Come abbiamo più volte ricordato nel Post delle Fragole, le biografie dei poeti sono identiche e così, come accade per gli uccelli, quello che di loro è veramente importante sapere è il suono che emettono. Il loro canto.
Ma ancora più importante sarebbe riuscire a capire il perché di questo canto.
Il canto, infatti, esprime un moto delle cose, una transizione in corso piuttosto che un racconto con un inizio e una fine. Il canto cioè traduce la marea e non le leggi fisiche che la regolano.
Perché dunque i poeti cantano?
Potremmo affidarci alle canoniche quattro risposte logiche: i poeti cantano 1)perché hanno un organo vocale complesso e circuiti neurali legati alla fonazione e attivati da specifici livelli ormonali;
2) per via di condizionamenti ambientale; 3) perché hanno sviluppato un organo vocale e che questo -la laringe umana, come la syrinx degli uccelli- non fossilizza e quindi non lascia tracce di sé; e, last but not least, perchè questo avrebbe migliorato l’attrazione per l’accoppiamento ( e quindi la sopravvivenza della specie) e la difesa del territorio ( e quindi l’equilibrio del proprio habitat naturale).
Oppure potremmo rispondere semplicemente così:
i poeti cantano perché prima di altri vedono e ascoltano ciò che accade sulla superficie che separa il caos dalla necessità (ma lo stesso sarebbe dire: Dio dal Nulla, Presenza dal Vuoto).
È su questa superficie che la catastrofe si fa emergenza. È su questa superficie che il Poeta attinge a quella “materia” necessaria all’espansione di universi futuri e al dispiegamento del suo canto.
Studi recenti sui sistemi complessi (dai quali derivano i concetti di catastrofe e di emergenza) sembrano affermare il concetto surrealista della natura poetico-rivoluzionario della realtà. Le ricerche hanno dimostrato che i sistemi costituiti da un grande numero di elementi ( atomi, molecole, individui di una specie,...) non tendono affatto verso l’equilibrio ma verso “belle” convulsioni chiamate “transizioni di fase”.
È bene comunque sottolineare il seguente aspetto:
il fenomeno emergente che distingue una fase dall’altra non è lo sviluppo di un ordine o, viceversa la sua perdita, ma la formazione o la distruzione di una superficie.
Nella sua ultima raccolta Il moto delle cose (Lo specchio, Mondadori 2017), Giancarlo Pontiggia è là, su quella superficie tra due fasi, due mondi differenti, a maneggiare quella materia che, per casualità o causalità, può benissimo appartenere all’uno o all’altro mondo o che può transitare da una fase informe, vorticosa e sconvolta da urti e esplosioni celesti a quella più accomodata e accomodante di un...cristallo trasparente, ordinato, tagliente come la più acuta delle teorie.
Ora è noto che un’emergenza segue sempre un “fallimento topologico” ( in matematica denominato, appunto, catastrofe), vale a dire che se il canto è un’emergenza, la catastrofe, da sempre, lo precede!
Il moto delle cose è il canto di Giancarlo Pontiggia, la sua emergenza, e attraverso questo canto si proverà a guardare in faccia la... Catastrofe che lo ha generato.
Fin dall’inizio Il moto si presenta come un corpo senza lingua - senza una voce quindi - tanto che, in un “vuoto cromosomico”, si assiste alla comparsa del canto
...nella vita che è, nel tutto/che s’invasa in uno, prima/di sfarsi nel crivello della mente...
Non essendoci una vera e propria identità - un corpo con una lingua - allora non esistono propriamente parole ma... stridi, becchi, blaterii/buchi di lingua, suoni/che si torcono, stipano,/si ammaccano.
Il canto dunque appare o, per meglio dire, emerge come l’eco di rovine di una catastrofe iniziale: lo scricchiolìo di un universo che esce dal guscio, il blaterìo di una galassia nascente, il c(a|o)lore sonoro di una radiazione di fondo appena percepibile, il rotolare di biglie, l’accodarsi di comete, il torcersi di ere fino allo stiparsi di specie.
Rovine, trombe, quando/chi siede, in un giardino/di pensieri e di aranci, sente/all’improvviso un urto, scricchia/il terso dei cieli, s’incavedia/il lume della vita – arco, stame//sfinge
E più ci si avventura nel leggere i segni della catastrofe più avvertiamo la necessità di un canto, di ritrovare cioè respiri più profondi di Big Bangs e Big Crunches dell’Universo
...cos’era - ti chiedi – questo/fervente agitìo,/questo mùgghio/di vite che premono, ansano,/che ribollono/nella gran pappa del mondo//il concime/della vita, la sua pasta/opaca, nera, che lievita, lievita/dal fondo delle cose/che furono, dal niente/che ritorna, dalla sua ombra/più lucente,/e si riveste/ di un nuovo, fulgido/se stesso//niente che germina dal niente/stesso che genera se stesso
Il canto di Pontiggia emergerebbe dunque per conservare memorie vegetali, geologiche, stellari e di Erebi universali; un canto che nasce quindi per ricordare un nostro (dell’uomo) particolare moto delle cose: la triste felicità che accompagna il processo di conoscenza.
L’ardore che sprigiona ogni poesia di questa raccolta è il risultato di una catastrofe che si è fatta emergenza. La scienza, lo studio della marea e dei relitti della catastrofe, potrebbe paradossalmente allontanarci dai moti naturali dello spirito e dall’Enigma inamovibile del moto delle cose
E noi ci perdemmo in questo/possente inizio delle cose/che fu per tutti la vita – la vita//com’è, quando ancora niente è in noi/se non caldo grembo, cibo, sonno,/suoni stranieri che rimbombano nel cavo//della mente
Il poeta è il primo testimone di uno sguardo che non vede più, di un pensiero che non rinuncia più a nulla se non all’Enigma in quanto tale, eliminandolo.
Il Poeta sa bene che l’emergenza non dice nulla della catastrofe; che il canto non può raccontare. Il mondo di oggi ci ha abituati a dire e ascoltare ogni cosa sulle cose ma niente sul loro moto . Crediamo di sapere come è stato costruito l’Universo, quali tecniche e materiali sono stati utilizzati, possiamo perfino descriverne ed esaltarne la bellezza, inventare una nostra Storia della sua Architettura ma tutto questo non dirà nulla sul perché e, soprattutto, nulla sulla catastrofe che lo ha preceduto.
Il Poeta non può fare altro che cantare. Da quella superficie può tuffarsi nella profondità dei mondi vecchi e nuovi; esplorare i fondali dell’antichità cosmica; accedere a quelli di futuri miti. E una volta riemerso non può fare altro che cantare.
È vero: come un uccello Pontiggia canta perché ha un organo vocale complesso e mappe neurali legate a specifici livelli ormonali; canta perché anche gli altri individui della sua specie emettono suoni, o cercano di imitare un canto ( come i merli che riescono ad imitare il canto di altre venti specie di uccelli) e canta anche perché questo gli permette di sottolineare un’ identità di specie.
Ma nel profondo il canto di Pontiggia serve a ricordare l’antico bulicame delle cose dal quale siamo emersi e il catastrofico poi in cui tuffarsi per riemergere.
Da una parte o dall’altra. Da Dio o dal Nulla. Dalla Presenza o dal Vuoto.
IL TUFFATORE
(Prima di ogni epilogo)
Una svolta, fine, poi.
È quel poi che lo assilla.
Come ferve, dietro di sé, l’antico
bulicame delle cose. Buttarsi non
buttarsi. Un ramo oscilla
sul ciglio dell’occhio che precipita
in un’ardesia di fuoco,
immane
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