Nella sua autobiografia Elias Canetti [1] si mostra circondato dal fumo di un incendio. In un gioco di rimandi, tra finzione e realtà, si tratta del fumo dovuto ai libri che il protagonista del suo romanzo, Auto da fé [2], ha bruciato.
Volendo calare il “gioco” nella cruda attualità, questo fumo “eliatico” potrebbe benissimo essere quello del recente incendio doloso alla libreria di Centocelle, La pecora elettrica.
In ogni caso Canetti vede intorno a sé solo deserto e sembra quasi presagire una rovina incombente ma poi, cambia registro e così, passo dopo passo, lascia che la vita riprenda vigore attraverso figure memorabili, tra le quali, quella del Dottor Sonne, il vero centro (il Sole appunto) di questo sistema eliocentrico che fu la grande Vienna degli anni trenta nella quale Canetti orbitò.
“…come ho già detto, tra le molte cose che Sonne conosceva a memoria, dal principio alla fine, c’era la Bibbia. Sapeva citare qualunque passo in ebraico, senza esitare e senza dover riflettere. Tuttavia non faceva sfoggio di queste gesta mnemotecniche, che non avevano mai nulla di teatrale… Il modo in cui citava e commentava molti brevi capitoli mi fece cadere di colpo una benda dagli occhi: mi resi conto che Sonne doveva essere un poeta, e proprio in quella lingua ebraica che usava davanti a me. Non osai fargli una domanda diretta, perché quando lui stesso si asteneva dal fornire ragguagli si evitava di toccare l’argomento. In quel caso, tuttavia, la discrezione non mi impedì di chiedere notizie ad altri che lo avevano conosciuto già anni prima. Seppi così – e se ne parlava come se la cosa fosse diventata un segreto ormai da qualche tempo – che Sonne era uno dei fondatori della nuova poesia ebraica. Giovanissimo, all’età di quindici anni, sotto il nome di Avraham Ben Yitzhak, aveva scritto un certo numero di poesie ebraiche che avevano suggerito a qualcuno, esperto in entrambe le lingue, un paragone con Hölderlin. Erano pochissime poesie, forse nemmeno una dozzina, in forma di inni, e di una tale perfezione che l’autore era stato annoverato tra i maestri di quella lingua chiamata a nuova vita. Ma poi Sonne aveva smesso subito, e nessun’altra poesia era venuta alla luce…” [1],
quasi fosse stata rinchiusa e ben custodita in qualche cassetto segreto.
Evidentemente anche noi guardandoci intorno, dopo l’episodio di Centocelle, non possiamo che constatare la stessa desolazione e lo stesso sentore, che scossero l’autore cosmopolita, di una rovina incombente, ma ancora una volta, paradossalmente, ci viene in soccorso lui, proprio lui: il Dottor Sonne! E lo fa grazie a una piccola casa editrice di Pesaro dal nome significativo, Portatori d’acqua, che l’anno scorso ha pubblicato [3] nella traduzione di A. L. Callow e C. Nicolini Coen le 11+ 1 poesie del quindicenne Avraham Ben Yitzhak.
L’impressione che si ha nella lettura è quella di aver riaperto una cassa di fuga, uno di quei contenitori che i monaci benedettini usavano nell’ urgenza, dovuta ad esempio a un incendio, di salvare le cose più preziose che avevano nel loro monastero: gli atti giuridici che attestavano la proprietà e i libri più preziosi e rari [4].
È suggestivo pensare che di fronte a coloro che i libri vorrebbero bandirli, censurarli o addirittura bruciarli, ci sono altri che i libri vorrebbero proteggerli e salvarli di più e prima della loro stessa vita.
E in fondo il Dottor Sonne - e il quindicenne pudico e silenzioso che viveva in lui - non può che essere assimilato a una cassa di fuga: uno che decide di non parlare più di sé e di rifuggire chiunque voglia parlare di lui, uno che dagli incendi prontamente profetizzati, piuttosto che salvare sé stesso – il poeta, l’intellettuale, il teologo - preferisce custodire in gran segreto e salvare dalla distruzione il Libro di tutti i libri [5] e tutte le Parole di Dio.
Il fatto che …portatori d’acqua si prodighino a spegnere l’incendio e a curarsi di queste preziosissime casse di fuga è un presagio ben augurante.
Ogni giorno lascia in eredità al successivo un sole morente
e ogni notte ne piange un’altra.
Un’estate dopo l’altra viene raccolta insieme alle foglie cadenti
e del suo dolore canta il mondo.
E domani moriremo, privati della parola,
e come nel giorno in cui uscimmo ci fermeremo dinnanzi al portale quando chiuderà.
E se il cuore gioirà: ecco, Dio ci ha avvicinati,
si ricrederà e tremerà temendo il sacrificio.
Ogni giorno offre al successivo un sole ardente,
una notte dopo l’altra senza stelle,
sulle labbra di pochi solitari si ferma una poesia:
per sette vie ci dividiamo e per una sola facciamo ritorno.
[Scritta tra il 1912 e il 1917 fu pubblicata per la prima volta sul periodico Ha ‘Ogen nel 1918]
Riferimenti
[1] – Elias Canetti, Il gioco degli occhi, Adelphi, 5a edizione (1985)
[2] – Elias Canetti, Auto da fé, Adelphi (1981)
[3] – Avraham Ben Yitzhak, Poesie, Portatori d’acqua (2018)
[4] – Paolo Rumiz, Il filo infinito, Feltrinelli (2019)
[5] – Roberto Calasso, Il Libro di tutti i libri, Adelphi (2019)
domenica 10 novembre 2019
giovedì 24 ottobre 2019
Libretto di transito: i frammenti di silenzio di Franca Mancinelli
Libretto di transito [1] è il titolo dell’ultima raccolta poetica di Franca Mancinelli pubblicata nel 2018 dalla casa editrice Amos.
A differenza dei primi due libri della poetessa fanese, Libretto di transito è composto da 33 prose poetiche, frammenti brevi ed incisivi che solo per la loro brevità richiamano i versi dei precedenti lavori.
Nella sua prima raccolta, Mala kruna, [2] ogni poesia sembrava essere, riprendendo una efficace immagine di Andreotti [3], il segno di una puntura di una piccola corona di spine.
Il Poeta sa bene - e Franca Mancinelli nella sua opera prima lo dimostra - che il suo primo dovere è quello di fare da solo l’autopsia al proprio cadavere e di renderne pubblico il risultato.
Attraverso questa piccola corona di spine la Mancinelli pone davanti a sé stessa le proprie sensazioni restando un passo indietro da esse per considerarle nella loro nuda verità e esaminarle con distacco come se appartenessero ad altri.
In questo mo(n)do così notomizzato sono i sensi a farla da padrone, l’odore, la vista e soprattutto il tatto quasi a preludere la seconda raccolta dal titolo Pasta madre [4].
Anche in questo caso ci soccorre l’intuizione di Andreotti che svela: non la poesia è pasta madre ma l’”interazione” tra le mani e l’effimera materia poetica: la poesia è la mano nuda, forte e insieme dolce, sapiente e precisa che rinfresca la pasta stringendola e stirandola con la consapevolezza di dover onorare una promessa di nutrimento.[3]
Una delle convinzioni acquisite dal pensiero moderno è che non sia possibile superare in ingegno coloro che in epoca preistorica hanno scoperto (o inventato) come addomesticare gli animali, selezionare le graminacee e fondere metalli in leghe: in queste tre attività ci sono già tutti gli schemi di ragionamento utili per arrivare fino a noi e per riconoscere nella poesia una continuità naturale, antropologica al Lavoro, al Cibo, alla Cura.
La stessa Mancinelli in una sua intervista dice di sentire molto la poesia come una traccia lasciata dal corpo con tutto il suo peso e la lotta quotidiana per mantenersi in vita, per ridare senso a gesti semplicissimi che ci sostengono come preparare il cibo, il mangiare, l’abbandonarsi al sonno. Non è un caso che l’immagine emblematica della sua poesia sia il cucchiaio:
cucchiaio nel sonno, il corpo
raccoglie la notte
Le poesie della Mancinelli ci raccolgono e sono raccolte proprio come fa un cucchiaio con tutto quell’apparato iconico che il gesto di portarsi il cibo alla bocca comporta: parola che va soffiata per essere raffreddata (come faceva nostra madre quando da piccoli ci imboccava); parola che va masticata, deglutita e digerita prima d’essere pronunciata per fare qualcosa.
Ma va detto che da sempre la poesia è utilizzata proprio per tentare di soddisfare questo tipo di richiesta impossibile da esaudire: riuscire a fare qualcosa con le parole ma che le parole non possono fare [5] come, ad esempio, unire le persone al di là delle loro differenze; costruire qualcosa di nuovo a partire da vecchie rovine.
Tutti gli stratagemmi scelti dai poeti per fare questo servono solo a eludere aspettative impossibili. Per questo i poeti ricorrono alla frammentazione e al silenzio: per far provare quello che altrimenti non avrebbero potuto dire. Non essendo in grado di materializzare ciò di cui scrivono ne producono bagliori attraverso un collasso primordiale: un fallimento dunque che rende la loro arte fertile.
Una delle forme poetiche più rappresentative di questa catastrofe sono i frammenti poetici, gli epigrammi, gli haiku e gli haibun giapponesi. Questi ultimi in particolare sono una giustapposizione di prosa e poesia: una breve prosa poetica seguita da un haiku. A volte l’haibun registra una scena o un momento particolare in modo altamente descrittivo e oggettivo; altre volte può interessare uno spazio del tutto immaginario o onirico. L’haiku al termine di questa parte in prosa suggerisce una sorta di completamento all’intera narrazione.
Quando leggiamo i 33 frammenti del Libretto di transito non possiamo però che constatare un fatto: l’haiku a complemento delle brevi sequenze poetico-narrative non c’è, o, meglio, non si sente. C’è silenzio al termine di ogni frammento a suggerire il tema, lo stesso tema, di ogni frammento.
Nella Poesia, si sa, c’è sempre più di quanto si veda o si senta. Inutile dire che la materia di questo libretto ( sostantivo con un evidente richiamo musicale, ma anche funzionale come il libretto, appunto, di istruzioni) vuole tracciare una transizione, un passaggio tra prosa e poesia, tra parola e silenzio, tra pieno e vuoto e via continuando: tra al di qua e al di là .
Questi frammenti più o meno visibili di silenzio sono dunque lo stratagemma scelto dalla Mancinelli per continuare a prendersi cura della nostra pasta madre, per lenire le ferite dei nostri corpi, per sollevarci nei transiti e farci giungere un unico messaggio di incalcolabile tenerezza: nel silenzio il mondo lievita.
Viaggio senza sapere cosa mi porta a te. So che stai andando oltre i confini del foglio, dei campi coltivati. È il tuo modo di venirmi incontro: come un’acqua in cammino, diramando. Guardando dal finestrino, ti ho letto nel viso finché c’era luce.
*
Ma tu porti argilla. Aggiungi altra argilla dell’inizio del mondo. Vai verso i luoghi rotti e vuoti. Sei chiamato dagli spazi caldi, un manovale sudato che sorride del suo lavoro che crolla.
Sorridi, ricomincia il tempo. Una tunica tiepida ti avvolge fino alle tempie, ti riporta in cucina, nella tinozza sul tavolo. Ti bagna i capelli, tra le mani grandi di tua madre.
*
La mattina alzandoci reggiamo una brocca sulla nuca. Oltre la casa si apre una piccola radura di foglie. Anche quando arriviamo alla sorgente, il ritorno è difficile tra gli incroci e i rovi. Ma ciò che conta è che la brocca posi di nuovo sulla nuca la mattina dopo. Per questo con gli occhi fissiamo l’orizzonte, teniamo la nostra postura.
*
La sera, con una sigaretta tra le dita, guardando il cielo scurirsi come terra bagnata, mio padre annaffia. Quando è laggiù, nascosto dalle piante dei pomodori, nell’angolo più lontano del giardino, posso sentire dal pozzo l’acqua versarsi e scendere tra i granuli, fino alle radici dove è attesa. Qui, dove il flusso si perde, crescono erbe dure dal piccolo fiore, piante dal frutto velenoso. Ma non riesco a zapparle via, non riesco a riparare la falda.
Riferimenti
[1] – F. Mancinelli, Libretto di transito, Amos (2018)
[2] – F. Mancinelli, Mala kruna, Manni (2007)
[3] - http://www.angeloandreotti.it/franca-mancinelli-da-mala-kruna-manni-2007-a-libretto-di-transito-amos-2018-passando-per-pasta-madre-aragno-2013/
[4] – F. Mancinelli, Pasta madre, Aragno (2013)
[5] - B. Lerner, Odiare la poesia, Sellerio (2017)
A differenza dei primi due libri della poetessa fanese, Libretto di transito è composto da 33 prose poetiche, frammenti brevi ed incisivi che solo per la loro brevità richiamano i versi dei precedenti lavori.
Nella sua prima raccolta, Mala kruna, [2] ogni poesia sembrava essere, riprendendo una efficace immagine di Andreotti [3], il segno di una puntura di una piccola corona di spine.
Il Poeta sa bene - e Franca Mancinelli nella sua opera prima lo dimostra - che il suo primo dovere è quello di fare da solo l’autopsia al proprio cadavere e di renderne pubblico il risultato.
Attraverso questa piccola corona di spine la Mancinelli pone davanti a sé stessa le proprie sensazioni restando un passo indietro da esse per considerarle nella loro nuda verità e esaminarle con distacco come se appartenessero ad altri.
In questo mo(n)do così notomizzato sono i sensi a farla da padrone, l’odore, la vista e soprattutto il tatto quasi a preludere la seconda raccolta dal titolo Pasta madre [4].
Anche in questo caso ci soccorre l’intuizione di Andreotti che svela: non la poesia è pasta madre ma l’”interazione” tra le mani e l’effimera materia poetica: la poesia è la mano nuda, forte e insieme dolce, sapiente e precisa che rinfresca la pasta stringendola e stirandola con la consapevolezza di dover onorare una promessa di nutrimento.[3]
Una delle convinzioni acquisite dal pensiero moderno è che non sia possibile superare in ingegno coloro che in epoca preistorica hanno scoperto (o inventato) come addomesticare gli animali, selezionare le graminacee e fondere metalli in leghe: in queste tre attività ci sono già tutti gli schemi di ragionamento utili per arrivare fino a noi e per riconoscere nella poesia una continuità naturale, antropologica al Lavoro, al Cibo, alla Cura.
La stessa Mancinelli in una sua intervista dice di sentire molto la poesia come una traccia lasciata dal corpo con tutto il suo peso e la lotta quotidiana per mantenersi in vita, per ridare senso a gesti semplicissimi che ci sostengono come preparare il cibo, il mangiare, l’abbandonarsi al sonno. Non è un caso che l’immagine emblematica della sua poesia sia il cucchiaio:
cucchiaio nel sonno, il corpo
raccoglie la notte
Le poesie della Mancinelli ci raccolgono e sono raccolte proprio come fa un cucchiaio con tutto quell’apparato iconico che il gesto di portarsi il cibo alla bocca comporta: parola che va soffiata per essere raffreddata (come faceva nostra madre quando da piccoli ci imboccava); parola che va masticata, deglutita e digerita prima d’essere pronunciata per fare qualcosa.
Ma va detto che da sempre la poesia è utilizzata proprio per tentare di soddisfare questo tipo di richiesta impossibile da esaudire: riuscire a fare qualcosa con le parole ma che le parole non possono fare [5] come, ad esempio, unire le persone al di là delle loro differenze; costruire qualcosa di nuovo a partire da vecchie rovine.
Tutti gli stratagemmi scelti dai poeti per fare questo servono solo a eludere aspettative impossibili. Per questo i poeti ricorrono alla frammentazione e al silenzio: per far provare quello che altrimenti non avrebbero potuto dire. Non essendo in grado di materializzare ciò di cui scrivono ne producono bagliori attraverso un collasso primordiale: un fallimento dunque che rende la loro arte fertile.
Una delle forme poetiche più rappresentative di questa catastrofe sono i frammenti poetici, gli epigrammi, gli haiku e gli haibun giapponesi. Questi ultimi in particolare sono una giustapposizione di prosa e poesia: una breve prosa poetica seguita da un haiku. A volte l’haibun registra una scena o un momento particolare in modo altamente descrittivo e oggettivo; altre volte può interessare uno spazio del tutto immaginario o onirico. L’haiku al termine di questa parte in prosa suggerisce una sorta di completamento all’intera narrazione.
Quando leggiamo i 33 frammenti del Libretto di transito non possiamo però che constatare un fatto: l’haiku a complemento delle brevi sequenze poetico-narrative non c’è, o, meglio, non si sente. C’è silenzio al termine di ogni frammento a suggerire il tema, lo stesso tema, di ogni frammento.
Nella Poesia, si sa, c’è sempre più di quanto si veda o si senta. Inutile dire che la materia di questo libretto ( sostantivo con un evidente richiamo musicale, ma anche funzionale come il libretto, appunto, di istruzioni) vuole tracciare una transizione, un passaggio tra prosa e poesia, tra parola e silenzio, tra pieno e vuoto e via continuando: tra al di qua e al di là .
Questi frammenti più o meno visibili di silenzio sono dunque lo stratagemma scelto dalla Mancinelli per continuare a prendersi cura della nostra pasta madre, per lenire le ferite dei nostri corpi, per sollevarci nei transiti e farci giungere un unico messaggio di incalcolabile tenerezza: nel silenzio il mondo lievita.
Viaggio senza sapere cosa mi porta a te. So che stai andando oltre i confini del foglio, dei campi coltivati. È il tuo modo di venirmi incontro: come un’acqua in cammino, diramando. Guardando dal finestrino, ti ho letto nel viso finché c’era luce.
*
Ma tu porti argilla. Aggiungi altra argilla dell’inizio del mondo. Vai verso i luoghi rotti e vuoti. Sei chiamato dagli spazi caldi, un manovale sudato che sorride del suo lavoro che crolla.
Sorridi, ricomincia il tempo. Una tunica tiepida ti avvolge fino alle tempie, ti riporta in cucina, nella tinozza sul tavolo. Ti bagna i capelli, tra le mani grandi di tua madre.
*
La mattina alzandoci reggiamo una brocca sulla nuca. Oltre la casa si apre una piccola radura di foglie. Anche quando arriviamo alla sorgente, il ritorno è difficile tra gli incroci e i rovi. Ma ciò che conta è che la brocca posi di nuovo sulla nuca la mattina dopo. Per questo con gli occhi fissiamo l’orizzonte, teniamo la nostra postura.
*
La sera, con una sigaretta tra le dita, guardando il cielo scurirsi come terra bagnata, mio padre annaffia. Quando è laggiù, nascosto dalle piante dei pomodori, nell’angolo più lontano del giardino, posso sentire dal pozzo l’acqua versarsi e scendere tra i granuli, fino alle radici dove è attesa. Qui, dove il flusso si perde, crescono erbe dure dal piccolo fiore, piante dal frutto velenoso. Ma non riesco a zapparle via, non riesco a riparare la falda.
Riferimenti
[1] – F. Mancinelli, Libretto di transito, Amos (2018)
[2] – F. Mancinelli, Mala kruna, Manni (2007)
[3] - http://www.angeloandreotti.it/franca-mancinelli-da-mala-kruna-manni-2007-a-libretto-di-transito-amos-2018-passando-per-pasta-madre-aragno-2013/
[4] – F. Mancinelli, Pasta madre, Aragno (2013)
[5] - B. Lerner, Odiare la poesia, Sellerio (2017)
mercoledì 18 settembre 2019
Déjà-vu di una identità: Patrick McGuinness
Quando si parla di Identità si allude, per dirla con Calvino[1], a un valore che deve essere continuamente affermato e difeso dalle minacce di indebolirlo fino a perderlo. L’affermazione e la difesa sono da intendersi, evidentemente, sia in un senso individuale che in un senso di gruppo o di specie: identità personale o identità nazionale, etnica, linguistica, biologica ecc.
Per prima cosa una identità si fonda su qualcosa che non cambia nel corso della vita.
Riferendoci a qualcuno che fin dall’infanzia si trasferisce e vive in paesi diversi, che incontra dunque persone diverse, linguaggi diversi, o che cambia scuole e metodi di insegnamento, si adatta a mestieri diversi per guadagnarsi cibi sempre diversi; possiamo dire che questi abbia una sua propria identità ? Certamente sì, perché resterebbero i suoi ricordi, la continuità del suo passato. I suoi déjà-vu. E se, mettiamo, fosse affetto da amnesia e non ricordasse niente da un giorno all'altro? Ebbene resterebbero sul suo corpo delle cicatrici o dei segni particolari sulla carne e magari sui fogli (i suoi appunti, le sue poesie, la babele di lingue e le parole che lo identificherebbero ancora per renderlo riconoscibile a sé stesso e agli altri).
Concludiamo dunque con Calvino che le condizioni necessarie dell'identità sono due: 1)poter ripetere un'esperienza, sapendo di ripeterla; 2) essere riconoscibile a sé e agli altri.
Già in un altro post si è detto che il poeta è come un sonar o una pulsar che invia sempre lo stesso segnale e ne registra l’eco. Questa analogia da sola basta per definire e catturare anche una identità com-plessa come quella del poeta Patrick McGuinness.
Giorgia Sensi che ha curato in traduzione questa ultima raccolta di poesie di McGuinness ( Déjà-vu, Interno Poesia Editore, 2019) ci aiuta a ricostruire e definire al meglio l’identità del poeta.[2]
Patrick McGuinness è nato a Tunisi nel 1968 da madre belga, di lingua francese, e padre irlandese. Fin dall’infanzia la sua vita è punteggiata da frequenti spostamenti e traslochi (portatili come dice nella sua poesia, Scatole, pg.91), crescendo tra il Belgio e il Venezuela, soggiornando a Teheran nel 1977 durante la rivoluzione, frequentando un college in Inghilterra e vivendo tra il 1986 e il 1987 in Romania durante la dittatura di Ceausescu. Seguirono poi gli anni di Oxford , della sua laurea in francese , del dottorato e quindi della docenza che svolge ancora oggi in letteratura francese preso la stessa Università.
Evidentemente queste esperienze hanno maturato in McGuinness la profonda consapevolezza di essere il risultato di diverse nazionalità, tanto che la sua poesia (come la sua prosa) è impregnata di questo senso di “dislocazione”, di una intricata tessitura linguistica e culturale che ha percepito e fa percepire confini di lingue, culture, spazi e tempi e di una naturale inclinazione a “tradire” e tradirsi: passare da una parte all’altra di Paesi, Lingue, Generi letterari.
I suoi déjà-vu non sono né più e nemmeno che la manifestazione concreta di questa sua belgitudine (Belgitude, pg.29): sentirsi a casa in un altro posto da quello in cui si è ( come avviene per la maggior parte dei belgi).
Dice Giorgia Sensi [2] in proposito che “…parallelo al concetto di dove sia casa è quello dell’identità linguistica e culturale che è presente in tutta la sua opera fin qui pubblicata...": le raccolte poetiche The Canals of Mars (Carcanet, 2004), Jilted City (Carcanet, 2010) con le traduzioni di Giorgia Sensi (I Canali di Marte, poesie scelte, Mobydick, 2006; L’età della sedia vuota, Il ponte del sale, 2010); il romanzo The Last Hundred Days, (Seren, 2011)e il romanzo Throw Me to the Wolves (Jonathan Cape, 2014) che uscirà in traduzione per i tipi di Guanda.
Già da quanto detto finora risulta del tutto plausibile la difficoltà di individuare e circoscrivere una ben precisa identità se poi, come ci dice ancora Calvino [1], insieme all'io dovremmo considerare la presenza d'un super-io e d'un inconscio che vanno per conto loro, allora la cosa diventa ancora più complicata.
Ma senza disturbare super-io o inconscio più o meno collettivo, un poeta, in generale, non sa fino a che punto una data poesia , una data pagina la stia scrivendo il suo io e non piuttosto un suo pseudonimo. McGuinness non fa eccezione a questa ambiguità, tanto che nella nota d’autore in Déjà-vu a pg. 111 lui stesso confessa: “…inventai un poeta, Liviu Campanu, un esiliato apolitico costretto a risiedere a Constanta….nome odierno di Tomis, dove Ovidio passò gli anni dell’ esilio, e infatti Campanu soffre di quello che io ho chiamato ‘Complesso di Ovidio’…Nel romanzo viene citato:…«Mi è venuto in mente un verso del poeta Liviu Campanu», e così via…Campanu è ormai un mio alter ego: scrivo poesie come se fossi lui; penso attraverso di lui, sento attraverso di lui, e ho scritto circa altre venti pagine. Sono io che sono diventato il suo pseudonimo…” .
Chi meglio di Ovidio e del su Complesso può rappresentare la ricerca e l’affermazione di una identità attraverso le sue metamorfosi!
Queste trasformazione, questi passaggi da uno stato ad un altro rappresentano dunque…l’identità di Patrick McGuinness al confine tra le lingue in cui è vissuto e ha sentito, tra il suo essere britannico ed europeo, tra una vita famigliare operaia e quella attuale satura di cultura oxoniana, tra il francese della sua lingua corporale (lingua madre) e il sangue anglosassone del padre e….tutto questo quasi a voler certificare quello che Calvino diceva a conclusione del suo saggio sull’Identità [1]:
“…[forse]lo strumento più raffinato per definire l'identità mi sembra il sistema dei Samo, popolazione africana dell'Alto Volta, che nella persona umana distinguono nove componenti: 1) il corpo, che si riceve dalla madre, 2) il sangue, che si riceve dal padre, 3) l'ombra che il corpo proietta, 4) calore e sudore, 5) il respiro, 6) la vita, o meglio una particella della vita, che è un'entità in cui tutti gli esseri viventi sono immersi, 7) il pensiero, suddiviso in intendimento e coscienza, 8) il doppio, che è la parte immortale, che può compiere e subire le stregonerie (si stacca dal corpo ogni notte per vagare nei sogni, e poi definitivamente qualche anno prima della morte per andare nel villaggio dei morti dove avrà altre due vite e altre due morti da morto, e finalmente s'incarnerà in un albero), 9) il destino individuale…”
Proprio così. Quello di McGuinness è il destino di un poeta che non fa altro che attraversare e riattraversare tutti questi confini , parecchie volte al giorno con una poiesis che se ha una sua unità identitaria va trovata nei passaggi anziché nel passato, lì dove si impara a tenere la bocca chiusa in due lingue (Belgitude, pg. 29).
Déjà-vu
Forgotten as it happens, recalled before it has begun:
two tenses grappling with one instant, one perception.
(pg.104)
[Scordata mentre accade, ricordata prima che abbia avuto inizio:
due tempi si dibattono con un unico istante, un’unica percezione.]
(trad. Giorgia Sensi)
Riferimenti
[1] - Civiltà delle macchine, XXV, 5-6, settembre-dicembre 1977, pp. 43-44
[2] – Poesia, Anno XXXII, Maggio 2019, N.348, pgg.52-61
Per prima cosa una identità si fonda su qualcosa che non cambia nel corso della vita.
Riferendoci a qualcuno che fin dall’infanzia si trasferisce e vive in paesi diversi, che incontra dunque persone diverse, linguaggi diversi, o che cambia scuole e metodi di insegnamento, si adatta a mestieri diversi per guadagnarsi cibi sempre diversi; possiamo dire che questi abbia una sua propria identità ? Certamente sì, perché resterebbero i suoi ricordi, la continuità del suo passato. I suoi déjà-vu. E se, mettiamo, fosse affetto da amnesia e non ricordasse niente da un giorno all'altro? Ebbene resterebbero sul suo corpo delle cicatrici o dei segni particolari sulla carne e magari sui fogli (i suoi appunti, le sue poesie, la babele di lingue e le parole che lo identificherebbero ancora per renderlo riconoscibile a sé stesso e agli altri).
Concludiamo dunque con Calvino che le condizioni necessarie dell'identità sono due: 1)poter ripetere un'esperienza, sapendo di ripeterla; 2) essere riconoscibile a sé e agli altri.
Già in un altro post si è detto che il poeta è come un sonar o una pulsar che invia sempre lo stesso segnale e ne registra l’eco. Questa analogia da sola basta per definire e catturare anche una identità com-plessa come quella del poeta Patrick McGuinness.
Giorgia Sensi che ha curato in traduzione questa ultima raccolta di poesie di McGuinness ( Déjà-vu, Interno Poesia Editore, 2019) ci aiuta a ricostruire e definire al meglio l’identità del poeta.[2]
Patrick McGuinness è nato a Tunisi nel 1968 da madre belga, di lingua francese, e padre irlandese. Fin dall’infanzia la sua vita è punteggiata da frequenti spostamenti e traslochi (portatili come dice nella sua poesia, Scatole, pg.91), crescendo tra il Belgio e il Venezuela, soggiornando a Teheran nel 1977 durante la rivoluzione, frequentando un college in Inghilterra e vivendo tra il 1986 e il 1987 in Romania durante la dittatura di Ceausescu. Seguirono poi gli anni di Oxford , della sua laurea in francese , del dottorato e quindi della docenza che svolge ancora oggi in letteratura francese preso la stessa Università.
Evidentemente queste esperienze hanno maturato in McGuinness la profonda consapevolezza di essere il risultato di diverse nazionalità, tanto che la sua poesia (come la sua prosa) è impregnata di questo senso di “dislocazione”, di una intricata tessitura linguistica e culturale che ha percepito e fa percepire confini di lingue, culture, spazi e tempi e di una naturale inclinazione a “tradire” e tradirsi: passare da una parte all’altra di Paesi, Lingue, Generi letterari.
I suoi déjà-vu non sono né più e nemmeno che la manifestazione concreta di questa sua belgitudine (Belgitude, pg.29): sentirsi a casa in un altro posto da quello in cui si è ( come avviene per la maggior parte dei belgi).
Dice Giorgia Sensi [2] in proposito che “…parallelo al concetto di dove sia casa è quello dell’identità linguistica e culturale che è presente in tutta la sua opera fin qui pubblicata...": le raccolte poetiche The Canals of Mars (Carcanet, 2004), Jilted City (Carcanet, 2010) con le traduzioni di Giorgia Sensi (I Canali di Marte, poesie scelte, Mobydick, 2006; L’età della sedia vuota, Il ponte del sale, 2010); il romanzo The Last Hundred Days, (Seren, 2011)e il romanzo Throw Me to the Wolves (Jonathan Cape, 2014) che uscirà in traduzione per i tipi di Guanda.
Già da quanto detto finora risulta del tutto plausibile la difficoltà di individuare e circoscrivere una ben precisa identità se poi, come ci dice ancora Calvino [1], insieme all'io dovremmo considerare la presenza d'un super-io e d'un inconscio che vanno per conto loro, allora la cosa diventa ancora più complicata.
Ma senza disturbare super-io o inconscio più o meno collettivo, un poeta, in generale, non sa fino a che punto una data poesia , una data pagina la stia scrivendo il suo io e non piuttosto un suo pseudonimo. McGuinness non fa eccezione a questa ambiguità, tanto che nella nota d’autore in Déjà-vu a pg. 111 lui stesso confessa: “…inventai un poeta, Liviu Campanu, un esiliato apolitico costretto a risiedere a Constanta….nome odierno di Tomis, dove Ovidio passò gli anni dell’ esilio, e infatti Campanu soffre di quello che io ho chiamato ‘Complesso di Ovidio’…Nel romanzo viene citato:…«Mi è venuto in mente un verso del poeta Liviu Campanu», e così via…Campanu è ormai un mio alter ego: scrivo poesie come se fossi lui; penso attraverso di lui, sento attraverso di lui, e ho scritto circa altre venti pagine. Sono io che sono diventato il suo pseudonimo…” .
Chi meglio di Ovidio e del su Complesso può rappresentare la ricerca e l’affermazione di una identità attraverso le sue metamorfosi!
Queste trasformazione, questi passaggi da uno stato ad un altro rappresentano dunque…l’identità di Patrick McGuinness al confine tra le lingue in cui è vissuto e ha sentito, tra il suo essere britannico ed europeo, tra una vita famigliare operaia e quella attuale satura di cultura oxoniana, tra il francese della sua lingua corporale (lingua madre) e il sangue anglosassone del padre e….tutto questo quasi a voler certificare quello che Calvino diceva a conclusione del suo saggio sull’Identità [1]:
“…[forse]lo strumento più raffinato per definire l'identità mi sembra il sistema dei Samo, popolazione africana dell'Alto Volta, che nella persona umana distinguono nove componenti: 1) il corpo, che si riceve dalla madre, 2) il sangue, che si riceve dal padre, 3) l'ombra che il corpo proietta, 4) calore e sudore, 5) il respiro, 6) la vita, o meglio una particella della vita, che è un'entità in cui tutti gli esseri viventi sono immersi, 7) il pensiero, suddiviso in intendimento e coscienza, 8) il doppio, che è la parte immortale, che può compiere e subire le stregonerie (si stacca dal corpo ogni notte per vagare nei sogni, e poi definitivamente qualche anno prima della morte per andare nel villaggio dei morti dove avrà altre due vite e altre due morti da morto, e finalmente s'incarnerà in un albero), 9) il destino individuale…”
Proprio così. Quello di McGuinness è il destino di un poeta che non fa altro che attraversare e riattraversare tutti questi confini , parecchie volte al giorno con una poiesis che se ha una sua unità identitaria va trovata nei passaggi anziché nel passato, lì dove si impara a tenere la bocca chiusa in due lingue (Belgitude, pg. 29).
Déjà-vu
Forgotten as it happens, recalled before it has begun:
two tenses grappling with one instant, one perception.
(pg.104)
[Scordata mentre accade, ricordata prima che abbia avuto inizio:
due tempi si dibattono con un unico istante, un’unica percezione.]
(trad. Giorgia Sensi)
Riferimenti
[1] - Civiltà delle macchine, XXV, 5-6, settembre-dicembre 1977, pp. 43-44
[2] – Poesia, Anno XXXII, Maggio 2019, N.348, pgg.52-61
giovedì 18 aprile 2019
Fabrizio Lombardo: la subdola inclinazione
Il poeta bolognese Fabrizio Lombardo è stato il primo ospite della rassegna di poesia, Canoni In-versi , organizzata dal Servizio Biblioteche e Archivi del Comune di Ferrara e curata dal Direttore della Biblioteca Ariostea, Angelo Andreotti.
I poeti invitati a Canoni in-versi dovranno, secondo le intenzioni dei curatori, “…mettere in gioco la loro poesia mostrando il cantiere nella quale si è formata. Si parlerà dunque non soltanto di poesia, ma anche di narrativa, musica, cinema, e insomma di tutto ciò che accompagna e nutre l’esperienza poetica. Verranno rivelate le mappe nascoste all’interno dei loro versi, l’ambiente emotivo e culturale che li ha nutriti….”
(https://www.estense.com/?p=771108).
Per esempio Fabrizio Lombardo ha aperto il rotolo della sua cartografia poetica, rivelando il paesaggio in cui si è mosso e continua a muoversi il suo lavoro poetico: abbiamo così sentito parlare di Kafka e T.S. Eliot; Joy Division e Leonard Cohen; Antonio Porta e Roberto Roversi; Michelangelo Antonioni e i videoclip di Jonathan Glazer.
Già da questo primo appuntamento quindi è stato possibile apprezzare quanti e quali sono i canoni che entrano nei versi di un poeta.
Fabrizio Lombardo è nato a Bologna nel 1968 e lavora per una catena di librerie. È redattore di Versodove – rivista di letteratura che ha contribuito a fondare nel 1994 e con la quale cura la rassegna Passaggi di versi all’interno di “Passaggi Festival della Saggistica” di Fano. Ha pubblicato Carte del cielo (VersodoveTesti 1999), Confini provvisori (Edizioni Joker 2008), le plaquette Il cerchio e il silenzio (Squadro Edizioni Grafiche 1995) e di quello che resta (Quaderni di poesia 1998). Sue raccolte sono presenti in numerose antologie.
Il suo ultimo libro è Coordinate per la crudeltà (Edizioni Kurumuny 2018) che seleziona gli ultimi 10 anni di… raccolto.
Non si sbaglia nel sottolineare un aspetto geografico della poesia di Lombardo ( i titoli passati e quest’ultimo ne sono la dimostrazione): il Poeta assume questo ruolo di cartografo in grado di segnalare “voi siete qui” o di tentare l’accenno di un percorso dal passato o tratteggiare quello verso un futuro. Evidentemente oggi più che mai, in un mondo dove tutto si confonde, è ancora più complicato fare il punto, trovare dunque un origine ( un punto di partenza, una identità) e tracciare delle coordinate precise in grado , come dice Lombardo, di separare/unire la memoria del passato e il rumore del presente o soltanto riconoscere un sopra e un sotto:
***
solo la dissonanza ci descrive. un modo per dire
che tutto quello che è venuto a mancare – non l’amore
intendo (non qui), ma il rancore/la gola che brucia,
la voce inceppata, raccolta dietro i vetri,
fra i libri, o fra le giunture delle mani – è un altro
silenzio ancora/una memoria che dobbiamo - tu e io –
mescolare a questo rumore/perché possa appartenerci ancora.
(pg. 29)
Da questa difficoltà nasce un senso di smarrimento: “…il tormento di non trovare una via di fuga, quasi la constatazione remissiva dell’impossibilità di reagire”, sensazione “che colma tutta la prima sezione del libro”, dove vengono ospitate ” le false partenze di un’accettazione passiva, che forse cela l’abitudine (o, peggio, la rassegnazione) all’indifferenza di una intera generazione…”
( http://www.angeloandreotti.it/fabrizio-lombardo-coordinate-per-la-crudelta-kurumuny-2018/).
(a proposito di generazioni)
è inutile aspettarsi ancora qualcosa da noi
non siamo altro che resti da conservare
nemmeno con cura. Di cui pentirsi
e confessare d’aver scritto troppo
troppo pensato/detto e messo in fila.
Sorpresi da un giro di carte che non possiamo
più giocare passiamo la mano/invece di barare
(pg.45)
In soli 50 anni, diciamo dall’allunaggio, abbiamo abusato delle nostre capacità nella conquista e nello sfruttamento della Natura (anche della nostra natura umana!). In questo delirio di onnipotenza ed autosufficienza siamo giunti al termine di ciò che poteva essere consumato e del consumabile, siamo rotolati nella più cruda delle realtà: alla fin fine, abbiamo scoperto, che noi tutti dipendiamo dalle cose che dipendono da noi.
***
nel capogiro della luce scrivo una cartolina
per ricordarmi di cancellare il libro dall’hard disk/
per dirti di impedirmelo, per ricordarmi la lista della spesa.
(pg.37)
Così in questo amaro risveglio non ci resta che organizzare…il vuoto prodotto da questo disordine (già, il pieno è vuoto e viceversa, come insegnano i metafisici indù) partendo dalla ricostruzione di un sistema di coordinate adatto a mappare il mondo globale nel modo più crudo possibile perché
***
Sveglio/nel silenzio che precede le parole
cercando le crepe, i nascondigli in cui ritrarre la vita.
Nessuno ha saputo niente, ancora. Neppure noi
sappiamo come vivremo domani.
(pg. 61)
Non possiamo evitare di soffermarci sul tratto inclinato, quella subdola inclinazione che appare in quasi tutte le poesie di Lombardo quasi a voler scrivere (e leggere) una deviazione casuale delle parole nel tempo e nello spazio per agevolare così, nel corso della loro caduta nel vuoto, un incontro, un verso giusto.
Come dice Caterina Serra nelle Note a margine della raccolta di Lombardo (pg.9): “Non è che si può far finta di non vederla, soprattutto che non ci sia. Quella barra che spezza il verso, che separa le parole e allo stesso tempo le vuole unite, in una relazione che non prevede un sopra e un sotto…”.
Ma a differenza di quanto lei conclude , io credo che "la barra è obliqua" per aiutare a scivolare verso l'essere, per agevolare un'uscita, per convogliare il traffico verso un casello e finalmente imboccare un raccordo. E, se non proprio aiuterà ad arrivare da qualche parte, si continuerà per lo meno ad andare.
Quella deviazione casuale, da clinamen lucreziano, è un piano inclinato sull' attesa. Sulla sorpresa, o su questa nostra voglia di attendere/qualcosa/qualcuno che possa ancora sorprenderci.
La subdola inclinazione di Lombardo è quel Caso benedetto generatore di Caos-Ordine, di quegli attrezzi indispensabili, per fare.
Per organizzare il nostro vuoto quotidiano. Per sapere che “siamo qui”. Per riempire gli scaffali. Per scrivere Poesia.
***
Un’alba di lontananze, visi stanchi, autobus deserti.
Ma poi cos’è davvero che ci riguarda, in questa strada grigia
quasi sottoterra, alle 5.00 di mattina. Spiove.
Come in un film di De Sica rifatto da Loach. C’è anche il tempo
di dire due cazzate prima di entrare. Nel cielo artificiale,
dietro l’insegna dell’ipermercato. Alle nove gli scaffali saranno pieni.
(pg.106)
I poeti invitati a Canoni in-versi dovranno, secondo le intenzioni dei curatori, “…mettere in gioco la loro poesia mostrando il cantiere nella quale si è formata. Si parlerà dunque non soltanto di poesia, ma anche di narrativa, musica, cinema, e insomma di tutto ciò che accompagna e nutre l’esperienza poetica. Verranno rivelate le mappe nascoste all’interno dei loro versi, l’ambiente emotivo e culturale che li ha nutriti….”
(https://www.estense.com/?p=771108).
Per esempio Fabrizio Lombardo ha aperto il rotolo della sua cartografia poetica, rivelando il paesaggio in cui si è mosso e continua a muoversi il suo lavoro poetico: abbiamo così sentito parlare di Kafka e T.S. Eliot; Joy Division e Leonard Cohen; Antonio Porta e Roberto Roversi; Michelangelo Antonioni e i videoclip di Jonathan Glazer.
Già da questo primo appuntamento quindi è stato possibile apprezzare quanti e quali sono i canoni che entrano nei versi di un poeta.
Fabrizio Lombardo è nato a Bologna nel 1968 e lavora per una catena di librerie. È redattore di Versodove – rivista di letteratura che ha contribuito a fondare nel 1994 e con la quale cura la rassegna Passaggi di versi all’interno di “Passaggi Festival della Saggistica” di Fano. Ha pubblicato Carte del cielo (VersodoveTesti 1999), Confini provvisori (Edizioni Joker 2008), le plaquette Il cerchio e il silenzio (Squadro Edizioni Grafiche 1995) e di quello che resta (Quaderni di poesia 1998). Sue raccolte sono presenti in numerose antologie.
Il suo ultimo libro è Coordinate per la crudeltà (Edizioni Kurumuny 2018) che seleziona gli ultimi 10 anni di… raccolto.
Non si sbaglia nel sottolineare un aspetto geografico della poesia di Lombardo ( i titoli passati e quest’ultimo ne sono la dimostrazione): il Poeta assume questo ruolo di cartografo in grado di segnalare “voi siete qui” o di tentare l’accenno di un percorso dal passato o tratteggiare quello verso un futuro. Evidentemente oggi più che mai, in un mondo dove tutto si confonde, è ancora più complicato fare il punto, trovare dunque un origine ( un punto di partenza, una identità) e tracciare delle coordinate precise in grado , come dice Lombardo, di separare/unire la memoria del passato e il rumore del presente o soltanto riconoscere un sopra e un sotto:
***
solo la dissonanza ci descrive. un modo per dire
che tutto quello che è venuto a mancare – non l’amore
intendo (non qui), ma il rancore/la gola che brucia,
la voce inceppata, raccolta dietro i vetri,
fra i libri, o fra le giunture delle mani – è un altro
silenzio ancora/una memoria che dobbiamo - tu e io –
mescolare a questo rumore/perché possa appartenerci ancora.
(pg. 29)
Da questa difficoltà nasce un senso di smarrimento: “…il tormento di non trovare una via di fuga, quasi la constatazione remissiva dell’impossibilità di reagire”, sensazione “che colma tutta la prima sezione del libro”, dove vengono ospitate ” le false partenze di un’accettazione passiva, che forse cela l’abitudine (o, peggio, la rassegnazione) all’indifferenza di una intera generazione…”
( http://www.angeloandreotti.it/fabrizio-lombardo-coordinate-per-la-crudelta-kurumuny-2018/).
(a proposito di generazioni)
è inutile aspettarsi ancora qualcosa da noi
non siamo altro che resti da conservare
nemmeno con cura. Di cui pentirsi
e confessare d’aver scritto troppo
troppo pensato/detto e messo in fila.
Sorpresi da un giro di carte che non possiamo
più giocare passiamo la mano/invece di barare
(pg.45)
In soli 50 anni, diciamo dall’allunaggio, abbiamo abusato delle nostre capacità nella conquista e nello sfruttamento della Natura (anche della nostra natura umana!). In questo delirio di onnipotenza ed autosufficienza siamo giunti al termine di ciò che poteva essere consumato e del consumabile, siamo rotolati nella più cruda delle realtà: alla fin fine, abbiamo scoperto, che noi tutti dipendiamo dalle cose che dipendono da noi.
***
nel capogiro della luce scrivo una cartolina
per ricordarmi di cancellare il libro dall’hard disk/
per dirti di impedirmelo, per ricordarmi la lista della spesa.
(pg.37)
Così in questo amaro risveglio non ci resta che organizzare…il vuoto prodotto da questo disordine (già, il pieno è vuoto e viceversa, come insegnano i metafisici indù) partendo dalla ricostruzione di un sistema di coordinate adatto a mappare il mondo globale nel modo più crudo possibile perché
***
Sveglio/nel silenzio che precede le parole
cercando le crepe, i nascondigli in cui ritrarre la vita.
Nessuno ha saputo niente, ancora. Neppure noi
sappiamo come vivremo domani.
(pg. 61)
Non possiamo evitare di soffermarci sul tratto inclinato, quella subdola inclinazione che appare in quasi tutte le poesie di Lombardo quasi a voler scrivere (e leggere) una deviazione casuale delle parole nel tempo e nello spazio per agevolare così, nel corso della loro caduta nel vuoto, un incontro, un verso giusto.
Come dice Caterina Serra nelle Note a margine della raccolta di Lombardo (pg.9): “Non è che si può far finta di non vederla, soprattutto che non ci sia. Quella barra che spezza il verso, che separa le parole e allo stesso tempo le vuole unite, in una relazione che non prevede un sopra e un sotto…”.
Ma a differenza di quanto lei conclude , io credo che "la barra è obliqua" per aiutare a scivolare verso l'essere, per agevolare un'uscita, per convogliare il traffico verso un casello e finalmente imboccare un raccordo. E, se non proprio aiuterà ad arrivare da qualche parte, si continuerà per lo meno ad andare.
Quella deviazione casuale, da clinamen lucreziano, è un piano inclinato sull' attesa. Sulla sorpresa, o su questa nostra voglia di attendere/qualcosa/qualcuno che possa ancora sorprenderci.
La subdola inclinazione di Lombardo è quel Caso benedetto generatore di Caos-Ordine, di quegli attrezzi indispensabili, per fare.
Per organizzare il nostro vuoto quotidiano. Per sapere che “siamo qui”. Per riempire gli scaffali. Per scrivere Poesia.
***
Un’alba di lontananze, visi stanchi, autobus deserti.
Ma poi cos’è davvero che ci riguarda, in questa strada grigia
quasi sottoterra, alle 5.00 di mattina. Spiove.
Come in un film di De Sica rifatto da Loach. C’è anche il tempo
di dire due cazzate prima di entrare. Nel cielo artificiale,
dietro l’insegna dell’ipermercato. Alle nove gli scaffali saranno pieni.
(pg.106)
lunedì 15 aprile 2019
La capacità della poesia: la prosoché
Nello stesso momento in cui la radiazione partita 55 milioni di anni fa dalla galassia M87 in Virgo A arrivava qui sulla Terra , è uscita l’ultima raccolta poetica di Angelo Andreotti: L’attenzione, per i tipi di Puntoeacapo, con una curatissima prefazione di Antonio Prete.
A onor del vero, l’arrivo vero e proprio nelle librerie terrestri della raccolta di Andreotti, è previsto per il prossimo mese di maggio, ma questo è un post relativistico e sono ammesse distorsioni spazio-temporali come quelle che accadono (accadrebbero) sull’orizzonte degli eventi del Buco Nero al centro di M87.
Nulla di anomalo e misterioso dunque sul fatto che si possa parlare di un libro che non è ancora disponibile!
Fortunatamente qualche anticipazione sulla raccolta è già fruibile in rete (www.ferraraitalia.com) e così, grazie a questo breve ascolto, è possibile farsi un’idea del canto o, meglio, come spiegheremo: da questo breve canto è possibile farsi un’idea dell’ascolto.
Ho sempre pensato che quella di Andreotti fosse una poesia di ...confine, una poesia fatta da (per/su) un punto d'osservazione speciale; un orizzonte che separa e, contemporaneamente, salda un mondo ad un altro, uno esterno ad un interno. Essere osservatori e osservati su questa superficie o, solamente, accogliere ciò che viene osservato ( ovvero si lascia osservare), richiede una particolare predisposizione, una capacità, se non una vera e propria saggezza come quella che gli stoici - e successivamente i buddhisti fino ad arrivare agli scienziati moderni senza distinzioni tra fisici, biologi e neurofisiologi – hanno chiamato prosoché (attenzione).
Su questa superficie infatti l’ascolto è molto complicato per via dell’ammaliante voce di sirene antiche e nuove. Rilevare l’ascoltato per renderlo canto è dunque operazione difficilissima quasi quanto quella di catturare la “foto” di un buco nero distante 55 milioni di ANNI-luce.
A proposito della foto (che propriamente foto non è): questa - chiamiamola più propriamente - elaborazione di un buco nero non è niente altro che una traduzione di segnali radio in segnali visivi, una traduzione analoga dunque a quella che tenta di fare un poeta.
Il poeta di fatto traduce un debole segnale - qualcosa che dunque rileva con difficoltà- in un vero e proprio segno, in una visione, in una immagine.
Il grande compito della Poesia è proprio questo, tentare l’impossibile: far coincidere il Sentito con il Canto!
E per arrivare a questo ci vuole una…attenzione stoica.
Non è tardi
Nel declino di un mondo inguantato
la nudità del corpo ti protegge,
quel suo sentire, quel tuo aspro tremore
che tu credi di ignorare
mentre sprofondi dentro a quello sguardo,
silenziosissimo, che hanno gli uccisi.
L’immagine del mondo inguantato ci apre subito a questo sentire del poeta, alla necessaria separazione/riparazione di due mondi reciprocamente separati e protetti da una superficie: il poeta , oggi, si trova su questa particolare linea di demarcazione tra Natura e Storia. E qui con il termine Natura intendiamo tutto ciò che da essa abbiamo imparato tanto da integrare al suo interno, in modo continuo, la comparsa e l’evoluzione della nostra specie fino alla singola vita del singolo individuo (diciamo Einstein).
Ed evidentemente quindi per Storia non possiamo che intendere ( e comprendere), oltre ai fatti riguardanti l’evoluzione delle società umane, anche la singola biografia di uno scienziato come Einstein che ha contribuito alla conoscenza della Natura compresa quella propria, umana.
Questa reciproca penetrazione può essere ben rappresentata dalle nuove relazioni (non più lineari, determinate e continue) esistenti tra i concetti di spazio e tempo e quelli di causa ed effetto.
La inerme nudità che paradossalmente protegge questo sentire non è più un’attenzione di tipo razionale, non è cosa materiale (il guanto) ma è proprio quell’aspro tremore dal quale l’uomo è posseduto allorché rinuncia a(l) sé, o meglio recupera tutto sé e per questo fa poesia: per questo si è fatto poeta.
Qui mi pare di intravvedere una nota mistica, in quanto, davvero, sprofondare dentro a quello sguardo silenziosissimo ricorda l’attenzione che il Poeta riesce a prestare al segnale. Ma allo stesso tempo rimanda a quella sua innata necessità di rispondere al segnale con un canto altrettanto silenzioso, un discorso interiore configurabile in una vera e propria… preghiera (proseuché).
È in questa sospensione di giudizio e incredulità che nasce la Poesia.
Resta che quando un ascoltato così profondo si fa canto e con esso coincide, quel segnale lontanissimo, confuso, disturbato e silenzioso, partito da chissà dove, da chissà quanto tempo, si concretizza in un verso netto, chiaro ed evidente se non proprio in una parola che si fa sentire nel suo splendore.
Il fulcro
Più lontano di tutto è l’orizzonte,
non i pianeti, né il fondo del mare,
ma quell’irraggiungibile e sfuggente
assedio dello sguardo dove il tempo
si rivolta in se stesso, si pietrifica
pur di non misurare le distanze.
Ma chi dall’orizzonte si avvicina
non conosce confini, né se il tempo
ha per misura un passo dopo l’altro,
soltanto
sa che alla terra si appoggia il suo cielo
e che il confine è un bottino di guerra.
Più lontano di tutto ci sei tu,
talmente inerte che dell’orizzonte
sei punta di compasso dentro a un cerchio
che ha mura d’aria ottuse come specchi.
E non è forse qui, non è forse questa la migliore definizione - veramente LA foto migliore - di un orizzonte degli eventi? Quell’irraggiungibile e sfuggente assedio dello sguardo dove il tempo si rivolta in se stesso, si pietrifica pur di non misurare le distanze?
Andreotti ha questa capacità: in un mondo in cui la Natura si fa Storia (ovvero la biografia si fa conoscenza) lui si pone sull’orizzonte degli eventi su quella superficie di demarcazione da dove invia fedelmente sempre lo stesso identico segnale con il ritmo e il verso giusto.
Sull’orizzonte degli eventi infatti il tempo si rivolta in se stesso e si pietrifica in un spazio pieno-vuoto fino a non essere più… misurabile. Ma questo è un problema per chi sta fuori, all’esterno di questa superficie che separa luce da buio. Spazio da tempo. Causa da effetto.
Il poeta che è invece lì su quell’orizzonte, grazie alla sua particolare posizione e attenzione riesce ad …ascoltare i segnali più deboli e a trasformarli in immagini nitide, assolute quasi miracolose. Lì, per lui, il tempo e lo spazio restano misurabili dal ritmo della sua poesia ed è convinto che con il …passare del tempo qualcuno dall’altra parte del … cerchio che ha mura d’aria ottuse come specchi, riceverà il messaggio.
E arriverà, non a tutti contemporaneamente, ma certamente quel messaggio arriverà come un suono partito da così lontano prima ancora che si potesse ascoltare o vedere.
Come questo post relativistico: letto prima che venisse scritto.
A onor del vero, l’arrivo vero e proprio nelle librerie terrestri della raccolta di Andreotti, è previsto per il prossimo mese di maggio, ma questo è un post relativistico e sono ammesse distorsioni spazio-temporali come quelle che accadono (accadrebbero) sull’orizzonte degli eventi del Buco Nero al centro di M87.
Nulla di anomalo e misterioso dunque sul fatto che si possa parlare di un libro che non è ancora disponibile!
Fortunatamente qualche anticipazione sulla raccolta è già fruibile in rete (www.ferraraitalia.com) e così, grazie a questo breve ascolto, è possibile farsi un’idea del canto o, meglio, come spiegheremo: da questo breve canto è possibile farsi un’idea dell’ascolto.
Ho sempre pensato che quella di Andreotti fosse una poesia di ...confine, una poesia fatta da (per/su) un punto d'osservazione speciale; un orizzonte che separa e, contemporaneamente, salda un mondo ad un altro, uno esterno ad un interno. Essere osservatori e osservati su questa superficie o, solamente, accogliere ciò che viene osservato ( ovvero si lascia osservare), richiede una particolare predisposizione, una capacità, se non una vera e propria saggezza come quella che gli stoici - e successivamente i buddhisti fino ad arrivare agli scienziati moderni senza distinzioni tra fisici, biologi e neurofisiologi – hanno chiamato prosoché (attenzione).
Su questa superficie infatti l’ascolto è molto complicato per via dell’ammaliante voce di sirene antiche e nuove. Rilevare l’ascoltato per renderlo canto è dunque operazione difficilissima quasi quanto quella di catturare la “foto” di un buco nero distante 55 milioni di ANNI-luce.
A proposito della foto (che propriamente foto non è): questa - chiamiamola più propriamente - elaborazione di un buco nero non è niente altro che una traduzione di segnali radio in segnali visivi, una traduzione analoga dunque a quella che tenta di fare un poeta.
Il poeta di fatto traduce un debole segnale - qualcosa che dunque rileva con difficoltà- in un vero e proprio segno, in una visione, in una immagine.
Il grande compito della Poesia è proprio questo, tentare l’impossibile: far coincidere il Sentito con il Canto!
E per arrivare a questo ci vuole una…attenzione stoica.
Non è tardi
Nel declino di un mondo inguantato
la nudità del corpo ti protegge,
quel suo sentire, quel tuo aspro tremore
che tu credi di ignorare
mentre sprofondi dentro a quello sguardo,
silenziosissimo, che hanno gli uccisi.
L’immagine del mondo inguantato ci apre subito a questo sentire del poeta, alla necessaria separazione/riparazione di due mondi reciprocamente separati e protetti da una superficie: il poeta , oggi, si trova su questa particolare linea di demarcazione tra Natura e Storia. E qui con il termine Natura intendiamo tutto ciò che da essa abbiamo imparato tanto da integrare al suo interno, in modo continuo, la comparsa e l’evoluzione della nostra specie fino alla singola vita del singolo individuo (diciamo Einstein).
Ed evidentemente quindi per Storia non possiamo che intendere ( e comprendere), oltre ai fatti riguardanti l’evoluzione delle società umane, anche la singola biografia di uno scienziato come Einstein che ha contribuito alla conoscenza della Natura compresa quella propria, umana.
Questa reciproca penetrazione può essere ben rappresentata dalle nuove relazioni (non più lineari, determinate e continue) esistenti tra i concetti di spazio e tempo e quelli di causa ed effetto.
La inerme nudità che paradossalmente protegge questo sentire non è più un’attenzione di tipo razionale, non è cosa materiale (il guanto) ma è proprio quell’aspro tremore dal quale l’uomo è posseduto allorché rinuncia a(l) sé, o meglio recupera tutto sé e per questo fa poesia: per questo si è fatto poeta.
Qui mi pare di intravvedere una nota mistica, in quanto, davvero, sprofondare dentro a quello sguardo silenziosissimo ricorda l’attenzione che il Poeta riesce a prestare al segnale. Ma allo stesso tempo rimanda a quella sua innata necessità di rispondere al segnale con un canto altrettanto silenzioso, un discorso interiore configurabile in una vera e propria… preghiera (proseuché).
È in questa sospensione di giudizio e incredulità che nasce la Poesia.
Resta che quando un ascoltato così profondo si fa canto e con esso coincide, quel segnale lontanissimo, confuso, disturbato e silenzioso, partito da chissà dove, da chissà quanto tempo, si concretizza in un verso netto, chiaro ed evidente se non proprio in una parola che si fa sentire nel suo splendore.
Il fulcro
Più lontano di tutto è l’orizzonte,
non i pianeti, né il fondo del mare,
ma quell’irraggiungibile e sfuggente
assedio dello sguardo dove il tempo
si rivolta in se stesso, si pietrifica
pur di non misurare le distanze.
Ma chi dall’orizzonte si avvicina
non conosce confini, né se il tempo
ha per misura un passo dopo l’altro,
soltanto
sa che alla terra si appoggia il suo cielo
e che il confine è un bottino di guerra.
Più lontano di tutto ci sei tu,
talmente inerte che dell’orizzonte
sei punta di compasso dentro a un cerchio
che ha mura d’aria ottuse come specchi.
E non è forse qui, non è forse questa la migliore definizione - veramente LA foto migliore - di un orizzonte degli eventi? Quell’irraggiungibile e sfuggente assedio dello sguardo dove il tempo si rivolta in se stesso, si pietrifica pur di non misurare le distanze?
Andreotti ha questa capacità: in un mondo in cui la Natura si fa Storia (ovvero la biografia si fa conoscenza) lui si pone sull’orizzonte degli eventi su quella superficie di demarcazione da dove invia fedelmente sempre lo stesso identico segnale con il ritmo e il verso giusto.
Sull’orizzonte degli eventi infatti il tempo si rivolta in se stesso e si pietrifica in un spazio pieno-vuoto fino a non essere più… misurabile. Ma questo è un problema per chi sta fuori, all’esterno di questa superficie che separa luce da buio. Spazio da tempo. Causa da effetto.
Il poeta che è invece lì su quell’orizzonte, grazie alla sua particolare posizione e attenzione riesce ad …ascoltare i segnali più deboli e a trasformarli in immagini nitide, assolute quasi miracolose. Lì, per lui, il tempo e lo spazio restano misurabili dal ritmo della sua poesia ed è convinto che con il …passare del tempo qualcuno dall’altra parte del … cerchio che ha mura d’aria ottuse come specchi, riceverà il messaggio.
E arriverà, non a tutti contemporaneamente, ma certamente quel messaggio arriverà come un suono partito da così lontano prima ancora che si potesse ascoltare o vedere.
Come questo post relativistico: letto prima che venisse scritto.
venerdì 1 marzo 2019
Il Fondamento Speranza di Silvia Belcastro
Oltre all’occasione in poesia esiste anche un’urgenza.
Se la prima apre alla possibilità di trovare un varco, una epifania attraverso ciò che, appunto, ac-cade in un preciso spazio-tempo, la seconda, che preme e sollecita, chiede che questa inestricabile ma(ta)ssa di Materia-Verbo si tramuti in un verso (giusto);che questi emerga sulla carta , su una parete, su uno schermo quasi che fosse esso stesso a scriversi e… prendersi vita.
Occasione e urgenza (caso e necessità dunque) spingono il poeta a cercare un foglietto nelle tasche mentre cammina o a fissare su un'agenda una veloce serie di parole per “commemorare” un evento; a ex-muoverlo per rendere fisica quell' “illuminazione” momentanea e fugace, perché non sfugga come il sogno che si dimentica al mattino.
Ma se l’occasione si svolge nell’attimo e se non è colta (in tutti i sensi) potrebbe scomparire per sempre e mai fare ritorno (per lo meno nelle stesse identiche condizioni), l’urgenza resta, perdura, convive con il poeta a lungo. Molto a lungo. Tanto da diventare il motore dell’Occasione.
Nella città di formiche di luce opera finalmente ultima(ta) di Silvia Belcastro (Edizioni Kolibris, Ferrara 2018) Occasione e Urgenza si danno convegno per donarci una delle raccolte poetiche più intense di questo comune spazio-tempo e lo fanno cercando di mettere ordine in questa inestricabile matassa di Pieno e Vuoto che ci vede tutti, indistintamente, aggrovigliati.
Come è già stato detto da Loredana Bondi «In questa città delle formiche di luce, in fondo, c’è la storia di un’umanità che cerca di comprendere il non senso dell’immane dolore che ci circonda, per trovare qualche frammento di luce in tanti piccoli segni e cantarne la bellezza, scoprendo le voci, i suoni e colori che stanno nell’aria e provare a vivere».[1]
Ma questo viaggio seppur comune a tutti non può che cominciare e terminare nello stesso modo: da soli.
La partenza di Ulisse (pg.27)
Alle mie spalle un feticcio di sterpi
legato in bianche catene di luce,
cicatrici di un baco che tesse
dell’infanzia il profumo di mille ferite.
Ho scavato una fossa sotto la quercia antica.
Ho sepolto il manufatto degli dei.
È un’opera d’arte il mio dolore amuleto
a cui ho appuntato un fiore rosso.
Rosso fiore di giugno.
Anima mia hai gettato una pietra
sul tempo passato a parole
che salivano al buio come fumo.
Il tuo ventre covava una gemma, l’Inizio
nel silenzio attonito della nostra Fine.
Sono partito! Gravido anch’io di un
frammento di luce, nel buio.
Questa solitudine con cui la poetessa si accompagna e ci accompagna in questo viaggio (che riveliamo essere iniziatico) ha delle sfumature e un retrogusto diversi: varrà la pena ricordare che secondo il filosofo Ibn Abī Sufyān tre sono le occasioni in cui l’anima sperimenta una intensa solitudine: «…il giorno della nascita perché vede la sua anima dipartirsi; il giorno della morte, perché vede esseri che non conosceva; il giorno della resurrezione, perché vedrà la sua anima in un assembramento intenso» [2]
Nella Prima parte della raccolta (La notte del riformatorio) la solitudine è, per così dire, infantile. Nella Seconda parte, La città e il vuoto, si sperimenta una solitudine particellare, di abbandonati, di cani randagi: potremmo pensare a quella solitudine liquida che tenta di convincerci, soprattutto digitalmente, di una vicinanza che non c’è
Sera di fine gennaio (pg.37)
Un uomo suona in piazza
le sue bottiglie di birra.
Tintinna nella nebbia
il valzer dei sopravvissuti,
come un ricordo tenuto in vita
in un bicchiere di whisky.
Un’anziana coppia passeggia,
lenta lenta, sull’orlo
di una nuvola opaca.
Lui le cinge la vita, fra le briciole
che anche i piccioni hanno dimenticato
e via!, nella piazza,
attraversano la nebbia
a passo di mazurca.
Questa nebbia a cui volevamo male
è il nostro discorso preferito.
Ci aggrappiamo a questo dolore sfilacciato,
afferriamo il nulla
pur di continuare a parlare un altro po’.
Questa solitudine adulta diventa però un’occasione per l’abbandono inteso come azione tanto transitiva (essere abbandonati) che intransitiva (abbandonarsi)
Nella foresta (pg.42)
Nella foresta, mentre vi affannate
per uno straccio sudicio di gloria,
il sole tramonta nella più sacra cattedrale.
Dio se ne sta a dormire
sotto una foglia bagnata di pioggia,
e non sa nulla di voi.
Il seme di primavera (46)
Ora so che non ho scampo.
Ho cercato fino ad oggi
questa quiete, questo acquazzone
di speranza nella notte.
In verità non voglio sopravvivere
ai tuoi occhi, preferisco rinascere
domani
Nella Terza parte, la fine del viaggio dunque, troviamo la solitudine di chi si è liberato dalla solitudine: tutta un’altra storia. Una storia più lunga della Storia.
Amal (pg. 57)
Il tuo nome
è come gioco di conchiglia.
Non nata,
già vivi;
non sei, ovunque sei
- come il vento.
Come l’aria d’aprile bisbigli
una promessa senza nome.
Ci scompigli i capelli,
ci fai voltare
per poi nasconderti
dietro un cespuglio appena fiorito.
Assente,
sei una presenza.
Figlia mia,
speranza.
Se caso e necessità - l’occasione e l’urgenza della poesia - possono sembrare il più delle volte tesi ad affermare fieramente e in modo disincantato la solitudine dell’uomo, straniero all’Universo, la Belcastro ha invece fatto della sua Urgenza il motore delle Occasioni illuminando la parola Speranza come se riempisse la ciotola piena di te della famosa storiella zen [3] per svuotarla!
Se la speranza viene posta come Fondamento – non principio – della ragione significa che senza Questa speranza non possiamo darci delle buone ragioni per le cose che accadono, anche per quel dato dolore irragionevole e senza alcuna spiegazione.
La speranza, come dice anche S. Paolo, non è un principio logico ma è una disposizione del cuore umano e senza questa disposizione ogni spiegazione, ogni ragionamento ogni tentativo di comprensione è privo di fondamento.
L’ occasione-urgenza poetica di Silvia è (scusate se è “poco”) tutta qui: nel fondamento speranza.
La collana (pg.61)
Ultimo resta il corallo,
quel che chiamiamo speranza,
rosso su bianco.
Riferimenti
[1] - Loredana Bondi, Ferrara Italia 08 giugno 2018;
[2] - cit. in Hervé Clerc A Dio per la parete nord, Adelphi, 2018;
[3] - 101 Storie Zen pg. 13, Adelphi 1973 a cura di N. Senzaki e P. Reps.
Se la prima apre alla possibilità di trovare un varco, una epifania attraverso ciò che, appunto, ac-cade in un preciso spazio-tempo, la seconda, che preme e sollecita, chiede che questa inestricabile ma(ta)ssa di Materia-Verbo si tramuti in un verso (giusto);che questi emerga sulla carta , su una parete, su uno schermo quasi che fosse esso stesso a scriversi e… prendersi vita.
Occasione e urgenza (caso e necessità dunque) spingono il poeta a cercare un foglietto nelle tasche mentre cammina o a fissare su un'agenda una veloce serie di parole per “commemorare” un evento; a ex-muoverlo per rendere fisica quell' “illuminazione” momentanea e fugace, perché non sfugga come il sogno che si dimentica al mattino.
Ma se l’occasione si svolge nell’attimo e se non è colta (in tutti i sensi) potrebbe scomparire per sempre e mai fare ritorno (per lo meno nelle stesse identiche condizioni), l’urgenza resta, perdura, convive con il poeta a lungo. Molto a lungo. Tanto da diventare il motore dell’Occasione.
Nella città di formiche di luce opera finalmente ultima(ta) di Silvia Belcastro (Edizioni Kolibris, Ferrara 2018) Occasione e Urgenza si danno convegno per donarci una delle raccolte poetiche più intense di questo comune spazio-tempo e lo fanno cercando di mettere ordine in questa inestricabile matassa di Pieno e Vuoto che ci vede tutti, indistintamente, aggrovigliati.
Come è già stato detto da Loredana Bondi «In questa città delle formiche di luce, in fondo, c’è la storia di un’umanità che cerca di comprendere il non senso dell’immane dolore che ci circonda, per trovare qualche frammento di luce in tanti piccoli segni e cantarne la bellezza, scoprendo le voci, i suoni e colori che stanno nell’aria e provare a vivere».[1]
Ma questo viaggio seppur comune a tutti non può che cominciare e terminare nello stesso modo: da soli.
La partenza di Ulisse (pg.27)
Alle mie spalle un feticcio di sterpi
legato in bianche catene di luce,
cicatrici di un baco che tesse
dell’infanzia il profumo di mille ferite.
Ho scavato una fossa sotto la quercia antica.
Ho sepolto il manufatto degli dei.
È un’opera d’arte il mio dolore amuleto
a cui ho appuntato un fiore rosso.
Rosso fiore di giugno.
Anima mia hai gettato una pietra
sul tempo passato a parole
che salivano al buio come fumo.
Il tuo ventre covava una gemma, l’Inizio
nel silenzio attonito della nostra Fine.
Sono partito! Gravido anch’io di un
frammento di luce, nel buio.
Questa solitudine con cui la poetessa si accompagna e ci accompagna in questo viaggio (che riveliamo essere iniziatico) ha delle sfumature e un retrogusto diversi: varrà la pena ricordare che secondo il filosofo Ibn Abī Sufyān tre sono le occasioni in cui l’anima sperimenta una intensa solitudine: «…il giorno della nascita perché vede la sua anima dipartirsi; il giorno della morte, perché vede esseri che non conosceva; il giorno della resurrezione, perché vedrà la sua anima in un assembramento intenso» [2]
Nella Prima parte della raccolta (La notte del riformatorio) la solitudine è, per così dire, infantile. Nella Seconda parte, La città e il vuoto, si sperimenta una solitudine particellare, di abbandonati, di cani randagi: potremmo pensare a quella solitudine liquida che tenta di convincerci, soprattutto digitalmente, di una vicinanza che non c’è
Sera di fine gennaio (pg.37)
Un uomo suona in piazza
le sue bottiglie di birra.
Tintinna nella nebbia
il valzer dei sopravvissuti,
come un ricordo tenuto in vita
in un bicchiere di whisky.
Un’anziana coppia passeggia,
lenta lenta, sull’orlo
di una nuvola opaca.
Lui le cinge la vita, fra le briciole
che anche i piccioni hanno dimenticato
e via!, nella piazza,
attraversano la nebbia
a passo di mazurca.
Questa nebbia a cui volevamo male
è il nostro discorso preferito.
Ci aggrappiamo a questo dolore sfilacciato,
afferriamo il nulla
pur di continuare a parlare un altro po’.
Questa solitudine adulta diventa però un’occasione per l’abbandono inteso come azione tanto transitiva (essere abbandonati) che intransitiva (abbandonarsi)
Nella foresta (pg.42)
Nella foresta, mentre vi affannate
per uno straccio sudicio di gloria,
il sole tramonta nella più sacra cattedrale.
Dio se ne sta a dormire
sotto una foglia bagnata di pioggia,
e non sa nulla di voi.
Il seme di primavera (46)
Ora so che non ho scampo.
Ho cercato fino ad oggi
questa quiete, questo acquazzone
di speranza nella notte.
In verità non voglio sopravvivere
ai tuoi occhi, preferisco rinascere
domani
Nella Terza parte, la fine del viaggio dunque, troviamo la solitudine di chi si è liberato dalla solitudine: tutta un’altra storia. Una storia più lunga della Storia.
Amal (pg. 57)
Il tuo nome
è come gioco di conchiglia.
Non nata,
già vivi;
non sei, ovunque sei
- come il vento.
Come l’aria d’aprile bisbigli
una promessa senza nome.
Ci scompigli i capelli,
ci fai voltare
per poi nasconderti
dietro un cespuglio appena fiorito.
Assente,
sei una presenza.
Figlia mia,
speranza.
Se caso e necessità - l’occasione e l’urgenza della poesia - possono sembrare il più delle volte tesi ad affermare fieramente e in modo disincantato la solitudine dell’uomo, straniero all’Universo, la Belcastro ha invece fatto della sua Urgenza il motore delle Occasioni illuminando la parola Speranza come se riempisse la ciotola piena di te della famosa storiella zen [3] per svuotarla!
Se la speranza viene posta come Fondamento – non principio – della ragione significa che senza Questa speranza non possiamo darci delle buone ragioni per le cose che accadono, anche per quel dato dolore irragionevole e senza alcuna spiegazione.
La speranza, come dice anche S. Paolo, non è un principio logico ma è una disposizione del cuore umano e senza questa disposizione ogni spiegazione, ogni ragionamento ogni tentativo di comprensione è privo di fondamento.
L’ occasione-urgenza poetica di Silvia è (scusate se è “poco”) tutta qui: nel fondamento speranza.
La collana (pg.61)
Ultimo resta il corallo,
quel che chiamiamo speranza,
rosso su bianco.
Riferimenti
[1] - Loredana Bondi, Ferrara Italia 08 giugno 2018;
[2] - cit. in Hervé Clerc A Dio per la parete nord, Adelphi, 2018;
[3] - 101 Storie Zen pg. 13, Adelphi 1973 a cura di N. Senzaki e P. Reps.
giovedì 31 gennaio 2019
L'occhio fotografico di Giovanna Menegùs
Per imparare a conoscere la Poesia di Giovanna Menegùs non bisogna necessariamente partire dalla sua prima raccolta, Quasi estate (ExCogita Edizioni, 2017) o dalle sue traduzioni in Investitura di voci (96 rue de-La Fontaine Edizioni, 2018); basterebbe partire da qualche suo aforisma o commento o pagina scritta lasciati, quali tracce riconoscibilissime, sul suo blog (www.crudalinfa.com) o sulle pagine delle riviste digitali con le quali collabora.
Proprio così: tracce che nulla ci dicono dell’ ”animale” ma che lo lasciano intuire se non proprio immaginare. Nella intuizione e nella immaginazione compiamo però una operazione già...compiuta in quanto ci riferiamo ad una nostra conoscenza o solo a un pregiudizio, qualcosa insomma che non ci mette di fronte a una sana e pura pulsione (paura, angoscia, curiosità, sorpresa) sulla quale costruire una esperienza.
Imparare a conoscere è cosa diversa da conoscere: è…quasi conoscere.
È già stato detto, ma vale la pena ripeterlo, che la poesia della Menegùs è Poesia del Quasi-niente ovvero del Quasi-tutto.
Proprio come una traccia, “la poesia” può essere l’animale che ricordiamo (perché abbiamo appiccicato una figurina che lo riproduceva su un album, quando eravamo bambini) o l’animale che poco a poco scopriamo (perché seguendo le tracce ci imbattiamo in un ciuffo del suo pelo attaccato ad un albero o perché, all’improvviso, ce lo troviamo di fronte come un’apparizione).
Possiamo fare un esperimento? Per imparare a conoscere la Poesia di Giovanna?
Allora seguiamo le tracce a pg. 47 di questa nuova raccolta di Giovanna Menegùs (L’occhio fotografico, Macchione, 2018).
La poesia è Per un ragazzo di 15 anni e ne rileviamo solo qualche…impronta:
…te ne sei andato/…/non chiederò di vederla ma non la dimentico,/…/E io vorrei dire, scrivere il tuo nome,/…/e non mi do pace/di non averti trovato conosciuto visto fermato/…/ti sento ovunque nell’aria ferma e vuota…/
Queste le tracce dunque che parlano di un…ragazzo morto suicida ma potrebbero benissimo indicare la consolazione che la poetessa cerca per sé o ancora, in generale, le pesanti e profonde impronte della Vita stessa.
E non potrebbe invece essere che tutto questo è solo un Quasi-tutto (ovvero un Quasi-niente) e che invece seguendo le tracce stiamo “solo” imparando a conoscere la Poesia, cioè cosa è la Poesia, cosa fa la Poesia, come fa la Poesia e, soprattutto, perché la Poesia?
Quando leggiamo Giovanna Menegùs ci sentiamo interrogati, incuriositi, meno quieti: dopo aver girato a lungo e tutt’intorno alle parole, la poetessa riesce a comunicarci che quando si mette a fuoco un particolare, inevitabilmente sfochiamo tutto il resto e questo può essere accertato con frequenti letture e alla fine accettato.
«La pretesa di toccare un giorno la verità è un’utopia dogmatica»- diceva Vladimir Jankélévitch- «quel che importa è andare fino in fondo, e siccome ciò che cerchiamo esiste appena, siccome l’essenziale è un quasi-niente, una cosa leggera fra tutte le cose leggere, questa ricerca forsennata tende soprattutto a mostrare qualcosa di cui si può intravedere l’apparizione, ma non verificarla perché svanisce nell’istante stesso in cui appare»
[V. Jankélévitch Il non-so-che e il quasi-niente, Einaudi 2011]
Così quando andiamo alla seconda delle immagini dell’autrice raccolte alla fine del libro [Binario 11, Stazione Cadorna (Milano), 6.7.2016 ] mettiamo a fuoco l’ ”animale” che per un istante ci guarda negli occhi e poi, scartando velocemente, si dilegua proprio come fa la Poesia perché, appunto,…è un immenso “animale”:
Scarto a destra, tu anche,/scarti a sinistra, io anche/…/Passanti sul marciapiede non ci siamo scontrati,/e certo/non c’incontreremo più (pg. 19)
Per la Menegùs, che muove sempre da sottili allusioni,
-E basta un magro ciuffo di betulle/a fingermi la taiga intera, la Transiberiana//prima che Milano si materializzi e il giorno (pg. 16)
l’occhio fotografico quindi diventa il modo poetico più adatto per indicare uno slancio, per iniziare una “caccia” che fa essere senza essere, fa dimenticare tutto concentrandosi su quasi-niente (una piccola traccia) che ci fa lambire le cose, senza mai cadere nella presunzione di afferrarle perfettamente.
In una fotografia, come in una poesia, la verità il più delle volte è quella che non si vede:
Bianchi immobili leggeri come piccole/statue di balsa/…/gli aironi guardabuoi, a Pegognaga/(che cosa guardano?) (pg.29)
Davvero molte delle composizioni raccolte in questo L’occhio fotografico respirano e ci fanno respirare un’aria di oriente ma più che richiamare le poesie T’sang o Zen azzarderei un’ evidente analogia con il sumi-e tanto per rimanere nel campo delle …immagini.
Il sumi-e oltre ad essere un’arte pittorica, come intendiamo in occidente, è una porta d’ingresso per entrare o restare in sintonia con la natura e le sue leggi fondamentali. Nelle immagini sumi-e ( ne è un esempio la copertina della raccolta) si cerca di manifestare o suggerire in pochissimi tratti l’essenza delle cose, quelle lasciate da tracce evidenti e quelle più sfuggenti ma evidentemente presenti anch’esse (davvero le foglie sono foglie?). I segni lasciati sulla carta di riso dall’inchiostro nero nelle composizioni sumi-e sono delle vere e proprie tracce in grado di mostrarci anche quello che non si vede.
Proprio come la poesia di Giovanna Menegùs, soprattutto in questa parte della raccolta, riesce a fare.
Qui leggiamo ma soprattutto osserviamo degli “schizzi” in bianco e nero, dove il bianco del foglio o quello tra un verso (una parola) e l’altro (l’altra), come accade nella carta di riso del sumi-e, rappresenta l’universo. E il nero, la parola, il verso dunque, come l’inchiostro di china del sumi-e, sono le forme materiali che in esso appaiono e scompaiono senza sosta.
In questi epigrammi lirici - la sezione più riuscita a nostro parere insieme a quella che dà il titolo alla raccolta - poche parole sono sufficienti a esprimere il senso di un occhio che osserva, proprio come accade nel sumi-e dove pochi tratti d’inchiostro nero tracciati su un semplice foglio di carta, permettono di rappresentare un mondo com-plesso nel suo… intreccio tra visibile e invisibile.
Su questo foglio della Menegùs, come accade sulla carta di riso, sembra che sia stato concesso un solo colpo …di pennello per ogni tratto, proprio solo quella parola in quel suo verso; ogni “ritocco” viene immediatamente percepito e tutto il nostro apparato mentale, che di solito complica e confonde l’immagine (e la vita), viene così dissolto restituendoci una visione; restituendoci la scoperta.
È lì davanti a noi, l’animale immenso del quale abbiamo seguito le tracce.
Lo abbiamo quasi…preso.
Passano uccelli nel sole oltre il vetro:/veloci sono da dentro/ombre grigie/sul bianco/ del letto (pg. 63)
Lavorano i merli tra cespugli/bassi che frusciano e s’aprono/in voli improvvisi rapidissimi (pg. 64)
È un immenso animale, l’estate/lungo i giorni torridi e accecati/nel suo cavo gli umani/formicolanti spiano/l’ascendere, il lento declinare/della grande/groppa indomita…[…] (pg. 69)
Come nuotano gli uccelli nell’aria/del mattino e tu/solo per attimi ne scorgi i tuffi,/gli affondi finché svoltano/l’angolo del muro il tetto sono già oltre (pg. 78)
Passi che lasciano orme nell’aria/della notte, li vedi/alonati d’oro/allontanandosi/-camminano/senza toccare terra/lungo un loro/lieve chiaro sentiero (pg.84)
È lì davanti a noi, la preda immensa della quale abbiamo seguito le tracce.
L'abbiamo quasi…presa.
La Poesia.
Proprio così: tracce che nulla ci dicono dell’ ”animale” ma che lo lasciano intuire se non proprio immaginare. Nella intuizione e nella immaginazione compiamo però una operazione già...compiuta in quanto ci riferiamo ad una nostra conoscenza o solo a un pregiudizio, qualcosa insomma che non ci mette di fronte a una sana e pura pulsione (paura, angoscia, curiosità, sorpresa) sulla quale costruire una esperienza.
Imparare a conoscere è cosa diversa da conoscere: è…quasi conoscere.
È già stato detto, ma vale la pena ripeterlo, che la poesia della Menegùs è Poesia del Quasi-niente ovvero del Quasi-tutto.
Proprio come una traccia, “la poesia” può essere l’animale che ricordiamo (perché abbiamo appiccicato una figurina che lo riproduceva su un album, quando eravamo bambini) o l’animale che poco a poco scopriamo (perché seguendo le tracce ci imbattiamo in un ciuffo del suo pelo attaccato ad un albero o perché, all’improvviso, ce lo troviamo di fronte come un’apparizione).
Possiamo fare un esperimento? Per imparare a conoscere la Poesia di Giovanna?
Allora seguiamo le tracce a pg. 47 di questa nuova raccolta di Giovanna Menegùs (L’occhio fotografico, Macchione, 2018).
La poesia è Per un ragazzo di 15 anni e ne rileviamo solo qualche…impronta:
…te ne sei andato/…/non chiederò di vederla ma non la dimentico,/…/E io vorrei dire, scrivere il tuo nome,/…/e non mi do pace/di non averti trovato conosciuto visto fermato/…/ti sento ovunque nell’aria ferma e vuota…/
Queste le tracce dunque che parlano di un…ragazzo morto suicida ma potrebbero benissimo indicare la consolazione che la poetessa cerca per sé o ancora, in generale, le pesanti e profonde impronte della Vita stessa.
E non potrebbe invece essere che tutto questo è solo un Quasi-tutto (ovvero un Quasi-niente) e che invece seguendo le tracce stiamo “solo” imparando a conoscere la Poesia, cioè cosa è la Poesia, cosa fa la Poesia, come fa la Poesia e, soprattutto, perché la Poesia?
Quando leggiamo Giovanna Menegùs ci sentiamo interrogati, incuriositi, meno quieti: dopo aver girato a lungo e tutt’intorno alle parole, la poetessa riesce a comunicarci che quando si mette a fuoco un particolare, inevitabilmente sfochiamo tutto il resto e questo può essere accertato con frequenti letture e alla fine accettato.
«La pretesa di toccare un giorno la verità è un’utopia dogmatica»- diceva Vladimir Jankélévitch- «quel che importa è andare fino in fondo, e siccome ciò che cerchiamo esiste appena, siccome l’essenziale è un quasi-niente, una cosa leggera fra tutte le cose leggere, questa ricerca forsennata tende soprattutto a mostrare qualcosa di cui si può intravedere l’apparizione, ma non verificarla perché svanisce nell’istante stesso in cui appare»
[V. Jankélévitch Il non-so-che e il quasi-niente, Einaudi 2011]
Così quando andiamo alla seconda delle immagini dell’autrice raccolte alla fine del libro [Binario 11, Stazione Cadorna (Milano), 6.7.2016 ] mettiamo a fuoco l’ ”animale” che per un istante ci guarda negli occhi e poi, scartando velocemente, si dilegua proprio come fa la Poesia perché, appunto,…è un immenso “animale”:
Scarto a destra, tu anche,/scarti a sinistra, io anche/…/Passanti sul marciapiede non ci siamo scontrati,/e certo/non c’incontreremo più (pg. 19)
Per la Menegùs, che muove sempre da sottili allusioni,
-E basta un magro ciuffo di betulle/a fingermi la taiga intera, la Transiberiana//prima che Milano si materializzi e il giorno (pg. 16)
l’occhio fotografico quindi diventa il modo poetico più adatto per indicare uno slancio, per iniziare una “caccia” che fa essere senza essere, fa dimenticare tutto concentrandosi su quasi-niente (una piccola traccia) che ci fa lambire le cose, senza mai cadere nella presunzione di afferrarle perfettamente.
In una fotografia, come in una poesia, la verità il più delle volte è quella che non si vede:
Bianchi immobili leggeri come piccole/statue di balsa/…/gli aironi guardabuoi, a Pegognaga/(che cosa guardano?) (pg.29)
Davvero molte delle composizioni raccolte in questo L’occhio fotografico respirano e ci fanno respirare un’aria di oriente ma più che richiamare le poesie T’sang o Zen azzarderei un’ evidente analogia con il sumi-e tanto per rimanere nel campo delle …immagini.
Il sumi-e oltre ad essere un’arte pittorica, come intendiamo in occidente, è una porta d’ingresso per entrare o restare in sintonia con la natura e le sue leggi fondamentali. Nelle immagini sumi-e ( ne è un esempio la copertina della raccolta) si cerca di manifestare o suggerire in pochissimi tratti l’essenza delle cose, quelle lasciate da tracce evidenti e quelle più sfuggenti ma evidentemente presenti anch’esse (davvero le foglie sono foglie?). I segni lasciati sulla carta di riso dall’inchiostro nero nelle composizioni sumi-e sono delle vere e proprie tracce in grado di mostrarci anche quello che non si vede.
Proprio come la poesia di Giovanna Menegùs, soprattutto in questa parte della raccolta, riesce a fare.
Qui leggiamo ma soprattutto osserviamo degli “schizzi” in bianco e nero, dove il bianco del foglio o quello tra un verso (una parola) e l’altro (l’altra), come accade nella carta di riso del sumi-e, rappresenta l’universo. E il nero, la parola, il verso dunque, come l’inchiostro di china del sumi-e, sono le forme materiali che in esso appaiono e scompaiono senza sosta.
In questi epigrammi lirici - la sezione più riuscita a nostro parere insieme a quella che dà il titolo alla raccolta - poche parole sono sufficienti a esprimere il senso di un occhio che osserva, proprio come accade nel sumi-e dove pochi tratti d’inchiostro nero tracciati su un semplice foglio di carta, permettono di rappresentare un mondo com-plesso nel suo… intreccio tra visibile e invisibile.
Su questo foglio della Menegùs, come accade sulla carta di riso, sembra che sia stato concesso un solo colpo …di pennello per ogni tratto, proprio solo quella parola in quel suo verso; ogni “ritocco” viene immediatamente percepito e tutto il nostro apparato mentale, che di solito complica e confonde l’immagine (e la vita), viene così dissolto restituendoci una visione; restituendoci la scoperta.
È lì davanti a noi, l’animale immenso del quale abbiamo seguito le tracce.
Lo abbiamo quasi…preso.
Passano uccelli nel sole oltre il vetro:/veloci sono da dentro/ombre grigie/sul bianco/ del letto (pg. 63)
Lavorano i merli tra cespugli/bassi che frusciano e s’aprono/in voli improvvisi rapidissimi (pg. 64)
È un immenso animale, l’estate/lungo i giorni torridi e accecati/nel suo cavo gli umani/formicolanti spiano/l’ascendere, il lento declinare/della grande/groppa indomita…[…] (pg. 69)
Come nuotano gli uccelli nell’aria/del mattino e tu/solo per attimi ne scorgi i tuffi,/gli affondi finché svoltano/l’angolo del muro il tetto sono già oltre (pg. 78)
Passi che lasciano orme nell’aria/della notte, li vedi/alonati d’oro/allontanandosi/-camminano/senza toccare terra/lungo un loro/lieve chiaro sentiero (pg.84)
È lì davanti a noi, la preda immensa della quale abbiamo seguito le tracce.
L'abbiamo quasi…presa.
La Poesia.
venerdì 25 gennaio 2019
Finzione suprema in un Campo d'inverno
Alla base di ogni fede (qualunque fede, religiosa, politica, calcistica etc…) c’è la sospensione (volontaria) di incredulità (e quindi di giudizio).
Anche la fede poetica si basa su tale sospensione tanto che Samuel Taylor Coleridge la assume quasi ad assioma:
That willing suspension of disbelief which constitutes poetic faith.
[Quella volontaria sospensione dell’incredulità che costituisce la fede poetica]
Chi legge poesia (chi la scrive) deve credere e dunque sospendere (volontariamente) la sua natura di “animale razionale” o meglio comprendere in questa definizione (davvero cum-capere), la sua alterità animale (umanità) e la sua alterità razionale (impulsività). Solo così il lettore (lo scrittore) di poesia potrà conquistare quel potere grandioso e miracoloso che permette non solo di immaginare ma anche di creare o ri-novare la realtà.
Il poeta, primariamente, in modo consapevole o meno, si serve proprio di questo potere. Questa è la lezione del romanticismo inglese rappresentato da Coleridge e che in buona sostanza si conferma nel sensismo illuministico del nostro Giacomo Leopardi e successivamente nella riaffermazione del romantico di Wallace Stevens fino a giungere, come vedremo, alla poetessa ospitata in questo Post delle Fragole: Susan Stewart.
L’idea per tutti questi poeti è semplice: completare ciò che i sensi ci “mostrano” (quello che “sentiamo”), con le fantasie di una immaginazione svincolata da (pre)giudizi.
La realtà diventa così fonte dell’immaginazione e acquista senso grazie al potere dell’immaginazione: questo continuo rimando tra realtà e immaginazione o, addirittura una loro sintesi perfetta, è la Finzione Suprema di cui parla Wallace Stevens o è ciò a cui già alludeva Leopardi:
“All’ uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in un certo modo doppi. Egli vedrà con gli occhi una torre, una campagna; udrà con gli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’ immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e altri sentimenti ricevono la sensazione.” (Z 1196)
L’immaginazione non deve dunque tradire la realtà della quale anzi è un potenziamento: la sospensione/fede poetica sta proprio in questo senso della possibilità, una capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è.
Nella sua Riaffermazione del romantico Wallace Stevens riversa tutta la sua fede in quello che abbiamo fin qui detto:
La notte non sa nulla dei canti della notte.
È quel che è come io sono quel che sono:
e nel percepire ciò percepisco meglio me stesso
e te. Solo noi due possiamo scambiare
ciascuno con l’altro quel che ciascuno ha da dare.
Solo noi due siamo uno, non tu e la notte,
né la notte e io, ma tu e io, soli,
tanto soli, così profondamente con noi,
così distanti dalle solitudini casuali,
che la notte è solo sfondo ai nostri io,
supremamente fedeli ciascuno al suo diverso io,
nella luce pallida che ciascuno getta sull’altro.
Oggi una poetessa americana sembra volerci ricordare tutta questa grande lezione per rinnovare la nostra fede poetica e ancora una volta ci chiede di sospendere l’incredulità e il giudizio; di ascoltare il tocco della campana e di non udire solo questo suono; di guardare un campo e di non vedere solo erba e alberi.
Susan Stewart è docente presso la Princeton University dove dirige la Society of Fellows in the Liberal Arts. La sua attività poetica e di traduttrice l’ha portata spesso anche in Italia dove ha pubblicato due libri: Columbarium e altre poesie (Ares 2006) e Red Rover (Jaca Book 2011).
Nel 2017 ha pubblicato un volume dal titolo Cinder: New and Selected Poems (Graywolf 2017) nel quale sono state riproposte alcune sue poesie selezionate e presentati alcuni inediti.
Dunque anche per Susan Stewart il pensiero poetico è capiente in quanto non solo esalta le nostre capacità mentali (la ragione, l’immaginazione, la memoria e l’emozione) , ma anche la nostra fisiologia ( i ritmi fisici, il battito dei nostri cuori, il ritmo del respiro). E in questa affermazione sembrano risuonare molte delle recenti scoperte delle neuroscienze o delle riflessioni filosofiche di Martha Nussbaum («le emozioni sono pensiero»).
Per la Stewart la poesia ha molti legami storici e formali con la fede e i rituali religiosi:
“ …la tradizione giudaico-cristiana ha lasciato tracce nell’opera di ogni poeta di rilievo di lingua inglese…[…]. I Poeti metafisici del XVII secolo (Crashaw, Donne, Herbert, Marvell, Vaughan e altri) sono una ricca fonte di tecniche poetiche in questo senso, ed essi, insieme con Wallace Stevens, sono state le figure più importanti per la mia pratica di poeta. Ma devo dire che la relazione tra poesia e religione mi colpisce come realtà universale in un senso più ampio. I poeti sono più spesso di quanto non si immagini motivati da un desiderio e impulso di lode, sia che stiano lodando forze sovrumane, la creazione stessa, sia i radianti fenomeni del mondo che li circonda…”
Lo dicevamo all’inizio: la poesia è una questione di fede.
E allora proviamo a sospendere l’incredulità e il giudizio su Campo d'inverno di Susan Stewart e proviamo a diventare uomini del possibile (come direbbe Musil) in grado «di scorgere tutto ciò che potrebbe benissimo essere al suo posto».
Il mondo, un museo di sé stesso.
Il gelido colonnato di olmi spiranti.
Non puoi importi un sogno, tuttavia, anche tu
puoi cedere, cedere al sonno, e svegliarti
nello stupore. Non c’è alcun luogo
che il biancore non abbia
toccato – dai
_____________un’ occhiata e
vedi. Gli angoli, gli orli, di ogni
cosa esposta:
sei entrato in una chiarezza nuova.
In questa sua poesia la poetessa americana parte da un dato di realtà perché se l’immaginazione vuole essere produttiva, creativa e nobile deve alimentarsi di realtà. Che il mondo sia un museo di sé stesso è incontrovertibile, pertanto quei colonnati gelidi di olmi spiranti non sono né più né meno come i colonnati nella Valle dei Templi ad Agrigento. Anzi di più, perché questo è un “museo” allestito precedentemente a tutti gli altri musei. E allora la nobiltà dell’immaginazione consiste in particolare nel reagire e sottrarsi a questo mondo impolverato e messo in esposizione. Perché l’immaginazione non tradisce la realtà ma questa realtà è costruita per essere esposta, per essere visitata ma non per essere…fatta e ammirata.
Se solo cedessimo al sonno fino a risvegliarci!
Già perché la situazione è proprio questa: dormiamo e crediamo che ciò che sogniamo sia reale tanto che questo infimo senso della realtà potrebbe scadere facilmente (come moltissime volte fa) in un realismo cinico e opportunistico.
Ma dobbiamo svegliarci allo stupore a quella Finzione Suprema che arricchisce il mondo e aiuta gli uomini a pensare e a vivere; dobbiamo aprire gli occhi e dare un’occhiata solo per…vedere. E quel biancore che tutto tocca e che ci inganna, l’immaginazione, ci fa stupire il mondo nella sua chiarezza
“pare un assurdo , e pure è esattamente vero, che tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni…”(Z56).
Non possiamo imporci di sognare quello che vogliamo ma di sicuro possiamo sospendere (volontariamente) la nostra incredulità, seguire le supreme illusioni e avere dunque più fede poetica.
E la poetessa americana ci rinnovella in questo dolce inganno.
Anche la fede poetica si basa su tale sospensione tanto che Samuel Taylor Coleridge la assume quasi ad assioma:
That willing suspension of disbelief which constitutes poetic faith.
[Quella volontaria sospensione dell’incredulità che costituisce la fede poetica]
Chi legge poesia (chi la scrive) deve credere e dunque sospendere (volontariamente) la sua natura di “animale razionale” o meglio comprendere in questa definizione (davvero cum-capere), la sua alterità animale (umanità) e la sua alterità razionale (impulsività). Solo così il lettore (lo scrittore) di poesia potrà conquistare quel potere grandioso e miracoloso che permette non solo di immaginare ma anche di creare o ri-novare la realtà.
Il poeta, primariamente, in modo consapevole o meno, si serve proprio di questo potere. Questa è la lezione del romanticismo inglese rappresentato da Coleridge e che in buona sostanza si conferma nel sensismo illuministico del nostro Giacomo Leopardi e successivamente nella riaffermazione del romantico di Wallace Stevens fino a giungere, come vedremo, alla poetessa ospitata in questo Post delle Fragole: Susan Stewart.
L’idea per tutti questi poeti è semplice: completare ciò che i sensi ci “mostrano” (quello che “sentiamo”), con le fantasie di una immaginazione svincolata da (pre)giudizi.
La realtà diventa così fonte dell’immaginazione e acquista senso grazie al potere dell’immaginazione: questo continuo rimando tra realtà e immaginazione o, addirittura una loro sintesi perfetta, è la Finzione Suprema di cui parla Wallace Stevens o è ciò a cui già alludeva Leopardi:
“All’ uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in un certo modo doppi. Egli vedrà con gli occhi una torre, una campagna; udrà con gli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’ immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e altri sentimenti ricevono la sensazione.” (Z 1196)
L’immaginazione non deve dunque tradire la realtà della quale anzi è un potenziamento: la sospensione/fede poetica sta proprio in questo senso della possibilità, una capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è.
Nella sua Riaffermazione del romantico Wallace Stevens riversa tutta la sua fede in quello che abbiamo fin qui detto:
La notte non sa nulla dei canti della notte.
È quel che è come io sono quel che sono:
e nel percepire ciò percepisco meglio me stesso
e te. Solo noi due possiamo scambiare
ciascuno con l’altro quel che ciascuno ha da dare.
Solo noi due siamo uno, non tu e la notte,
né la notte e io, ma tu e io, soli,
tanto soli, così profondamente con noi,
così distanti dalle solitudini casuali,
che la notte è solo sfondo ai nostri io,
supremamente fedeli ciascuno al suo diverso io,
nella luce pallida che ciascuno getta sull’altro.
Oggi una poetessa americana sembra volerci ricordare tutta questa grande lezione per rinnovare la nostra fede poetica e ancora una volta ci chiede di sospendere l’incredulità e il giudizio; di ascoltare il tocco della campana e di non udire solo questo suono; di guardare un campo e di non vedere solo erba e alberi.
Susan Stewart è docente presso la Princeton University dove dirige la Society of Fellows in the Liberal Arts. La sua attività poetica e di traduttrice l’ha portata spesso anche in Italia dove ha pubblicato due libri: Columbarium e altre poesie (Ares 2006) e Red Rover (Jaca Book 2011).
Nel 2017 ha pubblicato un volume dal titolo Cinder: New and Selected Poems (Graywolf 2017) nel quale sono state riproposte alcune sue poesie selezionate e presentati alcuni inediti.
Dunque anche per Susan Stewart il pensiero poetico è capiente in quanto non solo esalta le nostre capacità mentali (la ragione, l’immaginazione, la memoria e l’emozione) , ma anche la nostra fisiologia ( i ritmi fisici, il battito dei nostri cuori, il ritmo del respiro). E in questa affermazione sembrano risuonare molte delle recenti scoperte delle neuroscienze o delle riflessioni filosofiche di Martha Nussbaum («le emozioni sono pensiero»).
Per la Stewart la poesia ha molti legami storici e formali con la fede e i rituali religiosi:
“ …la tradizione giudaico-cristiana ha lasciato tracce nell’opera di ogni poeta di rilievo di lingua inglese…[…]. I Poeti metafisici del XVII secolo (Crashaw, Donne, Herbert, Marvell, Vaughan e altri) sono una ricca fonte di tecniche poetiche in questo senso, ed essi, insieme con Wallace Stevens, sono state le figure più importanti per la mia pratica di poeta. Ma devo dire che la relazione tra poesia e religione mi colpisce come realtà universale in un senso più ampio. I poeti sono più spesso di quanto non si immagini motivati da un desiderio e impulso di lode, sia che stiano lodando forze sovrumane, la creazione stessa, sia i radianti fenomeni del mondo che li circonda…”
Lo dicevamo all’inizio: la poesia è una questione di fede.
E allora proviamo a sospendere l’incredulità e il giudizio su Campo d'inverno di Susan Stewart e proviamo a diventare uomini del possibile (come direbbe Musil) in grado «di scorgere tutto ciò che potrebbe benissimo essere al suo posto».
Il mondo, un museo di sé stesso.
Il gelido colonnato di olmi spiranti.
Non puoi importi un sogno, tuttavia, anche tu
puoi cedere, cedere al sonno, e svegliarti
nello stupore. Non c’è alcun luogo
che il biancore non abbia
toccato – dai
_____________un’ occhiata e
vedi. Gli angoli, gli orli, di ogni
cosa esposta:
sei entrato in una chiarezza nuova.
In questa sua poesia la poetessa americana parte da un dato di realtà perché se l’immaginazione vuole essere produttiva, creativa e nobile deve alimentarsi di realtà. Che il mondo sia un museo di sé stesso è incontrovertibile, pertanto quei colonnati gelidi di olmi spiranti non sono né più né meno come i colonnati nella Valle dei Templi ad Agrigento. Anzi di più, perché questo è un “museo” allestito precedentemente a tutti gli altri musei. E allora la nobiltà dell’immaginazione consiste in particolare nel reagire e sottrarsi a questo mondo impolverato e messo in esposizione. Perché l’immaginazione non tradisce la realtà ma questa realtà è costruita per essere esposta, per essere visitata ma non per essere…fatta e ammirata.
Se solo cedessimo al sonno fino a risvegliarci!
Già perché la situazione è proprio questa: dormiamo e crediamo che ciò che sogniamo sia reale tanto che questo infimo senso della realtà potrebbe scadere facilmente (come moltissime volte fa) in un realismo cinico e opportunistico.
Ma dobbiamo svegliarci allo stupore a quella Finzione Suprema che arricchisce il mondo e aiuta gli uomini a pensare e a vivere; dobbiamo aprire gli occhi e dare un’occhiata solo per…vedere. E quel biancore che tutto tocca e che ci inganna, l’immaginazione, ci fa stupire il mondo nella sua chiarezza
“pare un assurdo , e pure è esattamente vero, che tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni…”(Z56).
Non possiamo imporci di sognare quello che vogliamo ma di sicuro possiamo sospendere (volontariamente) la nostra incredulità, seguire le supreme illusioni e avere dunque più fede poetica.
E la poetessa americana ci rinnovella in questo dolce inganno.
mercoledì 16 gennaio 2019
Madre Materia
Nel biennio 1926-27 il filosofo tedesco Ernst Bloch (Ludwigshafen 1885-Tubingen 1977) approfondisce gli scritti di Avicenna e Averroè sulla interpretazione dei testi aristotelici, ponendo particolare attenzione al concetto di materia. Oggi grazie alla cura di Nicola Alessandrini il testo di Bloch, pubblicato per la prima volta a Berlino nel 1952, viene finalmente tradotto in italiano.
Nella preziosissima traduzione di Avicenna und die Aristotelische Linke [1], Alessandrini fa rivivere, come lui stesso dice nella introduzione, «…La forza cardiaca della materia e il suo ardore…» [2] ( il corsivo è mio), frase che mi ha precipitato - ma meglio sarebbe dire elevato - in due ambiti per me molto cari e, come cercherò di mostrare, molto vicini l’uno all’altro: quello della fisica e l’altro della metafisica indiana.
Materia (come anche ardore) è, in generale, un termine fondamentale tanto per la fisica che per la metafisica.
Cominciamo da qui, dalla sua “semplice” etimologia.
Nella sua introduzione Alessandrini pone ad esergo la presente affermazione del filosofo tedesco:
«L’omissione dell’antica profondità nel concetto di materia non è stata ancora realmente compresa, mentre il solo fatto che il termine “materia” sia derivato da mater (madre), cioè dal seno sempre fertile del mondo e delle sue forme, figure e strutturazioni sperimentali, piene di tendenze e di latenze infinite, dovrebbe far riflettere…». Già. E infatti, Alessandrini, comincia proprio da qui la sua (la nostra) riflessione su «…Una materia sempre e rigorosamente declinata al femminile, perché materia è prima di tutto mater, madre il cui grembo fecondo partorisce forme sempre nuove, nel cui seno sono latenti le più importanti forme d’esistenza. Tale gestazione diventa il banco di prova di quell’ontologia della speranza che[…] rappresenta il punto in cui convergono la grandezza e la complessità del pensiero blochiano. Per Bloch, infatti, la posta in gioco è altissima, si tratta di dilatare l’orizzonte della speranza dal piano antropologico (per Bloch l’uomo non solo “ha” speranza, ma “è” speranza) al piano ontologico (l’essere stesso, la materia come sostrato comune di tutto l’universo, è permeabile dalla speranza),…»[3].
Qualcuno poi, come il gesuita proibito Teilhard de Chardin, sintetizzerà il tutto con una formula inusuale e dirompente per l’ortodossia cattolica ma così praticabile contemporaneamente dall’eresia cristiana, dalla fisica quantistica e ancora dalla metafisica indiana: dalla materia al logos![4]
Ma riprendiamo ancora per una attimo queste prime battute di Bloch commentate e riprese da Alessandrini e riferiamoci ancora una volta alla etimologia di materia.
È vero che materia è facilmente accostabile, per assonanza, a mater e matrice con i significati propri, rispettivamente, di “chi ha un utero” e di “forma con cui viene modellato un oggetto”; ma è nell’ India vedica che si trova l’etimologia e il significato più profondo dal punto di vista metafisico e fisico del termine. Dice Coomaraswamy nel suo La tenebra divina [5]:
mātrā (come métron) è etimologicamente «materia», non nel senso di «ciò che è solido», ma in quello suo proprio di «ciò che è quantitativo» e che ha una collocazione nel mondo (loka, locus).
Fisica dunque e infatti lo studioso indiano continua dicendo:
Tutto ciò che in questo modo è nel mondo può essere nominato e percepito (nāma-rūpa) ed è accessibile a una scienza fisica e statistica; l’essere senza misura è il dominio proprio della metafisica.
Quindi il paradosso è che la metafisica indù riesca a dare una definizione così…fisica della materia.
Ma non finisce qui perché:
è anche da notare la stretta relazione esistente tra la parola mātrā, mātṛ e māyā, «metro», «madre» e «mezzo magico» o «matrice»: mā , «misurare», e nir-mā, «determinare misurando» sono infatti usati non solamente nel senso di dare forma e definire, ma anche quello strettamente apparentato di creare o dare nascita…
Ma il pensiero vedico è profondo quanto e forse più di quello della fisica teorica e dunque si continua:
[la nascita è un concetto inseparabile da quello di sacrificio]: il sacrificio divide è uno «spezzare il pane»; il prodotto è articolato e indistinto. Il sacrificio è un dispiegare la Verità, un ordirlo in tessuto o ragnatela metafora che è comunemente impiegata altrove in relazione all’irraggiamento della luce fontale che costituisce la tessitura dei mondi. Come l’accensione di Agni è un rendere percepibile e palese una luce nascosta, così il proferire i canti è un rendere percepibile il principio silenzioso del suono. La Parola detta è una rivelazione del Silenzio, che misura la traccia di ciò che in se stesso non è misurabile.
Beh, questa è una pagina degna di un articolo di fisica delle particelle elementari magari a corredo e commento di una foto come questa che descrive un processo di annichilazione (sacrificio) e creazione (nascita) di particelle in un acceleratore
Non è forse qui catturata quella «…forza cardiaca della materia e il suo ardore…» di cui ci parla Alessandrini in questa sua godibilissima traduzione dell’opera di Ernst Bloch?
È vero, come viene detto in quarta di copertina, che il saggio “…ripercorre il tortuoso cammino che da Aristotele, attraverso Avicenna, Avicebron e Averroè , giunge a delineare un concetto qualitativo di materia, intesa come grembo infinitamente fecondo di forme…” , ma il testo è anche un’occasione per riflettere su un’altra “materia” ancora così utopica e (questa sì) veramente oscura: sempre più appare incomprensibile, contraddittoria e anacronistica questa rinuncia a trovare sintesi necessarie su tante cose, a cominciare da quelle che ci coinvolgono nella nostra quotidianità (p.es. nazionalismo & europeismo; democrazia & sicurezza; lavoro & ambiente; identità & social network).
Risulta evidente che per ogni… materia (sic!) è necessario un approccio integrato, complementare che superi cioè le polarizzazioni tra “destra e sinistra… aristoteliche” o tra conoscenze apparentemente distanti perché acquisite con strumenti diversi (fisica piuttosto che filosofia o, perché no?, poesia).
Occorrerebbe cioè sempre fare appello a quello spirito (di speranza) blochiano per il quale “è fecondo solo quel ricordo che al contempo ci rammenta quanto ancora resta da fare”.
E il ricordo che abbiamo oggi della materia è questo [6]:
«…Una manciata di tipi di particelle elementari, che vibrano e fluttuano in continuazione fra l’esistere e il non esistere, pullulano nello spazio anche quando sembra non ci sia nulla, si combinano insieme all’infinito come le venti lettere di un alfabeto cosmico per raccontare l’immensa storia delle galassie, delle stelle innumerevoli, dei raggi cosmici, della luce del sole, delle montagne, dei boschi, dei campi di grano, dei sorrisi dei ragazzi alle feste, e del cielo nero e stellato la notte».
Quanto ci resta da fare!
Quanto è ancora feconda questa madre-materia!
Riferimenti
[1] - E. Bloch, Avicenna und die Aristotelische Linke Ed. Rutten & Leoning, Berlino 1952;
[2] - E. Bloch, Avicenna e la sinistra aristotelica, a cura di N. Alessandrini, Mimesis Edizioni, Milano 2018, pg. 10;
[3] - Ibidem, pg. 11
[4] - B. Razzotti, Teilhard de Chardin. Dalla materia al verbo, Edizioni Messaggero, Padova, 1999;
[5] - Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina. Saggi di metafisica, Adelphi, Milano, 2017, 2ª ediz
[6] – C. Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, Milano 2014, pg. 45
Nella preziosissima traduzione di Avicenna und die Aristotelische Linke [1], Alessandrini fa rivivere, come lui stesso dice nella introduzione, «…La forza cardiaca della materia e il suo ardore…» [2] ( il corsivo è mio), frase che mi ha precipitato - ma meglio sarebbe dire elevato - in due ambiti per me molto cari e, come cercherò di mostrare, molto vicini l’uno all’altro: quello della fisica e l’altro della metafisica indiana.
Materia (come anche ardore) è, in generale, un termine fondamentale tanto per la fisica che per la metafisica.
Cominciamo da qui, dalla sua “semplice” etimologia.
Nella sua introduzione Alessandrini pone ad esergo la presente affermazione del filosofo tedesco:
«L’omissione dell’antica profondità nel concetto di materia non è stata ancora realmente compresa, mentre il solo fatto che il termine “materia” sia derivato da mater (madre), cioè dal seno sempre fertile del mondo e delle sue forme, figure e strutturazioni sperimentali, piene di tendenze e di latenze infinite, dovrebbe far riflettere…». Già. E infatti, Alessandrini, comincia proprio da qui la sua (la nostra) riflessione su «…Una materia sempre e rigorosamente declinata al femminile, perché materia è prima di tutto mater, madre il cui grembo fecondo partorisce forme sempre nuove, nel cui seno sono latenti le più importanti forme d’esistenza. Tale gestazione diventa il banco di prova di quell’ontologia della speranza che[…] rappresenta il punto in cui convergono la grandezza e la complessità del pensiero blochiano. Per Bloch, infatti, la posta in gioco è altissima, si tratta di dilatare l’orizzonte della speranza dal piano antropologico (per Bloch l’uomo non solo “ha” speranza, ma “è” speranza) al piano ontologico (l’essere stesso, la materia come sostrato comune di tutto l’universo, è permeabile dalla speranza),…»[3].
Qualcuno poi, come il gesuita proibito Teilhard de Chardin, sintetizzerà il tutto con una formula inusuale e dirompente per l’ortodossia cattolica ma così praticabile contemporaneamente dall’eresia cristiana, dalla fisica quantistica e ancora dalla metafisica indiana: dalla materia al logos![4]
Ma riprendiamo ancora per una attimo queste prime battute di Bloch commentate e riprese da Alessandrini e riferiamoci ancora una volta alla etimologia di materia.
È vero che materia è facilmente accostabile, per assonanza, a mater e matrice con i significati propri, rispettivamente, di “chi ha un utero” e di “forma con cui viene modellato un oggetto”; ma è nell’ India vedica che si trova l’etimologia e il significato più profondo dal punto di vista metafisico e fisico del termine. Dice Coomaraswamy nel suo La tenebra divina [5]:
mātrā (come métron) è etimologicamente «materia», non nel senso di «ciò che è solido», ma in quello suo proprio di «ciò che è quantitativo» e che ha una collocazione nel mondo (loka, locus).
Fisica dunque e infatti lo studioso indiano continua dicendo:
Tutto ciò che in questo modo è nel mondo può essere nominato e percepito (nāma-rūpa) ed è accessibile a una scienza fisica e statistica; l’essere senza misura è il dominio proprio della metafisica.
Quindi il paradosso è che la metafisica indù riesca a dare una definizione così…fisica della materia.
Ma non finisce qui perché:
è anche da notare la stretta relazione esistente tra la parola mātrā, mātṛ e māyā, «metro», «madre» e «mezzo magico» o «matrice»: mā , «misurare», e nir-mā, «determinare misurando» sono infatti usati non solamente nel senso di dare forma e definire, ma anche quello strettamente apparentato di creare o dare nascita…
Ma il pensiero vedico è profondo quanto e forse più di quello della fisica teorica e dunque si continua:
[la nascita è un concetto inseparabile da quello di sacrificio]: il sacrificio divide è uno «spezzare il pane»; il prodotto è articolato e indistinto. Il sacrificio è un dispiegare la Verità, un ordirlo in tessuto o ragnatela metafora che è comunemente impiegata altrove in relazione all’irraggiamento della luce fontale che costituisce la tessitura dei mondi. Come l’accensione di Agni è un rendere percepibile e palese una luce nascosta, così il proferire i canti è un rendere percepibile il principio silenzioso del suono. La Parola detta è una rivelazione del Silenzio, che misura la traccia di ciò che in se stesso non è misurabile.
Beh, questa è una pagina degna di un articolo di fisica delle particelle elementari magari a corredo e commento di una foto come questa che descrive un processo di annichilazione (sacrificio) e creazione (nascita) di particelle in un acceleratore
Non è forse qui catturata quella «…forza cardiaca della materia e il suo ardore…» di cui ci parla Alessandrini in questa sua godibilissima traduzione dell’opera di Ernst Bloch?
È vero, come viene detto in quarta di copertina, che il saggio “…ripercorre il tortuoso cammino che da Aristotele, attraverso Avicenna, Avicebron e Averroè , giunge a delineare un concetto qualitativo di materia, intesa come grembo infinitamente fecondo di forme…” , ma il testo è anche un’occasione per riflettere su un’altra “materia” ancora così utopica e (questa sì) veramente oscura: sempre più appare incomprensibile, contraddittoria e anacronistica questa rinuncia a trovare sintesi necessarie su tante cose, a cominciare da quelle che ci coinvolgono nella nostra quotidianità (p.es. nazionalismo & europeismo; democrazia & sicurezza; lavoro & ambiente; identità & social network).
Risulta evidente che per ogni… materia (sic!) è necessario un approccio integrato, complementare che superi cioè le polarizzazioni tra “destra e sinistra… aristoteliche” o tra conoscenze apparentemente distanti perché acquisite con strumenti diversi (fisica piuttosto che filosofia o, perché no?, poesia).
Occorrerebbe cioè sempre fare appello a quello spirito (di speranza) blochiano per il quale “è fecondo solo quel ricordo che al contempo ci rammenta quanto ancora resta da fare”.
E il ricordo che abbiamo oggi della materia è questo [6]:
«…Una manciata di tipi di particelle elementari, che vibrano e fluttuano in continuazione fra l’esistere e il non esistere, pullulano nello spazio anche quando sembra non ci sia nulla, si combinano insieme all’infinito come le venti lettere di un alfabeto cosmico per raccontare l’immensa storia delle galassie, delle stelle innumerevoli, dei raggi cosmici, della luce del sole, delle montagne, dei boschi, dei campi di grano, dei sorrisi dei ragazzi alle feste, e del cielo nero e stellato la notte».
Quanto ci resta da fare!
Quanto è ancora feconda questa madre-materia!
Riferimenti
[1] - E. Bloch, Avicenna und die Aristotelische Linke Ed. Rutten & Leoning, Berlino 1952;
[2] - E. Bloch, Avicenna e la sinistra aristotelica, a cura di N. Alessandrini, Mimesis Edizioni, Milano 2018, pg. 10;
[3] - Ibidem, pg. 11
[4] - B. Razzotti, Teilhard de Chardin. Dalla materia al verbo, Edizioni Messaggero, Padova, 1999;
[5] - Ananda K. Coomaraswamy, La tenebra divina. Saggi di metafisica, Adelphi, Milano, 2017, 2ª ediz
[6] – C. Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, Milano 2014, pg. 45