Vorrei che questo Post si formasse sotto i vostri occhi come un’opera dell’artista livornese Renzo Sbolci [1], dei quali – opera & artista= operartista- vi parlerò approfittando di una sua mostra inaugurata da poco a Ro Ferrarese grazie all'impegno di Giovanni Dalle Molle e dei Caschi Blu della Cultura. Comincio così da un materiale raccolto alla rinfusa, pezzetti così piccoli da sembrare granelli di polvere. Ha ragione il critico Renzo Orsini quando parla dell’opera di Sbolci quale risultato della ricomposizione di una enorme lastra di cristallo andata in frantumi: ma nel frantumarsi non solo abbiamo perso, della lastra originale, il disegno ma anche la capacità di guardarci, un disegno, attraverso perché per via di una trasmutazione, il cristallo si è mutato in legno dipinto a pastelli cerosi.
Così quella disposizione ordinata e infinita di un universo cristallino ma indecifrabile ha lasciato il posto a un assemblaggio caotico e opaco ma molto significativo.
È inutile nascondere che buona parte di questo processo creativo sia dovuta alla natura della città di Livorno che fece dire a Caproni: «i miei versi sono nati in simbiosi con il vento». Bene, così appaiono nascere le opere di Sbolci e se cosi è allora lasciamo soffiare il vento anche su questo Post.
“La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole”.
In queste poche e sostenute folate di Italo Calvino [2]ci sembra di intravedere la descrizione di un’opera di Sbolci: la tela di legno non racconta il suo passato, non può cioè dire nulla sulla forma dell’universo prima che questo accadesse e cadesse in frantumi, in polvere, ma lo contiene tutto in quei piccoli pezzetti giustapposti tra loro a formare linee e poi inCroci e a farsi largo fuori dal piano nello spazio di chi osserva. E contenendo questo passato, veramente come le linee della mano, l’opera non può che contenere anche il suo futuro: l’opera di Sbolci non è...presente è una mutazione continua riconoscibile come una marea, a volte, ma altre irriconoscibile e imprevedibile come una burrasca o una catastrofe naturale.
Ma sempre, per quanto catastrofica , una mutazione accade sull’orlo di due mondi, all’incrocio o sulla superficie che separa qualcosa che ancora riconosciamo attraverso dettagli minimi ma significativi (le griglie delle finestre, gli scorrimano delle scale, le antenne dei parafulmini), da qualcosa di nuovo e assolutamente misterioso che sta per prendere corpo, che sta per manifestarsi.
E quella superficie tripartita, l'orlo del mondo, che separa cielo terra e mare, Sbolci, come tutti gli abitanti di mare, la conosce bene, l’ha sempre avuta dinnanzi agli occhi - negli occhi - fin da bambino, e la conosce così bene da tracciarla a occhi chiusi, camuffandola nei suoi totem, spezzettandola, quella linea infinita d’universo, in tanti graffi, seghettature, intagli, svirgole.
E con l’abilità del funambolo, che si appoggia ad ogni granello di polvere pur di attraversare il vuoto, riesce a farci strada e a portarci dall’altra parte del percorso.
Sani e salvi.
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...
Il porto a chi vuole tornare
per raccontare con vanto agli altri
d'averlo visto tutto questo mondo
illuso quasi d'esserne padrone;
deluso di non aver trovato nulla
che somigliasse a lui.
Noi, invece,
eterni appassionati,
affamati di tramonti infocati,
di albe tranquille, di cupi notti stellate...
Noi,
ancora lontani sull'effimera riga
come funamboli su corda sospesa
a giocare con l'imprevisto,
a danzar con i venti,
a cantar col mare,
ad amare.
Riferimenti
[1] - www.renzosbolci.it
[2] - I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, 1972
[3] - R. Sbolci, La neve d'Agosto, Aletti Editore, 2013
Forte, vitale l'opera di Sbolci, e affascinante questo testo che ne rintraccia le radici e le ragioni.
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