (re)impiegato, (ri)aggiornato e (re)interpretato.
Più che concentrarsi sul testo, la metaletteratura scandaglia i processi dello scrivere, da quelli più marginali e contraddittori a quelli più profondi e inconsci.
A conferma di ciò non meraviglia dunque se la raccolta della Menegùs, si apra con la traduzione di una poesia di Borges, il maestro della metaletteratura par excellence; una poesia, Mis libros, che Giovanna confessa di aver portata con sé per anni, scritta su un foglietto ripiegato tra i documenti nel portafoglio (pg. 11):

I miei libri (che non sanno che esisto)
sono parte di me quanto questo volto
di fronte dura e bocca morbida
che invano cerco negli specchi
e percorro col cavo della mano.
Non senza una certa logica amarezza
penso che le parole essenziali
che mi esprimono stanno in quei fogli
che ignorano chi io sia, non in quanti ho scritto.
Meglio così. Le voci dei morti
mi diranno per sempre.


(Mis Libros nella traduzione di Giovanna Menegùs)

Da questi indizi possiamo quindi concludere che anche Giovanna ha una stanza piena degli stessi vestiti e gioielli di Micòl e ci sembra di vederla tradurre, proprio come Micòl, una poesia di Emily Dickinson (pg. 53):

Si narra che l’Himalaya s’inchinò
fino alla margherita-
trasportato dalla compassione
che una tale fanciulla coltivasse
il proprio universo là dove egli, tenda su tenda,
le sue bandiere di neve dispiegava


(n. 481 nella traduzione di Giovanna Menegùs)

Come non immaginare qui le montagne del Cadore - posto delle fragole di Giovanna - inchinarsi fino a lei, alla pratolina?

E come non ricordare tutte le altre poesie tradotte nella Investitura di voci: quelle di Trakl, di Rilke, di Sachs, di Thomas? Tutti poeti che, manco a dirlo, investono l’ascoltatore nel duplice senso di ripararlo da una condizione di fondamentale nudità ( i vestiti di Micòl/Giovanna) e di (ri)metterlo in possesso di una propria dignità. Una operazione quindi, quella dell’investitura, che coinvolge in un sol colpo il lato fisico e quello emozionale di ognuno di noi, la nostra apparente esteriorità e quella interiorità nascosta, a volte, persino a noi stessi.

Ricordiamo che fin dal suo primo manifestarsi a cavallo del muro di cinta di casa Finzi Contini, Micòl è figura tra due mondi, proprio questi due mondi: il primo quello della neutra esteriorità, dove vive il giovane narratore, ma dove viviamo anche noi lettori, e il secondo, quello della misteriosa interiorità, l’ hortus conclusus in cui abita la Poesia. Anni dopo, a causa delle leggi razziali, Micòl diventerà la guida effettiva tra questi mondi e, per così dire, la sacerdotessa di un rito di passaggio. Di lei e dei suoi poeti- lo sapevamo fin dall’inizio della lettura del romanzo di Bassani- restano solo le voci e una sorta di rapimento improvviso e violento...un’ investitura che ci ripara dal freddo e ci restituisce il possesso del sacro o, meglio sarebbe dire, ad Esso ci riconsegna!

Perché in Cadore, sulle Dolomiti, l’aprile-il momento del disgelo-è il più drammatico e straordinario sconvolgimento di terra e acqua, morte e vita. Non esiste nell’intero ciclo delle stagioni un tempo simile, e ha i colori spenti, lividi e incerti, il senso tragico e la fisicità, la matericità stessa delle opere del [pittore sloveno Zoran] Music [internato a Dachau]:...quelle dedicate ai morti dei campi di concentramento. Certo, a Dachau è presente la storia umana con tutto il suo peso e il suo orrore..., direi la sua condizione di fondamentale nudità, mentre ...nell’aprile della montagna [è presente] “soltanto” un inconsapevole ciclo naturale: pure in quei giorni avvertivo una identità nelle tracce, nei segni, i colori e le forme del paesaggio intorno a me, e ho tentato di esprimerla con i versi…(pg.97) e con tutte le voci della Poesia.

Attraverso questa raccolta metapoetica Giovanna Menegùs ha costruito un monumento alla Parola poetica che non è più soltanto qualcosa che, insieme a lei, amiamo, ma un luogo mitico, inviolato e eterno che ci ripara nei momenti tristi e freddi della vita e, contemporaneamente, ci restituisce alla nostra più profonda umanità.

mercoledì 6 giugno 2018

Il De rerum motu di Pontiggia

Come abbiamo più volte ricordato nel Post delle Fragole, le biografie dei poeti sono identiche e così, come accade per gli uccelli, quello che di loro è veramente importante sapere è il suono che emettono. Il loro canto.
Ma ancora più importante sarebbe riuscire a capire il perché di questo canto.
Il canto, infatti, esprime un moto delle cose, una transizione in corso piuttosto che un racconto con un inizio e una fine. Il canto cioè traduce la marea e non le leggi fisiche che la regolano.

Perché dunque i poeti cantano?

Potremmo affidarci alle canoniche quattro risposte logiche: i poeti cantano 1)perché hanno un organo vocale complesso e circuiti neurali legati alla fonazione e attivati da specifici livelli ormonali;
2) per via di condizionamenti ambientale; 3) perché hanno sviluppato un organo vocale e che questo -la laringe umana, come la syrinx degli uccelli- non fossilizza e quindi non lascia tracce di sé; e, last but not least, perchè questo avrebbe migliorato l’attrazione per l’accoppiamento ( e quindi la sopravvivenza della specie) e la difesa del territorio ( e quindi l’equilibrio del proprio habitat naturale).
Oppure potremmo rispondere semplicemente così:
i poeti cantano perché prima di altri vedono e ascoltano ciò che accade sulla superficie che separa il caos dalla necessità (ma lo stesso sarebbe dire: Dio dal Nulla, Presenza dal Vuoto).
È su questa superficie che la catastrofe si fa emergenza. È su questa superficie che il Poeta attinge a quella “materia” necessaria all’espansione di universi futuri e al dispiegamento del suo canto.

Studi recenti sui sistemi complessi (dai quali derivano i concetti di catastrofe e di emergenza) sembrano affermare il concetto surrealista della natura poetico-rivoluzionario della realtà. Le ricerche hanno dimostrato che i sistemi costituiti da un grande numero di elementi ( atomi, molecole, individui di una specie,...) non tendono affatto verso l’equilibrio ma verso “belle” convulsioni chiamate “transizioni di fase”.
È bene comunque sottolineare il seguente aspetto:

il fenomeno emergente che distingue una fase dall’altra non è lo sviluppo di un ordine o, viceversa la sua perdita, ma la formazione o la distruzione di una superficie.

Nella sua ultima raccolta Il moto delle cose (Lo specchio, Mondadori 2017), Giancarlo Pontiggia è là, su quella superficie tra due fasi, due mondi differenti, a maneggiare quella materia che, per casualità o causalità, può benissimo appartenere all’uno o all’altro mondo o che può transitare da una fase informe, vorticosa e sconvolta da urti e esplosioni celesti a quella più accomodata e accomodante di un...cristallo trasparente, ordinato, tagliente come la più acuta delle teorie.


Ora è noto che un’emergenza segue sempre un “fallimento topologico” ( in matematica denominato, appunto, catastrofe), vale a dire che se il canto è un’emergenza, la catastrofe, da sempre, lo precede!
Il moto delle cose è il canto di Giancarlo Pontiggia, la sua emergenza, e attraverso questo canto si proverà a guardare in faccia la... Catastrofe che lo ha generato.

Fin dall’inizio Il moto si presenta come un corpo senza lingua - senza una voce quindi - tanto che, in un “vuoto cromosomico”, si assiste alla comparsa del canto

...nella vita che è, nel tutto/che s’invasa in uno, prima/di sfarsi nel crivello della mente...


Non essendoci una vera e propria identità - un corpo con una lingua - allora non esistono propriamente parole ma... stridi, becchi, blaterii/buchi di lingua, suoni/che si torcono, stipano,/si ammaccano.
Il canto dunque appare o, per meglio dire, emerge come l’eco di rovine di una catastrofe iniziale: lo scricchiolìo di un universo che esce dal guscio, il blaterìo di una galassia nascente, il c(a|o)lore sonoro di una radiazione di fondo appena percepibile, il rotolare di biglie, l’accodarsi di comete, il torcersi di ere fino allo stiparsi di specie.

Rovine, trombe, quando/chi siede, in un giardino/di pensieri e di aranci, sente/all’improvviso un urto, scricchia/il terso dei cieli, s’incavedia/il lume della vita – arco, stame//sfinge


E più ci si avventura nel leggere i segni della catastrofe più avvertiamo la necessità di un canto, di ritrovare cioè respiri più profondi di Big Bangs e Big Crunches dell’Universo

...cos’era - ti chiedi – questo/fervente agitìo,/questo mùgghio/di vite che premono, ansano,/che ribollono/nella gran pappa del mondo//il concime/della vita, la sua pasta/opaca, nera, che lievita, lievita/dal fondo delle cose/che furono, dal niente/che ritorna, dalla sua ombra/più lucente,/e si riveste/ di un nuovo, fulgido/se stesso//niente che germina dal niente/stesso che genera se stesso

Il canto di Pontiggia emergerebbe dunque per conservare memorie vegetali, geologiche, stellari e di Erebi universali; un canto che nasce quindi per ricordare un nostro (dell’uomo) particolare moto delle cose: la triste felicità che accompagna il processo di conoscenza.
L’ardore che sprigiona ogni poesia di questa raccolta è il risultato di una catastrofe che si è fatta emergenza. La scienza, lo studio della marea e dei relitti della catastrofe, potrebbe paradossalmente allontanarci dai moti naturali dello spirito e dall’Enigma inamovibile del moto delle cose

E noi ci perdemmo in questo/possente inizio delle cose/che fu per tutti la vita – la vita//com’è, quando ancora niente è in noi/se non caldo grembo, cibo, sonno,/suoni stranieri che rimbombano nel cavo//della mente

Il poeta è il primo testimone di uno sguardo che non vede più, di un pensiero che non rinuncia più a nulla se non all’Enigma in quanto tale, eliminandolo.
Il Poeta sa bene che l’emergenza non dice nulla della catastrofe; che il canto non può raccontare. Il mondo di oggi ci ha abituati a dire e ascoltare ogni cosa sulle cose ma niente sul loro moto . Crediamo di sapere come è stato costruito l’Universo, quali tecniche e materiali sono stati utilizzati, possiamo perfino descriverne ed esaltarne la bellezza, inventare una nostra Storia della sua Architettura ma tutto questo non dirà nulla sul perché e, soprattutto, nulla sulla catastrofe che lo ha preceduto.
Il Poeta non può fare altro che cantare. Da quella superficie può tuffarsi nella profondità dei mondi vecchi e nuovi; esplorare i fondali dell’antichità cosmica; accedere a quelli di futuri miti. E una volta riemerso non può fare altro che cantare.

È vero: come un uccello Pontiggia canta perché ha un organo vocale complesso e mappe neurali legate a specifici livelli ormonali; canta perché anche gli altri individui della sua specie emettono suoni, o cercano di imitare un canto ( come i merli che riescono ad imitare il canto di altre venti specie di uccelli) e canta anche perché questo gli permette di sottolineare un’ identità di specie.
Ma nel profondo il canto di Pontiggia serve a ricordare l’antico bulicame delle cose dal quale siamo emersi e il catastrofico poi in cui tuffarsi per riemergere.
Da una parte o dall’altra. Da Dio o dal Nulla. Dalla Presenza o dal Vuoto.



IL TUFFATORE
(Prima di ogni epilogo)

Una svolta, fine, poi.
È quel poi che lo assilla.
Come ferve, dietro di sé, l’antico
bulicame delle cose. Buttarsi non
buttarsi. Un ramo oscilla
sul ciglio dell’occhio che precipita
in un’ardesia di fuoco,

immane