L’osservazione fisica si basa su dati di fatto rilevabili e misurabili, comprendenti, persino, l’inchiostro usato per scrivere una parola o il materiale usato per modellare una figura. Una osservazione metafisica, andando oltre questi elementi contingenti dell'esperienza sensoriale, presume di occuparsi di aspetti universali ritenuti addirittura più autentici e fondamentali della realtà materiale.
Da questo punto di vista l’osservazione attenta dell’opera di Alberto Giacometti, Il cane che dà il titolo all’ultima raccolta di Stefano Raimondi[1], può aiutare ad orientarci in una Poesia dell’abbandono. È indubbio che il cane di Giacometti è come l’usignolo di Keats: l’abbandono di cui parla il poeta è abbandono di tutti, a partire da questo cane scheletrico che ci viene incontro per strada.
Scrive Jean Genet nel suo L’Atelier di Alberto Giacometti[2]: «Il cane in bronzo di Giacometti, mirabile. Ancor più bello quando pencolava allo stato di materia grezza: gesso, filamenti intrecciati alla stoppa. La linea delle zampe davanti, senza articolazione marcata, e visibile tuttavia, così bella che decide da sola la docile andatura del cane». Questa è una osservazione fisica che però ben rappresenta la poesia di Raimondi. La parola/gesso, i versi/filamento che si intrecciano alla stoppa/testo senza una marcata articolazione si fanno così visibili e sonori da decidere una docile lettura . Veniamo così abbandonati a quei segni che intrattengono tra loro rapporti sfuggenti e allo stesso tempo determinanti. La maggior parte delle cose in Natura emerge in questo modo tra casualità e necessità: una stella, un cristallo, un embrione, un germoglio, una nuvola; sono tutti processi che si esplicano attraverso una nucleazione e una crescita.
E la poesia fa lo stesso.
Quante cose si possono dire, quante
per salvarsi in tempo, per salvare.
Non ci sono gesti da spiegare
senza mondo intorno:
angoli dove a svoltare
è solo un pezzo di luce inutile
una staffa senza caviglia
un salto senza rincorsa.
Non esiste una parola sola
che possa salvare in tempo
una frase, una bocca, la lentezza
inesorabile di un pane che si rafferma.
(pg.19)
Sembra che dopo... esserci nel primo verso (per ben undici volte il testo inizia con un Ci sono), Raimondi abbandoni le parole al loro borbottìo : in un certo senso ogni parola parla con tutte le altre che la riconoscono. Ogni parola viene così accolta soprattutto da quelle che presentano con lei affinità di significato, di metafora, di risonanza, di musicalità e ritmo.
Così come sembra accadere nel cane di Giacometti dove ogni singolo tratto viene accolto e integrato dal segmento precedente e quello successivo tanto da conferire una dinamicità naturale a un assemblaggio di materia inorganica.
Ci sono dei sogni, a volte
che ci si arriva col fiato grosso
con tutto quello che si vorrebbe fare.
Salvarsi dalle notti d’ossa
fa restare rasenti a tutto.
Tenersi vicini ci si racconta
come quando ci si corre incontro
e a stupirsi è solo il nostro pezzo felice.
(pg. 89)
Passiamo ora all’osservazione metafisica. Nel tentativo di superare gli elementi instabili, mutevoli, e accidentali della materia grezza – il gesso, il fil di ferro, la stoppa, il bronzo - la metafisica concentra la propria attenzione su ciò che considera stabile, necessario, assoluto, per cercare di cogliere le strutture fondamentali dell'essere. In quest'ottica, i rapporti tra metafisica e ontologia sono molto stretti, tanto che sin dall'antichità si è soliti racchiudere il senso della metafisica nell'incessante ricerca di una risposta alla domanda delle domande: «perché l'essere piuttosto che il nulla?». La scultura di Giacometti, quel cane così filiforme da essere trasparente -l’(a|e)ssenza del cane- pare porre in altri termini la stessa domanda: «Perchè, abbandonato, esisto? » o meglio ancora «Perchè, esistente, m’abbandono?»
Come la maggior parte delle sculture di Giacometti, Il cane del 1951 suggerisce l’apparizione di una vita a distanza, anzi osservata e persa nella distanza; è una scultura euclidea, anoressica per erosione di materia, ma nello stesso tempo ancora vibrante e nutrita.
La vita non è un cane rabbioso che morde, ma un cane che “si abbandona”.
Non si è abbandonati. Non abbandoniamo. Noi siamo nell’ abbandono.
Sono fatti così gli abbandoni:
restano fino a trovarti, fanno
fino a commuoverti in una parola sola
in poche cose, in quello che tieni
stretto tra le mani e non c’è già più
davvero.
(pg. 29)
La reazione a questa presa di coscienza è una cieca brama di sopravvivenza, un ostinato aggrapparsi al poco che è concesso, anche al nulla di una linea euclidea, certamente inesistente ma tanto affilata da ritagliare un mondo.
Jean Genet così continua: “Da principio scelto come segno di miseria e solitudine, il cane mi pare disegnato adesso come spettro armonico, la linea della schiena che risponde alla linea delle zampe, spettro che sa essere l’esaltazione suprema della solitudine” e proprio in questa
“...oscillazione tra solitudine, miseria e armonia, tra luce, stella, tremore e senso d’abbandono” che Fabio Pusterla individua il nucleo metafisico della Poesia di Stefano Raimondi.
Ma dopo tutte le corrette e inconfutabili osservazioni di carattere fisico e metafisico occorre individuare il particolare, quella osservazione unica, profetica e miracolosa che contrariamente alle prime due, non si occupa del generale o addirittura dell’assoluto. Quell’osservazione che concede l’accesso a un atto conoscitivo quasi sciamanico.
In effetti questo tipo di osservazione ci vede osservati più che osservatori, ci vede cioè compromessi con l’opera.
C’è un episodio della vita di Giacometti che fa capire questo aspetto: un giorno Alberto, disegnando nell’atelier di suo padre aveva attribuito a una pera una dimensione così minuscola da far apparire il foglio gigantesco e provocando per questo l’irritazione del padre che lo rimproverò: «Falla dunque come la vedi!». Ma era precisamente così che Alberto vedeva quella pera, cioè come una presenza. Non si trattava quindi di uno studio ma esattamente l’opposto: era l’aprirsi ad una apparizione.
Cosicché si comprende che l’esperienza dell’abbandono è l’abbandonarsi.
Leggiamo sul vocabolario, tra le definizione di abbandono, la seguente: “il lasciarsi andare, con valore positivo, l'affidarsi pienamente: a. in Dio; con valore negativo, perdita di fiducia, scoramento SIN sconforto: essere preso da un senso di a.”
E questa definizione ci mostra non una ambiguità del termine ( lasciarsi andare) ma il... termine di un’ambiguità; e ci conduce, come spesso accade, in Oriente.
Chang Chung-yuan è uno dei pochi studiosi che ha visto nel saggio di Heidegger, L’Abbandono[3], un avvicinamento al pensiero orientale. Egli infatti ha tentato una comparazione tra il concetto di abbandono con il rispettivo concetto orientale di wu wei (non-azione). In un sua relazione Chang Chung-yuan [4] cita il seguente passaggio di Heidegger: “Vorrei chiamare questo contegno che dice al tempo stesso sì e no [...] con un’antica parola: l’abbandono di fronte alle cose”.
Questo abbandono richiama ciò di cui parla Chuang-tzu: “Colui che ha praticato intimamente il non-agire è tranquillo come la baia, silenzioso come il deserto, pacato come la melodia. [...] Ciò che fa si che le cose siano cose non è limitato dalle cose; tutte le cose hanno i loro limiti propri; è quel che si chiama il limite delle cose; [...] Ciò che si chiama la pienezza e il vuoto, la decadenza e la diminuzione; contenuto nella pienezza e nel vuoto, il Tao non è pienezza né vuoto; contenuto nella decadenza e nella diminuzione, il tao non è né decadenza né diminuzione” .
Questo è propriamente dire no e allo stesso tempo sì. Questo significa abbandonarsi di fronte alle cose. E da ultimo, questo è anche l’insegnamento di Chuang-tzu che conduce gli uomini alla libertà di fronte alle cose.
Il cane di Giacometti e, ça va sans dire, la Poesia di Raimondi “dicono” no e si allo stesso tempo così che nell’abbandono non sempre si è completamente abbandonati o ci lasciamo completamente andare.
L’abbandono cioè è e, contemporaneamente, non è sempre un ‘abbandono’: una visione del reale questa dove tutto si contiene nella pienezza e nel vuoto, nel cadere e nell’andare avanti, nella decadenza e nella diminuzione. Un segno dunque che invita a ricondurre lo sguardo all’altezza degli occhi di chi sa come procedere, nonostante tutto e nonostante il tutto: tranquillamente come una baia, silenziosamente come un deserto, pacatamente come una melodia.
Un po' come sembra procedere - a dispetto della fisica e della metafisica - il cane di Giacometti o il verso di Raimondi.
Ci sono parole appese a un filo
matasse ingarbugliate dalle mani
A volte ci si protegge dall’amore
con un altro amore, dalle onde
stando con la testa sotto l’acqua.
Dal dolore si passa facendosi sottili
come una luce d’alba che subito finisce.
(pg.99)
Riferimenti
[1] - S. Raimondi, Il cane di Giacometti, Marcos y Marcos (2017)
[2] - G. Jenet, L'atelier di Alberto Giacometti, il Melangolo (1992)
[3] - M. Heidegger, L'abbandono, il Melangolo (2004)
[4] - Chang Chung-yuan, The Philosophy of Taoism According to Chuang Tzu in Philosophy East and West Vol.27, N. 4 (Oct.1977)