martedì 17 marzo 2015

L'altra metà del letto

Io non ho nulla, eppure
quale dolcezza in cuore-
e che fresco.

[K.Issa]

Il canto dell’innocenza, per eccellenza, è quello della neve.
La neve è il kigo (il riferimento ad un elemento naturale nella poesia giapponese) scelto da Matteo Bianchi-quasi fosse un navigato scrittore di haiku (haijin)-per la sua ultima raccolta poetica La metà del letto (Lorenzo Barbera Editore 2015).
Voglio inseguire questa lettura della raccolta di Bianchi, in questo post, perchè prima di tutto l’autore è ferrarese e poi perché, come ho già avuto modo di ricordare in un post precedente, nel 2015 ricorre il cinquantesimo anniversario della morte di un altro poeta ferrarese, Corrado Govoni.
Stranamente non è Ferrara a legare il primo e il secondo ma il Giappone.

Nella sua accezione tradizionale, l’haiku è un modo di fare poesia senza spiegare e senza esprimere concetti; esso si manifesta quale completa identificazione tra il poeta e l’evento che solo una vera “umiltà emotiva” può consentire: concetti, sentimenti o sensazioni individuali sono trasferiti alla natura e nella natura, insieme alla neve, per strano che possa sembrare, vanno incluse anche le chiese, i ponti, i campanili, le biciclette ("ho le ruota a terra") e perfino le sigarette ("smorzarsi"). Il poeta così non descrive l’acqua, la nebbia o un pavimento esterno del convento, ma seguendo gli andamenti della natura, con esercizio lento e paziente, si fa egli stesso acqua, nebbia, coppo rosso, rintocco di una campana o addirittura ruota e fumo. Egli aspira a sentirsi parte della totalità del reale, perfettamente assimilato ad una essenza impersonale. Un Esso dunque.

Questo principio è estraneo alla cultura occidentale in cui il soggetto è sempre il (e al) centro dell’esperienza e il mondo è un’entità altra se non una controparte.
In questa raccolta numerosi sono gli esempi (esercizi spirituali?) in cui Bianchi si mostra e si fa sentire parte della totalità del mondo: ad esempio nelle "cronaco-poesie" dove a parlare (a verseggiare) sono la zia, la nonna, un amico o un parente defunti; o ancora di più nelle tracce sparse lasciate di qua e di là lungo il libro in versi come gigli genuini fuori dal vaso (pg.50) o come una tela [che]una volta tessuta e tesa/già non è più tua (agli esperti toccherà sottolineare questo stupendo filo di seta tessuto nel verso che tiene tutte le t) o ancora come quella schiuma sul limitare dell’onda.

E l’esercizio serpeggia per tutta la raccolta: un esercizio che da fisico, diventa psicologico e si trasforma poi in quello, definitivo, spirituale il più adatto dunque a raggiungere questa indispensabile (per un Poeta) "umiltà emotiva". Il rimpiazzare un senso con un altro (la vista con l’olfatto; l’udito con il tatto come se ci si movesse nel buio o sulla banchisa polare); il delegare una funzione ad una estensione virtuale; questa capacità, dunque, è una sorta di vicarianza poetica: il campanile/non aveva più rintocchi,/rimossi, li avevano spostati in paese (pg.116).
Ed è una strategia vicaria o, se si preferisce, un errore di amalgama e perseveranza quello che porta a leggere cilicio al posto di ciliegio nella poesia a pagina 117:

Dopo la pioggia di fine marzo,
il mio mese, il mio supplizio,
pareva di voltare pagina:
anche il ciliegio appena nato,
affiorato tra i posti auto,
faceva i frutti.

Risorgevo quotidiano
onorando il mio dolore
e portando il vostro con me.


L’unione di due elementi quali supplizio e dolore ne formano un terzo inesistente: cilicio. E qui si comprende la metamorfosi orientale di Bianchi: la sua ambizione di sentirsi parte della totalità non può che passare dalla peculiare umiltà che in un mondo (quello occidentale), completamente disinteressato ad essa, non può che risultare particolarmente spaventosa. Il dolore, l’umiltà sono spaventosi.

Questo processo richiede di passare dal Bello al Vero (dal ciliegio al cilicio) e dopo uno straordinario travaglio, confessando tutte le proprie debolezze (pubblicamente a pg. 38):

Della vanità
non voglio fare a meno


giungere alla Grande Bellezza*.

In uno stato d’animo come questo, in una perfetta comunione con la vita, anche senza volerlo o proprio perchè non lo si è voluto, si diventa haijin e si può scrivere (pg. 121):

...in bicicletta
se le fuma il vento
le sigarette.


Un haiku perfetto:
senza titolo;
5-7-5 le sillabe per verso;
c'è il kigo stagionale (il vento);
il tema privilegiato è il mondo “naturale”: Ferrara, la bicicletta, le sigarette.

Nella Ferrara di inizio secolo scorso, appunto, Corrado Govoni cedeva alle tentazioni delle atmosfere rarefatte del giapponismo di maniera che prendeva corpo nelle opere del D’annunzio di Intermezzo e nel decorativismo liberty. Lo fece con quattro sonetti , i Ventagli giapponesi, sezione iniziale delle Fiale (Firenze, 1903). Govoni aggiunse alle immagini evocative ed evanescenti della poesia tradizionale giapponese, la sua capacità straniante di incorporare oggetti quotidiani e persone in atmosfere metafisiche
Con un campionario di scene ambientate nella sua periferica Ferrara- più piena di oggi di biciclette-Govoni anticipò la modernità. Nel dialogo tra il suo virtuosismo linguistico e l'umiltà tematica va ritrovata e riscoperta la sua unicità poetica (quella del “bianco minore” per dirla con Corazzini). Un bianco che cadrà, come la neve, su Montale, Penna e Saba e che probabilmente è giunto fin qui, fino a Matteo Bianchi.
Nelle improvvise “illuminazioni” in cui le cose si manifestano senza alcuna interferenza da parte del poeta che, anzi, ne sente la pena e se ne lascia impregnare, vibrano i momenti in cui si è vicini allo spirito dell’haiku e al senso della Bellezza così come viene inteso dalla tradizione giapponese.
Una delle caratteristiche che troviamo in questa poesia è il senso del mistero (lo yugen) la cui comprensione non è possibile per chi vuole armarsi solo della santa ragione. Il mondo per un haijin richiede un’attenzione ed un rispetto profondi se si vuole coglierne il mistero: la Bellezza è destinata a svanire ma per chi la contempla umilmente, alla ”occulta pena”, la malinconia che rende più prezioso questo incontro, si accompagna una gioia profonda.

E’ per questo che la Bellezza è sempre a metà ed è per questo che ciò che leggiamo dei grandi poeti è sempre la metà di quello che leggiamo.

La metà del letto.



*In una intervista Paolo Sorrentino definisce cosa sia per lui la Grande Bellezza:"la fatica di vivere" della quale non ci stanchiamo mai.