“La scoperta etimologica è una “illuminazione”. La scoperta etimologica ci dà l’impressione (o l’illusione) di toccare con mano la Verità[...]. Spenta la curiosità di scoprire le “radici”, una maggiore libertà ci rimane per scoperte più importanti” [1]
Alberto Savinio si diceva certo che le rovine di Troia fossero quelle scoperte da Schlieman per il fatto che durante la Prima Guerra Mondiale il cacciatorpediniere inglese Agamennon le aveva cannoneggiate: dopo migliaia di anni l’ira funesta di Agamennone aveva spinto quei cannoni a sparare su delle rovine ignote e abbandonate.
Così possiamo dirci certi della presenza di questa Berenice nella recente raccolta [2] di Marco Munaro Berenice, Il Ponte del sale marzo 2014, per il fatto che alcune foglie di quercia del Salento si sono fatte trasportare in macchina fino a Rovigo: se la Berenice di Munaro -la sua Musa dunque- non le avesse animate perché mai queste
...foglie di quercia vallonea
contemplate a lungo nell’autunno instancabile...
avrebbero deciso di lasciare il Salento per apparire quale preludio lirico di questa raccolta poetica(Foglie pag.15) ?
Come sempre i nomi, non che un destino, sono le cose stesse.
Così questa B che si muta in V per generare una Veronica da una Berenice o una Venezia da una Benatky sono giochi con un significato verbale che, insieme alla etimologia e alla paretimologia, (ferenike, portatrice di vittoria; vera ikona, santa immagine) forniscono una privilegiata pista ermeneutica.
In una lucida “trascrittura” del dettato di Berenice/della Poesia, resta, (si spera) inconsapevole in-tensione del poeta, l’allusione ad altre verità attraverso l’istanza del significante di termini come “vetro” , “sudario”, “chioma”, “volto” e ancora “Orione”, “cerbiatta”.
Quanti nomi ci sono in un nome?
si chiede Munaro nella poesia Matera (pag. 63). Proprio in questa poesia , avendo giustamente scartato i giochi di parole intenzionali quali matera=mater o matera=materia, matera= mataio olos= tutto vuoto, resterebbe comunque che sia stato una sorta di lapsus ad aver agito in Munaro nell’istituire una relazione tra gli asfodeli dell’ultimo verso (l’asfodelo si sa rivela la consapevolezza della morte anche nella luce estiva) e l’etimologia propria di mater=avere un utero, generare vita quindi.
E’ qui, come in una “illuminazione” che scopriamo in Berenice la portatrice di una vittoria sulla Vita e sulla Morte e qui che scopriamo in Orione (o Rudra per i Veda) colui che allontana i dolori.
Cosa è la Poesia se non “solo” e “tutto” questo?
Ed ecco quindi che la curiosità appena appagata grazie a queste scoperte etimologiche e alla illusione, che ci hanno regalato, d’aver toccato con mano la Verità, ci porta, come promesso da Savinio, a una maggiore libertà: a scoprire nuove cose, nuovi luoghi.
Giungiamo, per così dire, insieme a Munaro e per suo tramite al Luogo del Cacciatore quello specchio di “cielo” dove splendono stelle/parole che ci ricordano storie antiche che mai smetteranno di accadere. In questo Luogo le stelle e i pianeti possono inseguirsi in una rigorosa retrogradatio cruciata e i loro nomi sciogliere le menti e i cuori, come se fossero la fragranza del suono e del ritmo.
“...Se in ogni parola si cela l’assassino della cosa, che da sempre aspetta una riparazione, da questi nomi emana una sostanza morbida e irradiante che invano cercheremmo tra le cose che sono...”.[3]
E’ qui che comprendiamo che la chioma di Berenice, assunta in cielo, è un regalo che gli dei fanno agli uomini e non l’astuzia dell’astronomo Conone; è qui , in questo cielo mimetico che rivela e occulta e che davvero con una sola corrente divide due terre, qui, dunque, è impresso il volto (la nuca) di Berenice, qui, si mostra e non si mostra il Volto dell'Amore.
Qui la Poesia parla e al poeta non spetta che aspettare e dire:
Sei qui finalmente e mi basta...
Dimmi.
Riferimenti
[1] - A. Savinio, Nuova Enciclopedia, Adelphi, 1977;
[2]- M. Munaro, Berenice, Il ponte del Sale , Marzo 2014;
[3] R. Calasso, Ka, Adelphi, 1996