mercoledì 6 luglio 2016

E' nato Valentino Zeichen

Riflettevo ancora una volta sul fatto che, per la maggior parte delle persone, un poeta nasce il giorno in cui muore. Questo è uno di quei giorni: oggi, 5 Luglio 2016, a Roma è nato per la stragrande maggioranza di noi, Valentino Zeichen.
Intorno alla sua capanna sulla sponda del Tevere già si sparla di lui nel solito modo affrettato con il quale oggigiorno si “parla”, coniugando i verbi al passato senza problemi di frugalità ovvero spreco: questa società se ne frega delle parole e dell’uso inutile, per questo importantissimo, che ne fanno i poeti.
Valentino Zeichen dunque è finalmente venuto al mondo per chi non se ne fosse ancora accorto: come non sentire di fianco alla sala parto quel canto di un bambino tenuto da un tallone a testa in giù per essere misurato dalla ostetrica di turno; profanato in tutti gli orifizi per assicurare il libero passaggio all’ispirazione?

"Io"-dice Zeichen-"...scrivo ogni volta che mi sento. Io ci credo, all’ispirazione: secondo me è l’eredità che gli dei ci hanno lasciato andandosene, un pulviscolo che qualche volta ancora si posa sugli uomini".

Dal Fiume si arriva, si viene salvati, e al fiume si torna, si è salvi; il fiume dove tutto scorre dando un ritmo anche alle pietre ferme sulle sponde e dove tutto è stato salvato, anche le siccità future svuotate delle piene del passato. Non sarà più possibile bagnarsi non due, ma una volta sola nello stesso fiume.
Di questa nascita qui do notizia, quasi fosse l’annuncio della scoperta di un bosone, un buco nero o dell’invenzione della macchina del tempo o del teletrasporto e tutto questo per dare l’incredibile sensazione della presenza di un altro universo che contiene, tra le altre cose, questo:

La bocca della verità

se per i visionari del plenilunio
quella non è la testa di oceano
e neanche un chiusino di scolo
la bocca della verità è
forse un sole senescente
una stella di neutroni.
alla prova del vero
la leggenda vuole che
vi si infili la mano
lasciandola in pegno
e qualora s’è mentito
la bocca la divori!
ma sempre la restituisce
perché? le verità soggettive
sono false, non verificabili
le scientifiche, verosimili.
avete mai visto quella bocca
divorare una teoria?

Stavo terminando di scrivere un breve contributo sulle Forme della Brevità (epigrammi ed haiku) con l’intenzione di aggiungere tra i cultori del genere proprio Valentino Zeichen, quando è sopraggiunta la notizia della sua morte.
Evidentemente anche per me, che lo conoscevo, la morte di Zeichen rappresenta, in ogni caso, la sua nascita (rinascita) o se vogliamo l’emergenza ancora più chiara e netta di una nuova figura... di epigrammista/haijin , di un poeta in grado di abbracciare la tradizione occidentale di derivazione greca e latina e quella orientale di derivazione cinese e giapponese. Leonida di Taranto con un tocco di Marziale e Li Po con un tocco di Matsuo Basho.

Alla presentazione del suo ultimo libro, Aforismi d’autunno (Fazi Editore, 2010), Zeichen afferma: “Il futuro della lettura sono gli aforismi, gli epigrammi, le poesie veloci, non c’è più tempo per poesie di 20, 25, 30 versi”. Ma la sua visione “aforistica” della brevità è di natura raffinatissima, come spiegato bene da Bonnefoy ( altro grande poeta nato anche lui pochi giorni prima di Zeichen), la forma breve, più di ogni altra, rappresenta la soglia di un’esperienza specificamente poetica e -oggi più che mai, nell’epoca cioè dei 140 caratteri di twitter- quando una poeta adotta una forma breve, già si volge, in virtù di questo semplice fatto, verso ciò che nel nostro rapporto con il mondo, può essere poesia: qualcosa che non conta su- e non si conta in- 140 caratteri ma nella loro metamorfosi in originali permutazioni ( le possibili permutazioni dei 140 caratteri di twitter è un numero superiore a 250 cifre!).

12
Sono transitati secoli
dentro i miei anni
e (io) non vi ho fatto caso.
**
21
Gli anni sono come docili
cavalli al pascolo
la cui indolenza ci rassicura,
quando partono all’improvviso
al galoppo numerico. 
**
26
La bellezza è come la fiaccola
delle staffette,
passa da una donna all’altra.
**
37
Il massimo della profondità
che tu conosca è quella
delle rughe.
Benedicta
**
43
Gli artisti, di solito, amano
i “primi piatti” e per “secondi”
non disdegnano i contorni di monete.
**
53
Ai gradi militari
ho preferito quelli alcolici.
**
71 
Mentre si è giovani si viene
costantemente sollecitati
a conseguire al più presto
la “maturità. Poi ci si
avvede che la vecchiaia
la fornisce gratuitamente.
**
99
La mira dell’artista
deve essere superiore
a quella dell’arciere
poiché punta all’infinito.

La forma breve- un epigramma, un haiku, un aforisma - è per sua natura fisica (pochi tratti neri su un universo bianco) circondata dal silenzio e come Zeichen stesso ammette, lui con il silenzio ci sta veramente bene perché "...il silenzio mi fa guadagnare il coperto successivo. Quando ti assicuri la pietanza hai vinto comunque". È un’affermazione, questa, che avrebbe potuto fare sia un Leonida di Taranto che un Matsuo Basho.

Chi è dunque questo poeta che oggi è venuto al mondo emergendo dalle sue parole e dai suoi silenzi: nessun altro che quello che lui stesso dice di essere: "...il protagonista di Una cena elegante di Robert Walser. Un estraneo che arriva in un posto, si siede, si vede offrire cibo, sorrisi e sigari e poi va via senza che nessuno abbia capito chi sia".

Che la tua nuova vita possa aiutarci a capirlo, Valentino.

sabato 4 giugno 2016

Il segreto di Dafne

Uno dei temi ricorrenti nella poesia di Carla Baroni è quello della “questione femminile”: non ho altri modi per indicare questa esigenza della poetessa ferrarese di sistemare nel Mondo e nel suo mondo la donna; sé stessa.
Non ricorro volutamente a termini quali “femminismo” o, meno che meno, “femminicidio” perché troppo contingenti riferibili come sono a un particolare periodo storico o alla più stretta attualità: Carla parla di ben altro, parla di Identità e lo fa in un modo, nella forma e nella sostanza poetica, così alto da nasconderlo.

IV

Qualcuno dice che anche noi nascemmo/dal verde di una pianta. Prima l’alga/ancora solitaria nel gran mare//…approdò a riva//… e lì si abbarbicò cercando luce/luce diversa da quella degli abissi.

La Natura ama nascondersi diceva Eraclito e la donna in quanto mater-colei che possiede un utero- depositaria, quindi, della continuità della vita, dall’origine dei tempi ha condotto una vita segreta quando non segregata. Questo è Il segreto di Dafne che è il titolo del prezioso poemetto di Carla Baroni (Blu di Prussia Editrice, Piacenza, 2015, con la prefazione di A. Quasimodo).

V

Le foglie non han voce. Solo il vento/ dà loro i suoni e le parole…//…Ed è silenzio allora tutt’intorno/solo talvolta lo stormire lieve/è un sussurrare al cielo una preghiera/


Gli uomini affrancati dal “dovere” di procreare hanno un rapporto con la Natura, per così dire, secondario e per questo hanno inventato quel teatro che possiamo chiamare di volta in volta Storia, Scienza, Tecnica, Economia, Politica dove mettono in scena sé stessi con le loro gesta e i propri trionfi decorati d’alloro.
Relegata nella sua natura e nella Natura, la donna invece ha occupato il posto che le veniva assegnato; altre volte sceglieva lei stessa di farsi da parte, sacrificandosi o, addirittura…facendosi da parte!

Il poemetto regala subito l’immagine di questa foresta e non possiamo fare a meno di riportare alla mente il bosco dantesco del XIII Canto dell’Inferno nel quale Dante chiede a Pier delle Vigne come le anime si trasformino in alberi e se alcuna di esse si divincoli mai da tale forma.
Anche Dafne, in fondo, potrebbe appartenere a questo bosco dei suicidi in quanto costretta dall’abuso di potere e dalla forza del dio Apollo a preferire una vita vegetale piuttosto che a cedere sé stessa, il suo corpo a chi voleva possederla contro la sua volontà.
Nel bosco dantesco ci sono anime che hanno rifiutato la loro condizione umana e per questo non sono degne di avere il loro corpo e trasformate, quindi, in una forma di vita inferiore come una pianta.
Ma qui nel poemetto di Carla tutto è rovesciato perché

XXII

…il grano ha tempi ben precisi, torna/dalle viscere sacre della terra/come uccello migrante al proprio nido/nell’orbita di un volo di speranza.

Tutto può ritornare in vita come la natura della donna ben sa: noi nasciamo ( o rinasciamo) dentro al buio sempre:

XXVIII

Uomo, animale, pianta che nel vento/getta i suoi semi a farne nuovi esseri/per quell’istinto di conservazione/che non ammette deroghe in natura

e la donna è pianta che da una sola foglia sa ricostruire fusto e gemme e questa coscienza di sé è così prepotente e dirompente da far dire a Carla:

XXXIII

Forse fui anch’io così. Mi ritrovai/foglia non più, ma completa pianta,/pianta robusta di corteccia antica/abituata ad affrontar tempeste.

In questa antimetamorfosi ovidiana appare dunque il tema che da sempre sta a cuore della poetessa, quello che all’inizio ho chiamato la questione femminile: il posto della donna nel mondo.

Il Poeta scrive perché qualcosa d’eterno lo muove e questa azione gli permette di conoscersi meglio perché nella poesia alta si toccano elementi sconosciuti alla coscienza. Man mano che si procede nel poemetto la donna/Dafne-Carla prende a poco a poco coscienza di disporre di un potere assoluto: il potere di vita o di morte simile al potere del dio o del re che da sempre sono i simboli del potere sociale, di quel potere in grado solo di ordinare, espressione di dominio e di violenza.
Ma questi due poteri, quello di vita o di morte della Donna e quello ordinatore dell’Uomo fin dalla notte dei tempi si fronteggiano e confliggono tra loro.
Carla ci racconta questo conflitto o si fa strumento di questo racconto.

In una società che è stata costruita ed è ancora ordinata dagli "dei", dai "re", da "uomini" prepotenti e violenti è la Poesia che può e deve dare voce alle dafne, alle madri, alle donne meno propense ad anteporre gli andamenti degli indici di borsa alle armonie di un suono e allo spettacolo di un cielo che muta sopra i rami.

domenica 24 aprile 2016

A Tempo e Luogo

Sia la Poesia che la Fisica hanno a che fare con Spazio e Tempo e in particolare con la disposizione di “cose” in continuo fluire in un vastissimo continuum e cioè gli oggetti propri della fisica (p.es. particelle e galassie) e quelli propri della poesia (parole e silenzi). E’ evidente in tutto ciò una inconciliabilità intrinseca e connaturata a questa “attività”: stabilire una “posizione” per qualcosa che comunque continua a scorrere a evolvere e mutare: la “luna” di oggi (astro-parola) non è quella che osservavamo-leggevamo ieri.
Una meditazione sullo Spazio- Tempo o su una delle osservazioni più sibilline del tardo Wittgenstein (La filosofia si potrebbe in realtà solo poetare) : questa potrebbe sembrare a prima lettura l’ultima raccolta di Angelo Andreotti , A tempo e luogo ( Manni, Lecce 2016), ma leggendo e rileggendo le 60 composizioni divise perfettamente in due parti, ciascuna di 30 poesie, ci si accorge che qui qualunque tempo diventa inabitabile tranne l’istante che

...è una dimora/piena di stanze con porte da aprire/di cui mai abbiamo avuto le chiavi [ da Lo specchio, pg. 43];

e che qualunque luogo

...anche quel sentiero/che mille volte abbiamo camminato [da Divergenze III, pg. 35],

si fa inesplorato.

Quindi non di meditazione si tratta ma piuttosto di una fuga dal nostro spazio-tempo che sebbene relativistico ci risulta positivista e accomodante e in quanto…quantistico sicuramente discreto e rassicurante. Ecco cosa è A tempo e luogo: la fuga da una bellissima gabbia dorata che ci tiene stretti nel mondo.

Questo bisogno di evadere dalle nostre possibilità ordinarie, da questa gabbia fatta di abitudini, educazione, circostanze e che si rivela tanto più stretta e tirannica quanto più cerchiamo di uscirne, questo bisogno, dunque, potrebbe essere la nostra esigenza più profonda per soddisfare la nostra curiosità di conoscere la gabbia in tutti i suoi dettagli (come la Fisica vorrebbe fare) o all’opposto per eliminare in qualche modo le sue sbarre (come la Poesia consente di fare).

Noi conosciamo e sperimentiamo il mondo che ci circonda solo a frammenti, piccoli frammenti di spazio e di tempo, il qui e l’ora. Nella nostra esperienza quotidiana , a ben vedere, non c’è niente che corrisponda alla nozione di ora di adesso. E’ inutile ricordare che le cose che vediamo ora sono già cambiate e anzi le vediamo proprio perché cambiano, perché scorrono nel tempo.
Se confrontiamo la nozione di ora con quella di qui ci rendiamo conto che mentre qui designa il luogo dove sta, per esempio, chi legge queste poesie, non certo può indicare il luogo dove queste poesie sono state scritte, dove il poeta parla: qui, per persone diverse, perciò indica luoghi diversi ma esistenti: nessuno si sognerebbe di dire che le cose qui esistono, mentre le cose che non sono qui non esistono.
Quando però diciamo, scriviamo, leggiamo ora abbiamo l’impressione che le cose che sono adesso esistono e tutte le altre, quelle di prima e quelle di dopo, no. Questi due frammenti di spazio e di tempo, quindi, sembrano essere, a proprio modo, delle mere illusioni: il qui ci lega ad altre cose esistenti che però non conosciamo; l'ora ci lega soltanto a cose che conosciamo e che sono già cambiate, se non svanite. In ogni caso possiamo immaginare un mondo senza luoghi o viceversa con tanti qui ma è difficile immaginare un mondo senza lo scorrere del tempo anche se questo fluire- che Heidegger poneva come primitivo- è assente dalla descrizione del mondo.
Questo flusso non può essere descritto studiato interrogato: può essere solo mostrato, può farci compagnia in ogni momento, può addirittura diventare il nostro stesso essere, ma non può essere descritto in altro modo se non frammentandone gli istanti e distruggendo quindi la sua natura.
Uno dei modi per mostrarlo, questo flusso continuo, è quello di mischiarlo alle parole, cioè ri- buttare nel tempo, nella sua corrente quello che la vita ci ha consentito di pescare. Questo il Poeta lo sa bene:

...Di notte le ore contano di meno/se aggrovigliamo il tempo alle parole [da Il letto sfatto pg.45]

Un altro dei modi per mostrarlo all’opera e fissarlo nella materia come ha fatto Lisippo che nell’ideare i tratti salienti del kairos (l’ora calata nell’istante imprevedibile) li scolpì come un ciuffo di capelli sulla fronte della sua famosa statua e la calvizie incipiente sulla nuca della stessa, perché il kairos deve essere acciuffato in anticipo e perché, una volta passato, non può essere più riafferrato.
Se leggiamo le due parti in cui è suddiviso A tempo e luogo subiamo questa straniante sensazione di girare intorno alla statua di Lisippo e di vedere in anticipo questo fluire del tempo attraverso un ritmo dettato da un orbita di parole (frammenti degli anelli di Cronos/Saturno) che

...raccontano storie/in cui la vita/per come la sappiamo/non potrà mai più accadere [da Rincasare II pg.25]

e dove avvertiamo questo

...privilegio di essere presenti/ attraverso le cose//e attraverso le cose/fare un solo mondo di noi e del paesaggio [da Semplificando pg.21]

E girando e rigirando intorno alla statua scorgiamo quella chiazza vuota a ricordarci la frons capillata e poi nuovamente rivediamo il ciuffo a ricordarci l’assenza di capelli sulla nuca: sono i momenti nell’orbita del tempo in cui

...l’attesa/è già il compiersi di ogni accadimento [da A tempo debito pg.44]

E che quindi tutto ciò che è accaduto, ciò che accade e tutto quello che a tempo debito accadrà, non è niente altro che Attesa.

Il compito del linguaggio metaforico della Poesia così egregiamente assolto qui, da (e grazie a) Andreotti , è dunque “solo” quello di mischiare il mondo alle parole, l’esatto contrario di quello che fa il linguaggio analitico della Scienza che vuole appunto separare il mondo dalle parole. Frammento dopo frammento.
La Poesia a differenza della Scienza racchiude in sé i tre modi cognitivi dell’essere umano: quello analitico, quello sintetico e, non ultimo quello profetico. E questa capacità della Poesia viene tutta mostrata nella sua potenza senza essere veramente detta; mostrata, nascondendola sapientemente, nelle orbite della seconda parte della raccolta. Numeri (titoli) che non contano (dicono) nulla ma che si rac-contano spazio e tempo, mischiando mondo e parole.

A questo punto vale la pena sottolineare un aspetto importante: lo stretto legame che esiste tra il kairos e il calore.
Il fatto è che solo quando fluisce qualcosa di vitale (energia, calore, ardore, respiro…) il passato e il futuro si distinguono. Il calore da un punto di vista statistico è il risultato di infinite interazioni di frammenti che precludono la conoscenza esatta delle cose: è questa inevitabile (santa!) ignoranza che ci dispone alla percezione del fluire delle cose dunque , il movimento che crea memoria, coscienza, pensiero e linguaggio. Proprio come il kairos che è il risultato dell’incontro- scontro di tanti frammenti di ora.
Dicono i Vangeli che kairos è ciò che Dio ha deciso ed attuato, a Tempo e Luogo. E a tempo e luogo è ciò che la Poesia fa amabilmente per noi.

venerdì 26 febbraio 2016

Onde gravitazionali e onde poetiche.

In uno dei suoi celebri dialoghi, Platone definisce gli ingenui dalla mente candida come coloro che credono di poter imparare l’astronomia senza conoscere la matematica. Per la poesia vale qualcosa di simile: candidamente ed ingenuamente molti credono che la poesia sia qualcosa che abbia a che fare con l’andare a capo ad un certo punto e far rimare tra loro le parole (U. Eco ha genialmente fatto rimare Schopenhauer con amore ma non per questo possiamo considerarlo un poeta).
Se così fosse oggi con un computer potremmo imparare tanto l’astronomia che la poesia e dedicarci con successo ad esse.
Evidentemente le cose non sono così semplici. Se da un lato è possibile constatare la notevole fattura di foto e di ricerche astronomiche e quindi una “produzione di astronomia” anche da parte di astronomi dilettanti, non è altrettanto vero per quello che riguarda la poesia: possedere un computer potente in grado di contare le sillabe, legare le parole per assonanza o per finale di sillaba non “fa poesia”; produce e aumenta sicuramente il numero di poeti dilettanti ma non “poetizza”.
Evidentemente fare poesia non è un’attività regolata da algoritmi nè tantomeno da ricette come quelle che servono a fare un buon piatto. Non è una questione di organizzare un algoritmo o di legare ingredienti da mettere a... file e a fuoco. La poesia non è fatta dalle parole messe sul foglio bianco, così come la teroria della Relatività Generale è molto di più di una equazione di grande semplicità come questa Rab-½Rgab=Tab.[1]
Mentre l’astronomia e la culinaria, con le loro rispettive tecniche, possono essere insegnate e chiunque, grazie a questo, potrebbe aspirare a diventare un discreto astrofilo o chef, è difficile immaginare che un corso di poesia (un corso di scrittura creativa?) sia in grado, allo stesso modo, di sfornare un discreto poeta.
A dimostrazione di questo basta dare un’occhiata agli ultimi grandi poeti del passato o a qualcuno ancora in vita: Montale era un ragioniere, Quasimodo un geometra, Sinisgalli un ingegnere come Gadda. Tranströmer era uno psicologo e la Szymbroska è stata all’inizio della sua attività lavorativa, una segretaria presso una casa editrice e una illustratrice di libri.
La poesia quindi non è il risultato (automatico) di una certa cultura o di studi organizzati e collaudati.
Non si sbaglierebbe a dire della poesia quello che Wittgenstein diceva della matematica: è un fenomeno antropologico, cioè un movimento che ha sempre attraversato l’uomo tanto da lasciarsi immaginare esterno a lui e che, attraversandolo, lo muove vale a dire lo emoziona.
A differenza di tutte le altre attività umane la poesia non scopre e non produce alcunché; essa non costruisce dispositivi ingegnosi e complicati né inventa spiegazioni o teorie. La poesia è “solo” una documentazione lunga e paziente della condizione umana: Brodskji direbbe che s’impara molto di più sull’antica Roma e lo spirito che la animava leggendo Orazio piuttosto che studiando Mommsen.
Questa testimonianza della condizione umana è quello che la Cvetaeva definiva la “voglia disperata di essere”, il grido cioè, di qualcuno o di qualcosa che non si accontenta di esprimersi attraverso strumenti normali. Non è quindi uno dei desideri del nostro Ego, del nostro “Io consapevole” ma IL DESIDERIO ( che a questo punto non dovrebbe chiamarsi così) di chi nel Canto di me stesso Whitman chiama “VERO IO”.
Tutti siamo consapevoli del fatto che la nostra vita interiore è estremamente complessa e questo determina che anche i rapporti con gli altri lo siano: l’immagine di noi che ci facciamo attraverso queste relazioni la chiamiamo “IO” ed, in fondo, come diceva Freud, non è niente altro che un incidente. Eppure c’è (per tutti) un momento nel quale più che rispondere al nostro IO e da lui lasciarci condizionare, riusciamo ad essere in contatto con questo VERO IO.
Da bambini quando la nostra realtà psichica era governata da un principio di piacere piuttosto che da quello, subentrato successivamente in età adulta, di realtà, siamo stati in contatto con quel qualcosa che dentro di noi vuole disperatamente essere. La poesia dunque è quel moto che nasce dal nostro VERO IO. E, restando a Whitman: cosa ascolta e cosa riferisce questo VERO IO al nostro – incidentale - IO? Ma tutto quello che l’Anima suona. Quello che l’Anima dice. Quello che l’Anima mostra.
L’unico mezzo che il VERO IO può “usare” per muovere l’IO è lo stupore, lo stupore che il poeta prova di fronte alla propria espressione soprattutto se in armonia tra Musica, Parola e Immagine.
Lo stupore quindi smuove la materia fosse soltanto per modificare l’espressione di un volto, per gonfiare gli occhi di lacrime, per accelerare il battito del cuore.
Nel fare poesia- nel suo farsi dunque in scrittura, lettura e canto - si porta allo stato cosciente tanta parte di “noi”, si modifica il rapporto tra IO e VERO IO e quindi tra il Mondo e l’Anima che lo crea.
Nella poesia, smettiamo per così dire, di dare credito al nostro io consapevole e ci esprimiamo in relazione al VERO IO e nel farlo ci accorgiamo che la parola pratica, quella che ci accompagna lungo la vita e fino alla sua fine, si può fare parola poetica, quella che ci riporta sempre alla vita senza conoscere una fine (non a caso la parola poetica viene ripetuta e memorizzata; va memorizzata e ripetuta).
La poesia quindi non è l’incidente di un IO che mette insieme, in bell’ordine, su un foglio di carta delle parole rimate e che di tanto in tanto decide di andare a capo. Non è l’uso e l’abuso di parole per uno scopo diverso da quello pratico di servire sciattamente e occasionalmente a qualcosa. No, la Poesia è proprio ciò che canta dice e mostra senza alcun altro scopo se non quello di cantare, dire e mostrare. La poesia è ... quel niente che passa per i cieli/e fiata sulla terra che ringrazia...[2] forse solo un’onda gravitazionale partita milioni di anni fa quando l’uomo ancora non sapeva di universo, di stupore. Non sapeva di Dio.



[1]- Per chi è incuriosito dalla formula mi limito a dire che Rab è il tensore di Ricci e R è la sua cosiddetta traccia; gab è il tensore metrico e Tab il tensore stress-energia. Buio totale? Lo so. Allora passiamo a Rovelli che nel suo Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi, 2014) cosi spiega l’equazione: “...Lo spazio di Newton, nel quale si muovono le cose, e il campo gravitazionale che porta la forza di gravità, sono la stessa cosa...questa è l’idea straordinaria e geniale [di Einstein]: ...il campo gravitazionale non è diffuso nello spazio: il campo gravitazionale è lo spazio!...” Lo spazio non è quindi diverso dalla materia ma una delle entità materiali del mondo. Un’entità che ondula, si flette, s’incurva, si torce. Quanto breve è il passo se si sostituisce alla parola spazio la parola poesia.

[2]-F. Loi Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle Da Lünn, Il Ponte Firenze (1982)

Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle/no per il freddo, no per la paura/no del dolore, del rallegrarsi o per la speranza/ma di quel niente che passa per i cieli/e fiata sulla terra che ringrazia...//Forse è stato come trema il cuore/ a te, quando nella notte va via la luna/o viene mattina e paia che il chiarore si muoia/ ed è la vita che ritorna vita./Forse è stato come si trema insieme/così, senza saperlo, come Dio vuole...

sabato 22 agosto 2015

Leggere serve a fortificarsi

Forse è il colore verde acido della costa, che tra le altre spicca sullo scaffale, a farci scegliere un libro: o, forse, è il titolo: quello delle raccolte poetiche, ad esempio, dice molto; richiama e incanta quasi fosse un canto omerico di sirene.
E il caso, poi, dove lo mettiamo il caso nella cosiddetta scelta? Magari il libro è poggiato lì sullo scaffale perchè il libraio non lo ha ancora opportunamente posizionato o intende , per qualche suo motivo, promuoverlo in questo modo o, addirittura, potrebbe trattarsi di un libro abbandonato, da qualche sconosciuto, lì su un prato, tra l’erba verde mossa dal vento. Potrebbe essere solo un libro fuori posto ma che in quel preciso momento, al nostro passaggio, si trova nel posto giusto.
Come vedete quindi sono tanti i modi “oggettivi” attraverso i quali i libri oppongono alla nostra, la scelta che loro fanno di noi lettori.
Poi vi è un modo, indiscutibilmente valido perchè “soggettivo” che è sceglire in base all’autore: il suo nome e quello che evoca in noi. E’ vero, noi vediamo, ascoltiamo e scegliamo per conoscere ma è altrettanto vero che noi vediamo ascoltiamo e scegliamo ciò che conosciamo, cioè quello che abbiamo imparato o quello che “già” sapevamo e abbiamo dimenticato. E in questo “già” c’è l’Anima.
Dopo questa breve inroduzione posso passare all’ argomento del post: l’IO e il doposcuola psicoanalitico di Walt Whitman: il termine scuola sarebbe stato pretenzioso e lo stesso poeta lo avrebbe disdegnato.
Tutto quello che ci accade giorno e notte-come ad esempio, imbatterci in un libro dalla costa color verde acido - non costituisce il nostro IO.

In disparte da quanto ci sollecita e ci urge sta ciò che noi veramente siamo e se ne sta divertito, compiacente, compassionevole, inerte, unitario a guardare all’ingiù volgendo di lato la faccia, incuriosito da quello che accadrà, partecipe ma fuori dal gioco; osserva e stupisce.

Ecco cosa fa il nostro amato Whitman[1], invita ad ascoltare noi stessi come se fossimo al di qua, ovvero, al di là di una porta, ad origliare dunque per entrare in contatto (percepire chiaramente!) una dimensione inattesa e differente da quella che sperimentiamo giorno e notte grazie ai nostri sensi e alla nostra “cultura” che è spirito del tempo; perché l’ ”io” secondo Whitman è diviso in tre parti [2] : il mio io, il vero io e la mia anima. Tale mappa psichica è del tutto originale ed irriducibile al modello d’inconscio freudiano o a qualunque altra mappa della mente.
Whitman inizia il suo Il Canto di me stesso [1] con un incontro tra il suo io e la sua anima come se fossero due amici: uno dei due amici (l’anima) appare all’altro come un’enigma, meglio, come una persistenza pre-esistente e che persisterà anche dopo l’ esistenza dell’io. Potremmo definire “carattere” questo enigma, in contrapposizione alla “personalità” propria dell’io.
Nel Canto di me stesso l’Io, la personalità (maschera= prosópon=persona) poetica dell’autore, si rivolge al vero Io ma qui accade che l’autore dia la chiara impressione di conoscere perfettamente sia la propria maschera poetica, sia il vero io ma di non conoscere quella che chiama anima mia perché l’anima non si può conoscere; all’anima si può solo credere.
L’anima quindi resta un rebus malgrado questo abbraccio armonioso e questo trasporto tra lei e l’io.
Leggendo Whitman scopriamo che il vero io è la parte migliore di noi, precedente alla Creazione, e che è questa parte a fare i conti e a intrattenere una relazione con l’io e l’anima che a questo punto si rivelano essere lo Spirito (non inteso in termini religiosi , quanto il combinato disposto weiliano di comprensione e percezione; di Ragione ed Emozione ) e la Natura: l’uno e l’altra devono rispettarsi e mai soccombere l’uno all’altra!

Credo in te, anima mia, e l’altro che io sono non dovrà mai umiliarsi a te,/come tu non dovrai umiliarti all’altro.

Il racconto poetico di questo abbraccio tra l’io, la persona Walt Whitman, e l’anima è una delle ragioni per cui leggere dovrebbe essere ritenuto un DOVERE. Leggere infatti serve a fortificare l’io e non è importante se si tratti dell’ ”io” che si trova da questa o dall’altra parte della porta. Non è importante sapere se abbiamo scelto quel libro per la sua copertina verde acido o per il titolo o perché ci è piovuto tra le braccia dallo scomparto in alto a destra dello scaffale o perché lo abbiamo casualmente trovato in mezzo a un prato: quel libro va letto perché leggerlo ci aiuterà a diventare più forti a dare più fiducia a noi stessi e, di conseguenza, donarla a quelli che incontriamo, a coloro che amiamo. Il libro serve ad avere fiducia e fede, e a dare fiducia e fede in quello che sarà.
Leggere, e in particolare leggere Walt Whitman, vuol dire “solo” dare più ascolto e più voce alla Vita: di qua e di la dalla porta.
Il canto di me stesso è costituito da 52 “pagine” di un diario ; pagine, quindi, scritte in gran segreto e destinate ad essere custodite in un cassetto se non fosse che chi le ha scritte, appunto, non è un “chi”, non è un io, non è una persona, ma un noi che attraverso il vero io riesce a tradurre ciò che l’Anima tace.
Di seguito riporto tolo le prime 6 “pagine” di questo diario abbandonato su un fazzoletto del Signore e sfogliato dal vento. Fogli d’erba sempre verde, a tutte le stagioni dell’io, alle non-stagioni del vero io; al dovunque-sempre dell’Anima.

1
Io celebro me stesso, canto me stesso, /E ciò che io suppongo devi anche tu supporlo /Perché ogni atomo che mi appartiene è come appartenesse anche a te.
Ozioso m’attardo e invito l’ anima mia,/Ozioso m’attardo a mio agio e mi curvo ad osservare un filo
d'erba estiva.

La mia lingua, ogni atomo del mio sangue, prodotto da questa terra, da quest’aria,/Qui nato, da genitori nati qui, i loro padri e i padri dei padri nati anche loro qui,/lo, a trentasettenne e in perfetta salute, incomincio,/Sperando di non cessare che alla morte.


Credi e scuole in sospensiva,/Un poco indietro ritrattomi, contento di ciò che essi sono, /ma non scordandoli ,/Accolgo il bene e il male, lascio parlare a caso,/La Natura senza freno e con la nativa energia.

2
Case e stanze son tutte profumate, gli scaffali gremiti di profumi/ Io stesso inalo la fragranza, e la conosco e l’amo,/La sublimazione potrebbe inebriare anche me, ma io non lo permetto./L'atmosfera non è un profumo, non ha la fragranza della sublimazione, è inodore,/E’ destinata per sempre alla mia bocca e io ne sono innamorato,/Andrò sulla scarpata presso il bosco, per mascherarmi, per denudarmi,/Sono pazzo dal sesiderio di venirne in contatto.

Il vapore del mio fiato,/Echi, increspature, soffocati sussurri, radice d'amore, filo di seta, biforcazioni, viticci,/ La mia respirazione e inspirazione, il pulsare del mio cuore, il transito del sangue e dell’aria per i miei polmoni,/L’odore delle foglie verdi e delle foglie secche, e della spiaggia, e delle brune rocce marine, e del fieno nel fienile,/Il suono delle parole vomitate, della mia voce affidata ai refoli del vento,/Pochi labili baci, una stretta, qualche braccio proteso,/Gioco di luci e d’ombre sugli alberi, quando oscillano i flessili rami,/La delizia di trovarsi solo, o tra la folla per strada, o nei campi, o sui fianchi d’una collina,/La sensazione di salute , il trillo del pieno meriggio, il canto di me che mi levo al mattino e vado incontro al sole.

Credevi che mille acri fossero molto? Credevi che la terra fosse molto?/Ti sei esercitato tanto per imparare a leggere?/Ti sei sentito così superbo perché intendevi il senso delle poesie?

Fermati oggi con me, fermati questa notte, e tu capirai l’origine di tutte le poesie,/Possederai il bene della terra e del sole (sono rimasti ancora milioni di soli,)/Non riceverai più le cose di seconda, terza mano, non dovrai più guardare attraverso gli occhi dei morti, né nutrirti di spettri nei libri,/Non dovrai guardare attraverso gli occhi miei, né ricevere sensazioni per mezzo mio,/Percepirai d’ogni parte suoni e li filtrerai attraverso te stesso.


3
Ho udito ciò che dicevano gli oratori che parlavano del principio e della fine,/Ma io non discuto né di principio né di fine.

Non vi fu mai più inizio di quanto vi sia ora,/Ne più gioventù o vecchiaia di quanta vi sia ora,/Non vi sarà mai perfezione maggiore di quanta vi sia ora,/Ne più cielo o più inferno di quanto vi sia ora./

Impulso, impulso, impulso,/Ognora il procreante impulso del mondo,/Dalla vaga lontananza eguali opposti avanzano, sempre so stanza e aumento, sempre sesso,/Sempre un intreccio d’identità, sempre distinzioni, creazioni di vita.

Elaborare a nulla giova, sapienti e ignoranti sentono che è così.

Sicuri come le cose più sicure, a fil di piombo i pilastri saldi i tiranti, rafforzare le travi,/ Forti come cavalli, affezionati, alteri, elettrici, /Io e questo mistero qui sorgiamo./

Chiara e dolce l’ anima mia, chiaro e dolce tutto ciò che non è l’anima mia.

Se manca uno, mancano entrambi, e l’invisibile è provato dal visibile,/Fino quando questo diventa invisibile e, a sua volta, viene provato.

A mostrare il meglio e a separarlo dal peggio un secolo dopo l’altro s’affatica,/Conoscendo l’assoluta giustezza, l’equanimità delle cose,/mentre quelli discutono io taccio e vado a bagnarmi e ad ammirarmi.

Benvenuto ogni organo e ogni mio attributo, e quello d’ogni uomo schietto e puro,/Non un pollice, né un frammento di pollice è vile, e nessuno deve essere meno familiare del resto.

Sono soddisfatto- io vedo, danzo, rido, canto,/Quando chi ha condiviso il mio letto e mi ha abbracciato e ha dormito al mio fianco, sul fare del giorno dilegua con passo furtivo,/Lasciandomi cesti coperti di bianche tovaglie, d’abbondanza m’impinguano la casa,/Devo posporre l’accettazione, la mia presa di possesso e urlare ai miei occhi che si volgano dal seguire chi si ritrae giù per la strada,/E subito stimino, e mi riferiscano, fino al centesimo,/Il preciso valore di uno, e il preciso valore di due, e quello che vale di più?

4
Gente che trama tranelli e pone domande mi attornia,/Gente che incontro, gli effetti su di me dell’infanzia, o del quartiere della città dove vivo, o il paese,/Gli ultimi avvenimenti, scoperte, invenzioni, società, autori vecchi e nuovi,/Il pranzo, il vestito, i compagni, l’aspetto, i complimenti, i canoni,/La effettiva o immaginaria indifferenza di qualche uomo o di qualche donna che amo,/La malattia di qualcuno della mia famiglia, o mia, o cattive azioni, o perdita o mancanza di soldi, o depressioni o esaltazioni,/Lotte, gli orrori della guerra fratricida, la febbre di dubbie notizie, eventi incerti,/Tutto questo m’accade giorno e notte e da me si allontana,/Ma non costituisce il mio io.

In disparte da quanto mi sollecita e m’urge sta ciò che io sono,/Se ne sta divertito, compiacente , compassionevole, inerte, unitario,/Guarda all’ingiù, si aderge, piega il braccio sopra un impalpabile ma sicuro sostegno,/Guarda volgendo di lato la faccia, curioso di ciò che accadrà,/Partecipe e fuori del gioco, osserva e stupisce.

Volgendomi indietro vedo i miei giorni, quando anch’io m’affannavo nella nebbia, con persone loquaci e inclini alle dispute,/Io non derido né discuto, ma osservo e attendo.


5
Credo in te, anima mia, e l'altro che io sono non dovrà mai umiliarsi a te,/Come tu non dovrai mai umiliarti all’altro.


Ozia con me sopra l'erba, libera la tua gola da ciò che l’impediva,/Non parole né musica né rime ti chiedo, né convenzioni né conferenze, sian pure le migliori,/Già mi soddisfa la cantilena, il cupo gorgoglìo della tua voce velata.
Ricordo di come una volta si giacque, un trasparente mattino d’estate,/Il capo tu mi posasti di sbieco sull’anca, e dolcemente su me ti volgesti,/Mi apristi la camicia sullo sterno, dardeggiando la lingua sino al cuore nudo,/Poi ti stendesti fino a sentire la mia barba, fino a tenermi i piedi.

Rapida sorse in me, e per me si diffuse la pace e la scienza, che superano ogni terrestre argomento,/E so che la mano di Dio è la promessa della mia,/E so che lo spirito di Dio è fratello del mio./E che tutti gli uomini ovunque nati sono anche miei fratelli, tutte le donne mie sorelle e amanti,/E che la controchiglia della creazione è l’amore/E che infine sono le foglie aderte o avvizzite nei campi,/E le formiche brune nelle piccole tane sotto esse,/E le muschiose incrostazioni delle staccionate tortuose, e i mucchi di pietre, il sambuco, il verbasco e la morella in grappoli.


6
Un bimbo mi chiese Che cosa è l’erba? Recandone a me piene mani,/Come rispondere al bimbo? Non ne so più di lui.
Penso debba essere l’emblema della mia inclinazione, tessuto della verde stoffa della speranza.
O penso sia il fazzoletto del Signore,/Un dono aulente, un ricordo, lasciato cadere apposta/Che reca il nome del proprietario in qualche angolo, onde possiamo vederlo e notarlo e chiederci Di chi sarà mai?
O penso che l’erba sia un bimbo, il bimbo nato dalla vegetazione.
O ritengo sia un geroglifico uniforme,/ Che significa, crescendo al pari nelle terre vaste come in quelle anguste/Crescendo tra i neri così come tra i bianchi,/Canaco, Mangiatuberi, Deputato o Moro a tutti dono ugualmente e ugualmente li accolgo.
E ora mi appare la bella capigliatura intonsa delle tombe.
Ti tratterò dolcemente, erba ricciuta,/Può darsi tu fiorisca dal petto di giovani uomini,/Che, avessi conosciuto, forse avrei amato,/Può darsi tu emerga da vecchi, o da bimbi anzitempo rapiti al grembo materno.
Quest’erba è troppo scura per spuntare dal capo canuto di madri anziane,/E’ ben più scura della sbiadita barba dei vecchi,/E’ scura per spuntare dal roseo palato delle bocche.
Vorrei poter tradurre gli accenni ai giovani morti, alle giovani morte,/E gli accenni ai vecchi, le madri, i bimbi anzitempo rapiti ai grembi loro.
Che cosa credi siano divenuti i giovani e i vecchi?/Che cosa credi siano divenute le donne e i bambini?
Sono vivi e stan bene in qualche luogo,/il minimo germoglio mostra che la morte non esiste,/E che se mai esiste, essa indusse alla vita, e non attese il termine per fermala,/E non cessò l’istante che apparve la vita.
Tutto continua e procede, mai nulla s’annulla,/Morire è ben diverso da quanto si pensi, e molto più fausto.


...Come non si può non continuare?

[1]- W. Whitman, Foglie d’erba, Einaudi, 1993
[2]- H. Bloom, Come leggere un libro (e perché), Rizzoli, 2001

domenica 26 luglio 2015

Pittogrammi ferraresi

Circa 20 anni fa in Francia è stata riscoperta la grotta di Chauvet praticamente inaccessibile fin dai tempi dell'ultima glaciazione. All'interno della grotta sono stati rinvenuti segni e pittogrammi incisi sulle pareti dagli uomini e donne di Cro-Magnon. Questi segni e queste immagini rappresentano in un certo senso l'alfabeto più antico che si conosca, l'alfabeto di un mondo che è rimasto invisibile allo spazio e al tempo fino al momento in cui è stato ritrovato.
Da quei segni graffiati sulla roccia traspare comunque l'affinamento di una Bellezza primitiva scaturita da un'atmosfera palpabile di paura e speranza; aleggia, per così dire, lo Spirito di uomini e donne esposti a molti misteri che vivevano in una cultura che Berger [1] ha definito dell'ARRIVO, per contrapporla a quella che viviamo noi oggi e che, evidentemente, è, per contrapposizione, una cultura della PARTENZA dove invece di essere affrontati, i misteri vengono elusi.
In questa grotta, attraverso questo alfabeto dell'invisibile, si capisce una cosa importante e cioè che la Poesia nasce come un delfino: sa nuotare subito.
Ecco dunque quello che consiglio di fare con l'ultima raccolta poetica [2] di Chiara De Luca, poetessa e traduttrice ferrarese: entrate nel libro come se fosse quella grotta e leggete le sue poesie come se fossero quei pittogrammi quei segni carichi di speranze, paure e desideri di noi tutti, Cro-Magnon-ferraresi.
Dopo un "viaggio" di 20 anni, Chiara De Luca ritorna in questo luogo dove persiste la sua origine, la nostra origine; in una terra che

...non attende acqua invece attinge

da falde dentro al ventre più profonde


né traccia l'acqua il suo viaggio per cadere

ma evapora l'eccesso di sé per non finire


[Parco Bassani, III pg. 43]

Con il ritorno dopo 20 anni a Ferrara, Chiara traduce le lingue visitate, i paesaggi e i luoghi interrogati, in un'unica lingua e in un unico luogo: una lingua senza un alfabeto (la Poesia) e un luogo senza contorni fisici (un origine invisibile).
Le parole sono solo e il SOLO modo di approfondire il rapporto tra se stessa e il mondo, tra la sua presenza umana e un luogo. Le parole non sono quindi il dizionario di ciò che chiamiamo "Chiara" o "Ferrara" ma i confini di un altrove che si perde nel buio della grotta e dove grazie ad un almanacco di segni e di pittogrammi ( parco bassani, via della ghiara, il ghetto ebraico, via gusmaria, parco massari, via camaleonte,...) è stato possibile ESISTERE e

...sguinzagliare di colpo la notte in un recinto di parole
[pg.56]

Su queste pareti ritroviamo tracciate le "campane" su cui Chiara saltellava da bambina, le matatene di Via Gusmaria [pg.38]; su queste pareti decifriamo tutte le speranze e le paure, i misteri a cui Chiara era esposta quando viveva nell'epoca dell'ARRIVO. E' in questa grotta in questo luogo che persiste l'ostinata origine della sua Poesia.
Tutti gli altri luoghi vengono visitati per essere cancellati. Solo uno resta sconosciuto: quello dove fallisce ogni tentativo di fuga e dove trionfano insieme la nostra prigionia e la nostra libertà.

Così viaggiare e visitare per 20 anni lingue e luoghi ha "soltanto" permesso di scoprire che ciò che è scomparso, in realtà, si nascondeva qui nel luogo che non è mai stato veramente visitato ma solo sgranato come un rosario; nel luogo dove è stato messo tutto a soqquadro ma non è stato riordinato mai nulla.
Il luogo dove Chiara è stata inchiodata alla vita e dove, come fa un delfino, ha subito nuotato.

[1] J. Berger Qui,dove ci incontriamo Bollati Boringhieri (2005)
[2] C. De Luca Alfabeto dell'invisibile Samuele Editore (2015)

mercoledì 8 luglio 2015

Tradurre eludendo la letteratura

Quale è il compito della Poesia?
Da un punto di vista tecnico quello di "connettere indissolubilmente" una struttura melodica a un tessuto linguistico e a un contesto visivo.
Da un punto di vista artistico quello di di-vertire nel senso etimologico cioè di svagare, ricreare piacere, distogliendo l'animo da cure e pensieri quotidiani o volgendolo ad altre cure e pensieri in grado di produrre, come direbbe Bonnefoy, "l'imprevedibile irruzione dell'assoluto nella sfera dei sensi".

A ben vedere questo è anche il compito della Traduzione.

L'abilità del traduttore consiste "solo" nell'imitare quello che un testo fa alla lingua madre del poeta e riprodurlo nella lingua della traduzione.
Questo perché se è vero che è la Poesia che fa il poeta, e altrettanto vero che è la poesia a fare il buon traduttore.
Tradurre suppone una pulsione comune che deve essere resa indifferentemente in "corpi" diversi tenendo conto delle proprietà musicali delle parole(nell'una e nell'altra lingua), delle proprietà visive delle stesse(per entrambe le lingue ancora) e del tessuto linguistico; e tutto questo deve essere fatto "eludendo la letteratura" cioè l'apparato culturale che ruota intorno alla parola, al suo suono (ritmo), al suo segno.
Questo passaggio è spiegato mirabilmente da Chiara De Luca, poetessa e traduttrice, nel suo saggio su Charles Hubert Sisson comparso nell'ultimo numero di Poesia (Anno XXVIII, Luglio/Agosto N.306, pgg.29-41):

"...Evitando la letteratura, Sisson vuole evitare tutto ciò che nella lingua letteraria ritiene inessenziale all'incarnarsi del reale in parola, tutto ciò che costituisce un impedimento al libero fluire del dettato poetico tra i solidi argini di una forma che cerca sempre di aderire al contenuto semplicemente accogliendolo, senza deformarlo per adattarlo ai propri confini..."

Chiara De Luca esemplifica questa lezione di Sisson nella sua opera di traduzione (amplissima e molto varia) e come una perfetta makar,un'antica bardo scozzese, "trasporta" perfettamente quello che i testi fanno alla loro lingua madre, nella nostra lingua, perché la grande Poesia -come la grande Traduzione- non è fatta di parole inglesi. Non è fatta di parole italiane.

Non e fatta di parole affatto ma di com-passione.

Ecco Charles H. Sisson

Dark wind,dark wind that makes the river black
-Two swans upon it are the serpent's eyes-
Wind through the meadows as you twist your heart.

Ed ecco Chiara De Luca

Vento scuro, vento scuro che annera la riva
-sopra, due cigni sono gli occhi del serpente-
vento solca i pascoli mentre ti torce il cuore.


E in quella riva che si annera tutta la Poesia, che non ha lingua, risplende.