martedì 26 ottobre 2021
Philip Morre: istantanea di Callimaco a Venezia
Iniziamo subito col dire che la poesia di Philip Morre (eteronimo poetico del traduttore inglese John Francis Phillimore) è una poesia felice perché se ne avverte la varietà, l’ironia, la generosità, la ricchezza di sentimento. Non sempre la poesia riesce a trasferire tutto questo: la maggior parte delle volte è proprio la monotonia, l’austerità, l’avarizia (ermetica) , l’obbedienza alla pesantezza quello che resta a chi legge o ascolta poesia.
Questo finisce per impaludare, costringere e restringere qualunque presentazione poetica riducendola a un rituale mesto, fintamente lirico e sentimentale. Con John/Francis, sia nella lettura che nella presentazione dei suoi testi, questo non accade e la felicità alla fine prevale su tutto.
Intendiamoci Morre, da buon poeta quale è, tocca le grandi questioni ma le insaporisce, addolcendole o inasprendole, di volta in volta, con le piccole questioni, cosicché la scala delle domande viene percorsa interamente passando da interrogativi di memoria salingeriana (“…dove vanno le anatre quando il lago gela?” Gli ippopotami mangiano banane?) a quelli più propriamente classici (Dove risiede l’anima? Il sangue è una marea?)
Come dice il poeta Patrick McGuinness, amico di John/Francis e prefatore di questa raccolta (F. Morre, Istantanea di ippopotamo con banane, nella lineare eleganza di carta e segno dell’edizioni di Andrea Cati), la poesia di Morre “…è cosmopolita e allo stesso tempo tipicamente profondamente inglese…Queste poesie, sull’invecchiamento, la malattia, la solitudine…l’affievolirsi degli appetiti…sono esplorazioni accuratamente modulate di ciò che è piccolo, comune, di ciò che passa e che è passato…”.
La capacità di espandere l’esperienza nel tempo (indietro e avanti) e a gli altri ( “soli insieme a noi”), credo, che sia una peculiarità del fare poetico di Morre.
Un esempio su tutti per intenderci:
Visto che il gregge ha occupato la strada/
tu spegni il motore e accendi una sigaretta,/
abbassi scrupolosamente il finestrino/
e la fai penzolare all’esterno come/
per ficcarla nell’occhio del montone capobranco.//
Abbiamo un traghetto da prendere,/
eppure sembri indifferente, forse ti gusti/
il piccolo brivido di spingere al massimo/
le quattro miglia che costeggiano la baia/
e giù fino all’abbraccio quasi circolare/
del litorale del porto.//
Così restiamo seduti, lo sguardo perso nella foschia,/
mentre la marea lanosa si frange coi suoi belati/
a destra e sinistra della Saab e il tempo si adatta/
all’andatura lenta del pastore che noncurante/
sfila dietro la prua del suo naso/
come un principe che nobilmente ignori un neo.
[Pastorale pg. 27].
Questa apparente quiete istantanea, (quasi dormiente: non si contano le pecore per questo?) è il presagio di un ritardo che qui viene… anticipato. E dunque viviamo ora e qui il piacere di un brivido che non ci sarebbe senza questo istante e che non potrà essere provato se la sigaretta venisse fumata in fretta e se il tempo non venisse rallentato da un pastore-Mosé che governa indifferente la sua marea lanosa.
Si noti l’ambiguità perfettamente calibrata fra il movimento e l’ atto, fra ciò che passa nella testa e quello che si vede: la gamma delle emozioni è così ampliata e rilanciata da piccoli, sapienti gesti reali (spegnere il motore, accendere una sigaretta, abbassare il finestrino…) e da altrettanti ipotesi ideali (dissimulata indifferenza, l’inevitabile accelerazione, la sfida contro il tempo…) e dunque siamo contemporaneamente fermi nella Saab ma anche agitati dalle curve dei prossimi tornanti fino al porto, siamo cullati nell’abitacolo della macchina e sbattuti tra le onde (di lana? Di mare?).
Tra queste espansioni e dislocazioni di sentimenti ed emozioni nella poesia di Morre si avverte poi la marea…classica quella che segna “… il paese della mente …” , quel paese che, come ci ricorda ancora Patrick McGuiness , “…solo gli espatriati ricordano perché resta fissato al momento in cui l’hanno lasciato…”. John Francis Phillimore è nato a Londra ma ha vissuto per gran parte della sua vita in Italia, da ultimo a Venezia , dove per dieci anni ha tenuto una libreria di libri usati nel Ghetto. Ora nella sua poesia le coste e i contorni di questo paese mentale acquisiscono sonorità, colori e immagini tipicamente classiche e molto riconoscibili per noi italiani a cominciare dai suoi “tradimenti” (le mistranslations) da Callimaco, fino ai pamphlet su Fra Angelico e alle tante poesie che lo stesso poeta definisce “intraducibili”. E proprio nella sua nota d’autore John/Philip confessa: “…questa voluta imprecisione delle mie versioni inglesi è il pretesto per la loro traduzione in una terza lingua…”
Una confessione che rende ancora più apprezzabile il lavoro di traduzione fatto da Giorgia Sensi che ha curato la resa in questa “terza lingua” di Istantanee di ippopotamo con banane.
giovedì 21 ottobre 2021
Il Salone nell'arca
La mia amica Marcella Nigro, scrittrice e giornalista di Radionoff, mi ha inviato un breve resoconto sul Salone del Libro di Torino paragonandolo a una grande ...Arca.
"Entrare al Lingotto, durante Il Salone Internazionale del Libro a Torino è come entrare nell’arca, ma non in quella di Noè, che accolse una coppia di entrambi i sessi per ogni specie animale, bensì un’arca che “abbraccia” e “protegge” tutti noi reduci dalla pandemia da Covid-19 che abbiamo imparato sulla nostra pelle cosa significhi “fare assembramento” e per questo motivo vietato, ma che non vediamo l’ora di abusare, finalmente, anche dell’ultimo dei nostri cinque sensi: appunto, il tatto.
Ma l’essere umano ha un’indole indomita, complessa, dalla memoria corta e, permettetemi, “ignorante”, si, nel senso che ignora. Ignora e finge di non ricordare le piaghe, le sofferenze, le tragedie che costellano la nostra storia millenaria, che, spesso e volentieri, sono nate proprio a causa nostra, per ultimo: lo scempio che stiamo compiendo nei confronti della natura, nonostante da decine di anni continuiamo a riempirci la bocca con parole che inneggiano a un futuro eco sostenibile.
Io che sono stata in questa grande Arca, ho realmente vissuto la gioia e la curiosità di essere “sommersa” da libri, autori ed editori, in un vero e proprio abbraccio di parole; e il libro che ancora dovrà essere scritto è qui, sotto le mie mani, stretto tra le mie dita: come sarà?
Sarà diverso, ma sempre uguale, travolgente ma rasserenante; mi trascinerà via con sé, vicino o lontano, poco importa, attraverso la fantasia che sgorga dalla mia esperienza, dalla mia quotidianità per giungere fino a te, che mi stai leggendo, avido e bramoso di saperne di più, ancora e ancora…" [Marcella Nigro].
Questo breve e puntuale reportage e la presenza di tanti giovani al Salone (Arca) hanno ispirato il seguente Post.
I libri sono oggetti finiti che non finiscono mai di scorrere. Una specie di nastro di Möbius in quanto insistono su due facce del tempo e dello spazio. Questi piccoli parallelepipedi di parole prolungano l’esistenza di un’autrice o di un autore oltre il limiti che la natura ha loro assegnato compreso un futuro che non hanno potuto misurare. Oltre a questo, aiutano il lettore-viaggiatore a misurare e misurarsi il presente… addosso.
Al Salone del libro di Torino si ha la sensazione del viaggio amplificata a dismisura nel tempo , come se il Lingotto contenesse un’enorme arca (o viceversa): gli autori sono tutti presenti, quelli del passato e quelli del presente. E il futuro (la fine del diluvio) sembra, qui, più afferrabile che altrove e già ora.
Chi ha detto che la lettura è una immortalità all’indietro poteva spingersi oltre grazie a uno dei tanti nastri di Möbius e assegnare ai libri, e in generale alla cultura, anche un valore taumaturgico se non proprio vaccinale a garanzia della nostra salute individuale e quindi di un’immortalità di specie.
E dunque fra tutti i libri presenti e gli autori intervistati vorrei parlare del libro che ancora non c’è, quello che cioè verrà scritto e che raccoglierà i frammenti del viaggio che abbiamo fatto insieme nel lungo periodo di diluvio pandemico.
È un libro che potrebbe scriversi con le parole pronunciate da Albert Camus nel suo Discorso del banchetto del 1957. Parole così lontane ma tanto, tanto più vicine di quelle di autori e autrici attualmente in classifica.
È il nastro di Möbius che continua a scorrere da La peste dello scrittore francese e non smette di attraversare il tempo occupando lo spazio che gli spetta anche in quest’arca piena di memoria e di vita.
«…[Sono] un uomo che ancora può dirsi giovane, ricco solamente dei propri dubbi e di un’opera tutt’ora in cantiere, abituato a vivere…nei ripari dell’amicizia [ e in un clima] nel quale altri scrittori sono ridotti al silenzio e il suo Paese sta vivendo una sventura incessante…Ho conosciuto questo [vostro] smarrimento e questo [vostro] turbamento interiore e per ritrovare pace mi è stato necessario fare i conti con un destino troppo generoso. E poiché non potevo farlo appoggiandomi ai miei soliti meriti, per aiutarmi non ho trovato altro che ciò che mi ha sostenuto lungo la mia vita intera e nelle circostanze più avverse: l’idea che mi sono fatto della mia arte e del ruolo dello scrittore...».
E mentre l’arca nel Salone (o il Salone nell’arca?) si riempiva di giovani, le parole di Camus risuonavano e si ripetevano a nastro:
«…Ogni generazione, senza dubbio, si crede votata a rifare il mondo. La mia, tuttavia, sa che non lo rifarà. Ma il suo compito è forse più grande. Consiste nell’impedire che il mondo si sfasci. Erede di una storia corrotta in cui si fondono le rivoluzioni fallite, le tecniche impazzite, gli dèi morti e le ideologie estenuate, in cui poteri mediocri possono distruggere ogni cosa ma sono incapaci di convincere, in cui l’intelligenza si è abbassata al punto di farsi serva dell’odio [e dell’egoismo]…Davanti a un mondo minacciato di disintegrazione, dove i nostri grandi inquisitori rischiano di stabilire per sempre i regni della [estinzione], la nostra generazione sa che dovrebbe, in una sorta di folle corsa contro il tempo, restaurare tra le nazioni una pace che non sia quella della servitù, riconciliare nuovamente lavoro e cultura, e ricreare insieme a tutti gli uomini un’arca di alleanza…».
Un’ arca. Un’arca piena di memoria, generazioni e di vita. Un’arca pronta ad ospitare un altro libro… da scorrere, un altro nastro di Möbius da srotolare.
Il libro che non c’è ancora e che verrà scritto magari da una|uno fra le|i seimila lettrici|lettori nati nel XXI secolo che in più di 170 scuole, distribuite in 18 regioni italiane, hanno letto La peste di Camus.
Proprio mentre intorno a loro infuriava la nuova peste.
Verrà scritto questo nuovo libro e parlerà del coraggio e della capacità di mettere da parte l’egoismo, il proprio particolare, in vista di un orizzonte più largo nello spazio e più profondo nel tempo. Sarà, forse, un nuovo romanzo, un saggio o una raccolta poetica di certo sarà un parallelepipedo di parole che parleranno dell’inclinazione incorreggibile degli esseri umani a negare un’evidenza prima di esserne toccati direttamente; sarà un parallelepipedo di storie che racconteranno come si fronteggia, nella calamità, il meglio e il peggio degli umani e come nessuna apocalisse riuscirà a togliere la disposizione all’amore, all’amicizia, alla voglia di cantare e di contare.
Sarà un libro che nel futuro restituirà questo presente che è stato sottratto a tanti perché da quest’arca si avverte che c’è (ci sarà) un Paese che non trova spazio nelle cronache, nei notiziari, nelle interminabili ed estenuanti maratone di “protagonisti”, nelle prese e nelle vite in diretta, in arene circensi tra pigli gladiatorî.
Ci sarà (perché c’è) un Paese fatto di persone coraggiose, responsabili e oneste ma non eroiche perché
«…non [bisogna credere] all’eroismo, so che è fin troppo facile e ho scoperto che uccide. [A noi] dovrebbe interessare che tutti [donne, uomini,…TUTTI] vivano e muoiano per ciò che amano.».
Forse un libro così che proprio in questo momento si sta scrivendo, come un vero e proprio nastro di Möbius, potrebbe incidere anche su questa parte di tempo e ricevere da noi un aiuto per essere presentato in uno dei prossimi Saloni.
Una volta scesi tutti dall’arca.