giovedì 15 giugno 2017

Francesco Benozzo alla Biblioteca Ariostea

Tutti, a parole, possiamo scrivere una poesia. Letteralmente.
Ma pochi, pochissimi scrivono Poesia a parole, suoni, immagini, visioni e presagi, cioè componendo in modo certosino tutti questi elementi.
Perché la Poesia, nel suo più alto e sofisticato fiorire, è faccenda di voli e versi di uccelli, di fruscio di foglie e tamburi nei boschi sacri e ancora prima che i boschi diventassero sacri e gli uccelli alfabeti, la Poesia è stata faccenda di terremoti, glaciazioni, di ferite e guarigioni geologiche, di forestazioni e desertificazioni, di maree tempeste e quindi di naufragi e isole deserte. Questa poesia ha bisogno di ...passo e compasso di raggio e di circonferenza, del loro rapporto irrazionale per restituire il senso di una Vita unitaria; questa poesia ha bisogno di un centro da dove partire, di punti cardinali dove fare rotta per abilitare o riabilitare il mondo alla Vita.
È una Poesia, come è facile comprendere, che non riguarda le parole da infilare sulla pagina ma gli elementi primari dell’esistenza e dei nomi che diamo a ciò che, per questo stesso atto -quello di nominare- creiamo.

Come dice Chiara De Luca : << Ascoltare Francesco Benozzo eseguire Onirico geologico accompagnato dalla sua arpa è immaginare come è nata la poesia ancor prima che esistessero i poeti>>.
(http://edizionikolibris.net/index.php/2017/06/12/francesco-benozzo-alla-biblioteca-ariostea-di-ferrara/)

E da lettori, da ascoltatori, noi ci rendiamo conto di questo perché c’è una poesia che Si legge nel mondo in cui siamo e nel modo in cui ci trova (sia nel mezzo di un naufragio o al riparo delle nostre capanne) e una poesia che Ci chiama dalle origini e che ci trasforma: magari ci chiama con una sola parola ma, per ognuno di noi, la Poesia che chiama, ha parole che nominano e formule magiche che operano magie.

Gli enormi cetacei glaciali agonizzanti...
Gridano versi che all’aria non si sentono...
I loro profili si aprono alle costellazioni...
È l’Appennino a Smerillo, prima di Marzo

La parola che mi ha chiamato è stata Smerillo.

Nella Poesia che chiama siamo come in mezzo a 4 cantoni e di tanto in tanto possiamo occupare uno degli angoli, uno solo alla volta.
Ma è nello stare in mezzo che la poesia ci gioca e ci diverte perché diventa tutt’uno con il nostro giocare e con il nostro divertimento, dall’inizio alla fine del gioco.
I quattro cantoni, i nostri punti cardinali, in rigoroso ordine alfabetico sono:

Ascolto, Canto, Lettura e Scrittura.

Smerillo è il luogo dove Benozzo ha fatto il suo sogno geologico; lui stesso nelle note al poema scrive: << ...per comporlo ho trascorso giorni e notti abbarbicato alle pietraie dell’Appennino, sdraiato tra le felci, a contatto con pietre e rami. Si tratta di versi composti oralmente...>>.
E poco prima ci parla di questo Ascolto del paesaggio dove la parola poetica retrocede verso <<...una centralità perduta, disponendosi con docilità rispetto ad un asse governato da un ciclo di rinascita senza apparente morte.[...]...Il sogno appartiene a questa rinascita incessante e i suoi riti ne rinnovano l’arborescenza: esso è il nostro destino di orfani perenni, la nostra connessione con il passato pisciforme.>>

La Terra è il Mare degli uccelli, ma è anche il Cielo... dei pesci.

Lo smeriglio (così simile a Smerillo) è il nome di un pesce diffuso nei mari freddi e temperati fino alla profondità di 400 metri. Il canto geologico di Benozzo non può che farmi ricordare che queste dorsali montuose, i nostri Appennini, le nostre Dolomiti, altro non sono che le creste di fondali oceanici che esistevano sulla terra nelle epoche glaciali: la terra in quel tempo era il cielo dei pesci, le vette che i pesci scalavano.

Questa parola smeriglio-Smerillo mi ha chiamato e richiamato, riunito, per così dire, a tutto questo e quindi al tema che mi è caro: la persistenza di un origine, qualcosa cioè che si muta e trasmuta proprio per persistere e lo fa attraverso un canto (esecuzione vocale di una melodia o di un ritmo ) o attraverso i versi di animali che...versano il loro nome a una cima, a un passo, a un pianoro. La parola, prima ancora che a comunicare, serve a questo: nominare.

Chi può avere il potere di fare ciò? Dare un nome, battezzare?
Benozzo ce lo dice:

in questa conca sono oltre i grandi poeti
oltre le tecniche dei cantori dell’Eurasia
oltre il volo precluso degli sciamani...

in questa conca sospesa – fanghi pelagici
io sono l’uomo-dei-confini che muove l’argilla


E i confini qui non stanno ad indicare dei limiti geografici (finti) o storici (finti) ma confini veri quelli tra superfici di autentiche separazioni fisiche tra terra-mare-cielo ; fondali e creste; interno-esterno della conca; scavi e reperti; cose piccole e vicine con

cose grandi e lontane: tutte hanno un nome
ma il vero onore l’ho appreso senza parlare
prima di nominarle – voce e respiro –
nella nuda grammatica dell’albero
nella logica anarchica delle frane
nella sintassi dei frammenti d’orogenesi...
...
Era un sogno di felci – fratello poeta –
ad averci portato così in alto?

Sicuramente sì. E il sogno procede come una ripetizione di riti senza memoria, la rinascita incessante di miti e ritmi che ne rinnovano l’arborescenza originaria come accade in quell’antico rito che ogni anno si svolge nei boschi dell’Appennino Lucano (terra antica anch’essa) del matrimonio tra alberi e che la lettura di Benozzo ha risorto in me, riportandomi tra quei boschi in mezzo agli sciamani, ai grandi buoi sacri, ai canti del Maggio di Accettura.

Accettura è un piccolo paesino lucano situato a 770 m sul livello del mare. Il suo nome pare derivare dal latino acceptor-accipiter, sparviero o da acceptoia, località in cui si custodivano e si allevavano gli sparvieri. Secondo l’etimologia popolare, Accettura significherebbe Colei che accetta tutti; infatti, gli accetturesi sono molto ospitali.

Il paese è circondato da montagne e da fitte foreste. La boscosità del paesaggio e la frugalità in cui vive la popolazione sono lo sfondo naturale e umano della festa, in onore di San Giuliano, che si celebra a Pentecoste. Il Maggio è un fatto mitico, una festa della natura che ha una componente precristiana ed una cristiana che s’integrano; essa è fondata sull’antico culto degli alberi, molto vivo nell’età preistorica e medioevale.
Ancora oggi si celebra questo antichissimo rito nuziale propiziatorio.

Nel giorno dell’Ascensione, taglialegna e boscaioli esperti vanno alla ricerca dell’albero più alto e dritto nel bosco di Montepiano, l’albero del "maggio". Il giorno della Pentecoste, i giovani si recano in un bosco vicino al primo, alla ricerca della "cima", un agrifoglio spinoso e ramificato, che diventerà la sposa del "maggio".

Il maggio scelto (solitamente il cerro più imponente) viene ...spiaggiato nel bosco: la caduta di questo albero imponente ricorda il tuffo di un ...enorme cetaceo agonizzante.

Albero cosmico il cerro. Caro agli dei guerrieri, albero di primavera e quindi della vita.

La cima viene scelta nel bosco su una montagna prossima alla prima: qui gli agrifogli già conoscono il loro destino di essere, una volta cresciuti, cima per un maggio. Gli antichi erano felici quando vedevano spuntare le bacche rosse dell’agrifoglio: segno che il sole aveva appena invertito il suo cammino.

Leggere i segni e unire tutto: il sole alle bacche.

Nei giorni in cui si celebra la festa del Maggio, vengono intonati canti d’amore e di corteggiamento, per accompagnare l’incontro tra i due “sposi”. Il martedì successivo, il maggio viene trasportato da numerose coppie di grandi buoi bianchi, mentre la cima viene portata a spalla, preceduta da una lunga fila di costruzioni votive, le "cende". Dopo che la cima è innestata sul maggio, questo altissimo totem viene eretto nell’imponenza dei suoi 30-40 metri nel centro del paese e li resterà per un anno intero.

Su in alto nel cielo azzurro sopra le creste oceaniche delle dolomiti lucane, uno sparviero osserva lo strano movimento nella piazza del paese nel quale ha versato il suo nome e partecipa con grida acute alla festa.

Il grido di un uccello solitario
affila il cuore a spazi di mare aperto
l’isola è cima, il fondale è versante
la spiaggia orizzontale si è inarcata.

E qui tiriamo la volata al nostro traguardo , al gran premio della... montagna scoprendo che su a Smerillo, dove l’Onirico geologico si è... composto, anche lassù osano...le aquile.
Già perché smeriglio è anche il nome di un piccolo rapace!
Questa è la potenza della Poesia, questa è la potenza di Benozzo: la parola che chiama perché è stata ascoltata e quindi versata nel canto, la parola che legge il ruotare degli astri, i profili di creste e di valli è una parola che non si scrive ma si riempie è, cioè qualcosa di denso come solo un nome pienamente pronunciato può esserlo. Smerillo:

non cerco nulla dietro i fenomeni del mondo
camminando i paesaggi percorrono teorie

mi siedo e guardo il borgo – forre di tetti –
io, qui, non sto parlando di Smerillo
io ne celebro al buio la densità.


-Semplici coincidenze - direte voi: smeriglio-Smerillo/accipiter-Accettura.

Sarà così ma...
...resti di una specie fossile di falco risalente al Blancano inferiore (4,3–4,8 milioni di anni fa), un onirico geologico nel vero senso della parola, sono stati rinvenuti nella Formazione Rexroad del Kansas. Questo falco preistorico era leggermente più piccolo di uno smeriglio ed aveva zampe più robuste, ma per il resto era molto simile ad esso. Faceva parte della fauna locale del Fox Canyon e di Rexroad e potrebbe essere stato l'antenato del moderno smeriglio o un suo parente stretto. La sua età che fa retrodatare di molto la separazione tra smerigli eurasiatici e nordamericani concorda con l'ipotesi che lo smeriglio abbia avuto origine nel Nordamerica. Dopo essersi adattati alla loro nicchia ecologica, gli antichi smerigli si sarebbero diffusi in Eurasia prima che le calotte glaciali ricoprissero la Beringia e la Groenlandia durante le glaciazioni del Quaternario.

Tra le pietraie dell’Appennino piceno sono sicuro che Benozzo abbia ascoltato questo: il verso distinto e acuto di Quello smeriglio del Quaternario quasi in un sogno di rinascita incessante, di persistenza di un origine remota così come è facile per me ascoltare ancora oggi sulle dolomiti lucane i canti di sparvieri e le voci di alberi che si amano.

Già ma perchè Benozzo canta?

(http://edizionikolibris.net/index.php/2017/06/13/francesco-benozzo-alla-biblioteca-ariostea-video/)

Credeteci: per lo stesso motivo per cui gli uccelli cantano.
Ma questo è tutto un altro...Post.

domenica 30 aprile 2017

Alla Ricerca dell'Identità perduta

Di padre in padre, questo è il titolo dell’ultima raccolta di Laura Maria Gabrielleschi (La Vita Felice Edizioni, Milano) con la prefazione di Roberto Pazzi.
Il titolo stesso fa capire che la raccolta si pone come controcanto all’accomodante continuità della specie e in particolare di una specie che nel tempo ha quasi sempre -miseramente- escluso dall’ evoluzione ( per lo meno da quella culturale non potendo fare lo stesso, almeno fino ad oggi, con quella biologica e fisiologica) la femmina della specie: la figlia dunque la madre.
Ancora oggi, a dispetto di tutte le evidenze, si continua a dire: "di padre in figlio" o "le colpe dei padri ricadranno sui figli" , maschi: statene sicuri.

Ma in questa raccolta non si parla di colpe e, sottraendomi dal canto ammaliatore della bella prefazione di Pazzi, non si parla nemmeno di Tempo, non di quello perduto e nemmeno di quello ritrovato. Meno che meno della sua Ricerca.

Qui la Poeta parla di Identità.

Poi ti cerco nel come e nel dove
voglio un nome
per l’anima mia

(pg.13)

La poeta, soprattutto quando è una grande poeta come la Gabrielleschi, sempre si pone sulla superficie tra due stati e da lì osserva e scrive: da questo suo particolare orizzonte degli eventi, spostarsi lievemente da un lato o dall’altro significa soccombere o vivere.
In questo caso ci pare di poter dire che la superficie sulla quale la Gabrielleschi soccombe/vive è quella che separa il dolore della perdita dalla perdita di questo dolore:

questo essere vivi a metà
questo partire e tornare
e dire cose che non potrò dire
questa altalena di dolore
questo non capire
se dalla morte
un giorno si rinasce, davvero
senza paura.
(pg.17)

E’ chiaro: il dolore della perdita fa soffrire ma ancor di più fa soffrire la perdita di questo dolore perché significherebbe abbandonare la ricerca, rassegnarsi a soccombere una volta per tutte e a vivere:

Ore e mesi e anni
occhi che cercano occhi
battiti costruiti a forza.
A stringere il nulla

(pg.18)

E’ il bambino, il figlio, il maschio secondo la (contestata) teoria freudiana ad acquisire la sua identità attraverso il processo di identificazione con il padre, ma per la bambina, per la figlia per la femmina della specie homo, lo stesso Freud confessa che le “cognizioni acquisite sono (in questo caso) insoddisfacenti, lacunose e incerte”,

tanto che la Gabrielleschi registra questo fatto universale in questa terzina densa di senso, emozione e sentimento:

Ma resta l’attimo preciso
in cui il sangue si fa acqua
e la fiamma non arde più.

(pg.23)

Ecco dove la poesia si fa alta: precisamente quando il particolare dolore del Poeta diventa il nostro dolore e quando le domande del Poeta diventano le nostre domande.

Questa è la vera Poesia, quella che mescola le parole al mondo.

Siamo dunque destinati ad essere solo delle cellule vaganti? Faticare ad essere volti di anno in anno, di padre in padre? O come chiede a se stessa la Gabrielleschi :sarò piccola per sempre?

"Il lettore che abbia un briciolo di sentimento fantastico o poetico intuirà immediatamente che …" la Gabrielleschi non si riferisce solo al padre che “cantava nel suo giardino”, ma alla specie dei padri, perché il vero soggetto della nostra esistenza è la specie ( Abramo,…Giuseppe,…) che ci prevede suoi facenti funzione e ci fornisce pertanto di una parola breve

…che fa cantare il gallo al mattino
maturare l’uva nelle vigne
è una parola breve
che toglie il respiro
imbianca i capelli
e riscalda la mia bocca.

L’amore è la parola magica
che apre le porte
e spezza il pane
è la parola che alza l’orizzonte

e ci prepara all’ultima morte.

(pg.67)

Ecco perché Freud per illustrare come si acquisisce identità e relazione usa la metafora sessuale.
Ed ecco perché la Gabrielleschi usa la “tigre assenza” del padre.

Per soccorrere l’autrice nella sua Ricerca dell’Identità perduta vogliamo qui ricordare quello che Calvino scrisse a proposito della Identità:

“La nostra individualità è attraversata da una continuità genetica che si frantuma e miscela incessantemente secondo stratificazioni geologiche che hanno radici sia nella casalinga nascita di un nuovo individuo che nel profondo big-bang spazio temporale. L’Età della Tecnica è congenita.
E allora per non scoraggiarci nella vana ricerca di un nuovo IO non possiamo che fare questo passaggio a un neo-primitivismo post-tecnologico : nella Età della Tecnologia dove qualunque ritmo è minacciato dalla presenza dell’istante l’unica sponda raggiungibile è la Natura, vale a dire recuperare il sentire di una popolazione dell’Alto Volta che nella identità umana distingue nove componenti:

1) il corpo che si riceve dalla madre, 2) il sangue che si riceve dal padre, 3) l’ombra che il corpo proietta, 4) calore e sudore, 5) il respiro, 6) la vita, o meglio una particela della vita, che è un’entità in cui tutti gli esseri viventi sono immersi, 7) il pensiero, suddiviso in intendimento e coscienza, 8) il doppio, che è la parte immortale , che può compiere e subire le stregonerie ( si stacca dal corpo ogni notte per vagare nei sogni, e poi definitivamente qualche anno prima della morte per andare nel villaggio dei morti dove avrà altre due vite e altre due morti da morto e finalmente si incarnerà in un albero), 9) il destino individuale...”

Se Tutto si tiene è perché i poeti, come i ponti, tengono le sponde della specie e perché la donna , la femmina della specie è come

La signora in tailleur bleu
seduta gambe accavallate
al gran caffè di Simo
(gran caffè gran caffè)
e aspetta. Aspetta
aspetta.


Sì, da sempre aspetta...

martedì 4 aprile 2017

L'Esperienza Poetica

Come è facile verificare, esistono tantissimi libri di poesia e quindi, evidentemente, sono esistiti, esistono e, sicuramente, continueranno ad esistere, tanti, tantissimi poeti. Tutti quanti, anche se in grado differente, in natura hanno fatto, fanno e faranno la stessa cosa: poesia.

Ma è proprio per questa sua intrinseca gradualità che, sotto il nome di poesia, si nasconde qualcosa di cui è difficile riconoscerne la vera natura. C’è chi parla di “emozione” chi di “sentimento”, chi di “visione”; c’è chi, tra illustri intellettuali e poeti stessi come B. Croce, E. Pound, T.S. Eliot, pensa di cogliere e di poter raccogliere in poche righe la natura essenziale della poesia.

Pochi comunque sono i libri che parlano di Esperienza Poetica coinvolgendo, in questo ossimoro esemplare[1], il Grande Gomitolo della poesia, con tutti i suoi intrecci, le diverse intersezioni del suo filare e sfilare e con gli immancabili bandoli della matassa. Già, da dove cominciare? Da quale delle due estremità della "esperienza poetica": la scrittura o la lettura?
Nè dall’una , né dall’altra. Cominciamo invece da qui: dall’allevamento, dall’agricoltura e dalla metallurgia. Perché prima di tutto abbiamo bisogno di contadini... gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento.[2]

Una delle certezze indiscutibili acquisita dalla specie umana nell’arco della sua evoluzione è che non sia possibile superare in ingegno coloro che in un’epoca preistorica hanno scoperto ( o inventato) come addomesticare gli animali, selezionare le graminacee e fondere i metalli in leghe.[3]

Allevamento, agricoltura e metallurgia rappresentano quindi le tre attività umane nelle quali è già presente tutto il repertorio dell’ homo sapiens di oggi.
Nella sua voglia innata di prendere coscienza di sé, l’animale-uomo per sfamarsi, difendersi e riprodursi, per rispondere, cioè, a degli istinti primari, non poteva che ricorrere a queste tre sole ed esclusive attività quali mezzi, perfezionabili di volta in volta, in grado di cosentirgli un fine non ambiguo: quello di sopravvivere a se stesso.

Rinunciare ad una sola di queste attività voleva dire rinunciare a prendere coscienza di sé e questa omissione poteva significare solo due cose: 1) la convinzione che tutto funzionasse bene e che quindi non fosse necessario porsi alcun problema oppure 2) la rimozione della consapevolezza di qualunque disfunzione.

Per essere più chiari: se procurarsi cibo, difendersi dai predatori, accoppiarsi sono o diventano problemi, allora per risolverli bisogna mettere in campo una serie di strategie (allevare, coltivare, difendersi); se, viceversa, queste cose non sono o non vengono percepite come problemi, si muore e ci si estingue, punto.

La poesia è un’attività eminentemente analogica e nasce dallo stretto intreccio, dal gomitolo appunto, che si crea tra la presa di coscienza di sé e le tre attività umane ricordate sopra.

L’esperienza è poetica per questo motivo e la poesia è esperienza per lo stesso motivo: addomesticare gli animali e allevarli; arare campi e selezionare semi per migliorare quantità e qualità dei raccolti; cuocere nel fuoco la materia per fare il pane o nuove leghe metalliche sono cose analoghe alla poesia pur non essendo la stessa cosa.

Il che è come dire che l’emozione è analoga al sentimento pur non essendo la stessa cosa. E oggi sappiamo perché e in che misura non lo sono.

In uno dei tanti libri che parla di poesia e poeti si fa riferimento spesso-troppo spesso- alla emozione, a volte confondendola con la percezione, l’ istinto, il sentimento con quanto, cioè, risulti vago e misterioso: tutto questo, in qualche misura, sembra di diritto appartenere al mondo della poesia.
Eppure non vi è nulla di più concreto e materiale della poesia ( proprio perché è l’analogo di attività produttive e pesanti come quelle descritte). Lo stesso Manacorda nel suo ultimo bellissimo libro [4] ce lo ricorda: ...Come una scultura, la poesia è un oggetto e, inoltre, la poesia è una produzione del nostro corpo, se volete una sublime deiezione. Anche la poesia è materia e, se tale è, non può non avere a che fare con la scienza...

La definizione di sentimento fornita dal neurobiologo portoghese Antonio Damasio è:immagine mentale consapevole, riferita al sé, delle modificazioni indotte nel corpo da uno stato emozionale.[5]

In altri termini, proviamo sentimenti (i famosi sommovimenti del pensiero di proustiana memoria [6]) quando le mappe neurali corporee, da inconsce che erano, vengono...sapute, percepite e riferite al sé divenendo immagini mentali. E queste mappe neurali corporee prendono forma e “si sanno” attraverso le tre suddette attività, quando cioè la pratica si intreccia alla creatività: arando un campo si acquisisce un ritmo; controllando i capi di bestiame si perviene a un numero; cuocendo e forgiando nel fuoco si trasforma la materia e noi stessi.

Quando si arriva di fronte al sito del paleolitico di Papasidero (la Grotta del Romito) e si poggia lo sguardo sul graffito raffigurante due bovidi risalenti a 10500 anni fa, si capisce cosa si voglia intendere: un ominide, dedito ad inseguire quel bovide per procacciarsi del cibo, improvvisamente, oltre a vederlo, lo guarda mosso da qualcosa di diverso dalla fame e lo assimila mentalmente tanto da poterlo riprodurre con mano ferma, e in ogni minimo particolare, su una pietra posta all’ingresso di una caverna usata per le sepolture lontano dal luogo di caccia.

Qui in pratica è racchiusa e quindi anticipata la seguente conclusione: la poesia è, sì, un’ emozione ( come chiamare altrimenti ciò che muove il nostro parente del paleolitico) ma cristallizzata nel modo opportuno, raggomitolata cioè in qualcosa di molto pratico: un sentimento.

In tutte queste attività umane, antesignane di quelle che l’uomo ha continuato a scoprire/inventare negli anni della sua evoluzione da ominide a homo sapiens, si ravvisano le operazioni umane che l’archeologia, l’antropologia, l’agronomia, la neurobiologia, la chimica , la fisica....insomma tutte le scienze hanno confermato, e che sono in grado di ex-movere l’uomo allo (dallo) stimolo di raggomitolare quello che vede-muove-avverte-sente-crea con gli immancabili bandoli (sempre difficili da individuare) tra interno ed esterno, mente e corpo, coscienza e cervello. Soggettività e Oggettività.

In queste operazioni biologiche, soltanto il livello del mentale, quale è appunto un sentimento, consente l’integrazione di grandi quantità di informazioni e, soprattutto, di afferrare il filo temporale del gomitolo: presente, passato e futuro.

Andare a caccia per procurarsi del cibo. Portare i capi di bestiame sui pascoli alti. Cuocere il pane o i mattoni, fondere metalli per creare nuovi materiali: “sono” queste le immagine mentali consapevoli, riferite al sé, sono queste le modificazioni indotte nel corpo da stati emozionali che hanno consentito, consentono e consentiranno la poesia.

Questa è l’Esperienza Poetica.

Se “andando a caccia” ci è capitato di osservare più a lungo una preda per mutarla in un animale, o abbiamo ceduto la strada agli alberi [2], una casa ad un paesaggio, stiamo già disegnando.

Se di notte ci siamo fermati al bivacco in un pascolo di montagna e prima di chiudere gli occhi abbiamo dato uno sguardo al cielo stellato, stiamo già scrivendo.

Se con l’aratro tirato da buoi abbiamo percorso avanti e indietro un campo, stiamo già cantando.

Se intorno al fuoco ci è capitato di vedere sciogliersi la pietra o le nostre membra nelle ombre sulle pareti della caverna, stiamo già facendo, poesia.

Riferimenti

[1] - esperienza da ex-perior= esperire, sperimentare; attività posta in essere per acquisire una conoscenza pratica e poetica da poieo= fare creare; attività intesa a produrre componimenti in versi o in generale oggetti d’arte in grado di ex-movere, cum-movere, re-movere, ...

[2] – F. Arminio, Cedi la strada agli alberi, Chiarelettere (2017)

[3] - E. Melandri, La linea e il circolo, Quodlibet (2004)

[4] - G. Manacorda, La poesia, Castelvecchi (2016)

[5] - A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza: emozioni, sentimenti e cervello, Adelphi (2003)

[6] – M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Sodoma e Gomorra : “L’amore provoca così nel pensiero dei veri e propri sommovimenti geologici. In quello del signor Charlus, che – qualche giorno prima – somigliava a una pianura così uniforme che fino ai limiti estremi egli non avrebbe potuto scorgere un’idea sola levarsi dal suolo, erano sorte d’improvviso, dure come la pietra, catene di montagne […] dove si torcevano in gruppi giganteschi e titanici il Furore, la Gelosia, la Curiosità, l’Invidia, l’Odio, la Sofferenza, l’Orgoglio, lo Spavento e l’Amore.

lunedì 20 marzo 2017

La rotta di Shabine

Ho cominciato la poesia dopo aver letto Mappa del Nuovo Mondo di Derek Walcott. Appuntai delle parole su quel libro, e le ho rilette oggi, alla morte del mio Omero avvenuta qualche giorno fa: pochi sono quelli a godere della fortuna di essere contemporanei a Omero, ancora di meno quelli che lo riconoscono. Omero non si stanca mai di cantare sempre la stessa musica con le stesse parole : << Sono nessuno o sono una nazione!>>.

Ecco cosa avevo scritto all’inizio del libro dopo averlo letto la prima volta: “Non so nuotare se non tra queste parole. Qui non affogo e qui sempre approdo. Itaca è la mia casa. Casa l’Universo.”

Oggi che leggo i coccodrilli e gli articoli scritti in memoria di Walcott posso dire che quel mio semplice appunto conteneva un mondo poetico che è più di un mondo: la sua mappa.

Derek Walcott è uno di quei grandi poeti, che si sono reincarnati sulla terra, per scrivere una poesia universale, l’unica poesia che i grandi poeti, dai tempi di Omero, conoscono.
Walcott sapeva benissimo, e lo aveva ricordato nella sua Nobel Lecture del 1992, che ogni vero poeta è necessariamente un poeta provinciale e che quindi il verbo si fa veramente carne, propriamente lingua ; quella che, ad esempio, si parla e si ascolta a Santa Lucia, l’ isola, ex colonia britannica, dove Walcott è nato nel gennaio del 1930.

Come ci ricorda I. Brodskij, “contrariamente a quanto si crede di solito, la periferia non è il luogo in cui finisce il mondo”, tutt'altro: è proprio il luogo in cui il mondo si decanta e per farlo usa la lingua.
La provincia da cui proviene Walcott è una vera e propria babele genetica e linguistica (che poi è la stessa cosa) e poiché le vere biografie dei poeti sono come quelle degli uccelli, cioè identiche, le cose veramente importanti che li riguardano sono i suoni che emettono: e Walcott emette suoni patois, creoli, inglesi.

Ed è in questo cinguettio (e in nessun altro....tweet) che è possibile riconoscere uno degli atti più importanti della Poesia, quello di conferire ad un luogo, anche una piccola isola come Itaca o come Santa Lucia, lo status di realtà lirica. La provincia si fa centro dell’impero.

Il mare color del vino che circonda Itaca e , a maggior ragione, Santa Lucia dove “il sole stanco dell’impero tramonta”, è un atto di invenzione miracoloso più importante e generoso di quello della scoperta di ciò che già esiste.

Questo atto infatti implica un atteggiamento di devozione e fede verso qualcosa che appare esistere miracolosamente e verso quello che grazie a quanto esiste, d’improvviso appare in un modo altrettanto miracoloso.

E quale è dunque l’unico vero ed ineludibile DOVERE del poeta? Quello di ringraziare CIO’ e CHI esiste: il luogo natale, i genitori e gli amici, la propria terra, il mare che ci ospita ed i suoi abissi.

Il mio primo amico fu il mare. Ora è il mio ultimo.
Smetto di parlare, adesso. Lavoro, e poi leggo,
nella cuccetta, sotto una lanterna appesa all’albero.
Cerco di dimenticare che cos’era la gioia,
e quando non mi riesce studio le stelle.
A volte sono io soltanto, e la schiuma recisa dolcemente
mentre il ponte diviene bianco e la luna apre
una nuvola come una porta, e la luce su di me
è una strada, in una bianca luce lunare, che mi conduce a casa.
Shabine ha cantato per te dagli abissi del mare.


Nella giornata mondiale della Poesia, è quindi doveroso ricordare e ringraziare Derek Walcott ed io, da questo Post, che è delle Fragole anche e grazie a Walcott, voglio farlo con un verso che lui dedicò ad un suo caro amico scomparso:

la tua morte è come la nostra amicizia che ricomincia...

giovedì 15 dicembre 2016

Il Poeta come l’Angelo Nuovo nella tempesta

Gregory Corso parlando degli anni di carcere , scrisse [1]: “A volte l’inferno è un buon posto – se serve a dimostrare che esistendo quello, deve esistere anche il suo contrario, il paradiso. E cos’era questo paradiso? La Poesia.”
Il Paradiso. La Poesia.

Un poeta come Gregory corso sapeva bene che nessuno può dire propriamente il proprio pensiero e questa è, in generale, la ragione per cui ciascun poeta dà molto spazio all’immaginazione in modo che chi legge possa partecipare alla poiein (al fare, al creare) e quindi lasciarsi travolgere nella spirale della Poesia.

La Poesia infatti non emerge dai dati di fatto, dall’inchiostro usato per scrivere, dalle parole così ben allineate e scandite nel loro ritmo, dal fruscio del libro e dallo scorrere degli occhi sulla pagina. La Poesia è l’unica cosa che non può emergere perché non ha nulla in comune con la genesi ma sta nel fiume del divenire come un vortice e trascina nel ritmo suo proprio il materiale genetico della nascita.

Se infatti supponiamo che qualcosa cominci assolutamente ad esistere, dobbiamo stabilire un istante in cui “prima” non esisteva e questo istante può essere riferito solo a ciò che esiste già, cioè a qualcosa che è già “dopo” quel prima. Detto in altri termini l’inizio di qualunque cosa nel nostro mondo non può stare in absolutus cioè sciolto da ogni altra cosa: per potersi porre come inizio, esso esige una condizione. Quello che la scienza (e lo scienziato) fa è solo far coincidere l’inizio con la condizione: tempo e velocità iniziali, temperatura e pressione, una distribuzione di probabilità. La Poesia (e quindi il poeta) questo no lo fa, non prende cioè a testimonianza della sua verità il mondo stesso e i suoi fatti ma, per così dire, si adegua ad essi come farebbe l’Angelus Novus di Walter Benjamin [2],

“...quell’angelo che sembra in procinto di staccarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo...”. Ha la bocca aperta: canta dunque. Ha gli occhi spalancati: vede quindi. “...Le sue ali possono distendersi per volare in alto. Ha il viso rivolto al passato...”, a qualunque passato, quello dell’ universo, del cielo, della terra, dell’uomo. Della parola e anche al “prima” di tutto questo. “...Dove noi vediamo una catena di eventi”, lui vede una sola apocalisse che accumula frammenti su frammenti come ci dice bene Zbiniegw Herbert [3]:

Breviario

Signore,
Ti rendo grazie per tutta questa cianfrusaglia del-
la vita, in cui annego senza scampo dai tempi im-
memorabili, mortalmente assorto nella continua
ricerca di minuzie.

Sii lodato per avermi dato bottoni discreti, spilli,
bretelle, occhiali, rivoli di inchiostro,fogli di carta
sempre pronti, custodie trasparenti, cartelle pa-
zienti in attesa.

Signore, Ti rendo grazie per le siringhe con l’ago
spesso o fine come un capello, per le bende, per
ogni tipo di cerotto, per l’umile impacco, grazie
per la flebo, i sali minerali, le cannule, e soprattut-
to per le pasticche di sonnifero dai melodiosi no-
mi di ninfe romane,

che sono buone perché chiamano, ricordano, sos-
tituiscono la morte.


Il poeta-angelo “...si affretta allora a chiudere le ali per non essere soffiato via dalla tempesta che spira dal Paradiso per ricomporre l’infranto e arrivare salvo nel futuro a cui lui volta le spalle.”
E nel futuro, inutile dirlo, c’è quella cosa lì. La morte ma anche il Paradiso.

Mi permetto un'autocitazione[4] (è la prima volta che lo faccio su questo blog):



Il poeta

le lenzuola sono
volate via
oltre il filo che
le reggeva
nel blu turchese
all’arcobaleno
appese

non è mai veramente
quieta
la quiete dopo
la tempesta
l’aria è ancora
carica
e la corrente
veloce scorre
dai rami
elettrica
ai fili d’erba

fuori c’è chi corre
ad afferrare
ciò che resta
bianco
prima che tocchi
terra


Ma cosa è veramente questo vento se non lo sregolamento di tutti i sensi di cui parla Rimbaud nella sua lettera del veggente?[5]

E non è forse questo lo stesso vento che spira e s’impiglia tra le ali dell’Angelo di Benjamin?[2]

“...Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui nel cielo. Ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta.”

Sì, forse questa tempesta che spira dal paradiso è la stessa tempesta che sconvolge l’Angelo di Benjamin e quindi, chiedendo scusa per l’eresìa, il Progresso non può che essere Poesia.

Riferimenti

[1] – Dalla Introduzione di G. Menarini su Gregory Corso-Poesie, Bompiani (1978)
[2] – W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi (1995)
[3] – Z. Herbert, L’epilogo della tempesta, Adelphi (2016)
[4] – G. Ferrara, inedito
[5] – A. Rimbaud, La Lettera del Veggente a Paul Demeny a Douai (Charleville, 15 maggio 1871)

venerdì 28 ottobre 2016

La Casa sull'Albero

C’è una poesia di Kathleen Jamie che mi fa sentire a casa, una casa grande e accogliente molto più grande di quanto si possa immaginare. Una casa che confina a sud con la Lucania e a Nord con la Scozia. Non è propriamente La casa sull’albero ( questo è il titolo della raccolta di poesie scelte curata da Giorgia Sensi) [1] che desideravamo avere da bambini, ma provoca le stesse sensazioni di allora e ne riproduce lo stesso senso di conforto e protezione.

Questa poesia della poetessa scozzese, nella ri-creazione -così come dovrebbe intendersi la traduzione-di Giorgia Sensi è Glaciale (pg.151)

Una scarpinata di trecento metri, poi un cumulo di vecchie pietre-/un lavoro manuale,/e sempre lo stesso fiume, che scintillava/laggiù/quando i Romani vennero, videro,/e ben presto ci ripensarono.//Troppe montagne, troppe/tribù minacciose/le cui abitudini non ci garberebbero granché/(ma che forse riusciremmo a uguagliare)/troppo grigiore nordico, troppa neve in lontananza.//Su, facciamo una sosta qui, riprendiamo fiato/e inaliamo quel dolce profumo di ginestra/che è in fiore oggi//guardiamo laggiù in fondo per miglia, da ora/e fino a che non ritornerà la lince, e il lupo.

Perché mi fa sentire a casa (e, credo, che riesca a far sentire a casa tutti noi europei)? Prima di tutto perché attinge ad una nostra storia comune risalente, è vero, ai tempi dei Romani ma, che lo si voglia o meno, una Nostra Comune Storia. In secondo luogo ci fa sentire a casa perché mostra paesaggi e territori familiari e riconoscibili da tutti. Ci mostra cioè “casa nostra”.

I Romani sono arrivati fino qui in Scozia, fino qui in Lucania. Hanno costruito strade per raggiungere questi luoghi, strade che ancora oggi percorriamo e che portano nomi familiari per tutti gli europei (via Claudia, Via Augusta,via Appia, via Devana e il Vallo di Adriano).
Su queste strade hanno marciato i soldati di Cesare. È d’obbligo a questo punto ricordare [2] il verso di quindici sillabe che i latini usavano per i canti militari, a margine della loro scansione con le brevi e le lunghe. Nel passaggio dal latino al francese e alle altre lingue latine è successo che quelle 15 sillabe si sono ridotte a 14, a 12 e poi a undici. Cioè l’alessandrino francese e i versi che ne derivano, fino all’endecasillabo, non fanno che ripetere il rumore dei passi delle legioni romane.

E forse questa è un’altra e più calzante ragione, radicata nel ritmo della storia, per la quale questa poesia mi fa sentire a casa : A thousand-foot slog, then a cairn of old stones-

Ma tutta la poesia con quelle immagini vivide del cumulo di vecchie pietre, le troppe montagne, le tribù minacciose, la troppa neve là in lontananza, il profumo di ginestra e, per finire il lupo, mi suggerisce un luogo d’origine riconoscibilissimo : "Ma qui- mi sono detto-si parla della mia terra, della Lucania!". Sono quindi salito su questa casa sull’albero, mi sono accomodato e le sorprese non sono finite.

Kathleen Jamie non parla solo al nostro passato, alla nostra storia e alla nostra geografia ma anche alla nostra scienza e al nostro futuro: quando le parole nel mondo e, viceversa, il mondo nelle parole risuonano così tanto, ciò che in realtà vibra è la Poesia:

...Certo, fu avventato, un loch così grande, la marea,/ma siamo vivi – e abbiamo perfino fatto figli/con donne e uomini non ancora incontrati/quella notte che uscimmo, e reclamammo come nostri/il cielo e l’acqua salmastra, i colli feriti/che i mirtilli tempestavano di nero,/le nostre cavigliere luccicanti nell’acqua bassa/mentre issavamo i remi e saltavamo giù,/per tirare la barca in secco sulla spiaggia del cottage. [da Attraversando il loch (pg.33)]

Questa è una poesia sulla paura...nucleare e su quello che l’Uomo sta facendo al Grande Loch che è la Terra (dallo spazio gli Oceani non sembrano forse grandi loch e giganteschi firth gli estuari?).

Nella frase poetica della poetessa scozzese, perfettamente riprodotta nella sua ri-creazione italiana, le sfere di risonanza si armonizzano per addizione, amplificando il campo di suggestioni come accade per esempio in Spirea a pg.67 preceduta da questo esergo: Secondo la tradizione certe poete gaeliche/venivano sepolte a faccia in giù.

Così la seppellirono, e si volsero verso casa,/un salmo uggioso/li avvolgeva come nebbia,//non sapevano che il liquido/che gocciolava dalle sue labbra/si sarebbe fatto strada là sotto,...

E nel verso un salmo uggioso li avvolgeva come nebbia, si capisce che non sempre le parole sono vive mentre la saliva e i semi impigliati nei capelli della strega-poetessa continuano, nel silenzio tombale, a vivere e a produrre ancora vita e altre parole.

Queste stesse sfere di risonanza possono anche annullarsi per lasciare un residuo di senso più preciso: per esempio nella Le lune di Galileo (pg.133) i satelliti di Giove ruotano intorno al pianeta come i figli della poetessa girano intorno alla mamma ma nessun strumento sarà in grado di rassicurare tanto gli uni che gli altri. Qualunque balletto sia esso di perline, di timidi giovani talenti, delle lunicelle di Galileo, seguirà il proprio inalterabile passaggio sulla scena.

Spesso queste due forme di armonizzazione sono simultanee: è quello che i logici chiamano il gioco di estensione e comprensione e che il Poeta, specialmente quando è un grande Poeta, gioca spontaneamente come un bambino che sale sulla casa costruita sull’albero e da lì domina l’Universo.

...-ma bacche rosse//di biancospino si tendevano verso di me,/e tra le fogli cadute/sbocciavano fiorellini bianchi/tardivi. Cercai//di chiamarti, o credo/di averlo fatto, ma il tuo nome/mi si appassì sulla lingua,/...
Potreiscomparire per una vita,/forse sette anni!-/e una joie de vivre così repentina/che quando un fosso mi si spalancò//davanti all’improvviso/lo saltai, leggera come una ragazzina-/sì, lo saltai di netto,/senza neppure pensarci su.
[da Incantesimo (pg.141)]

Qui evidentemente si allude ad un’esperienza privilegiata tra l’uomo e il mondo di cui la poetessa si fa carico, istintivamente, di ravvivare: la relazione che consente di sentire prossimi e connessi elementi che la nostra quotidianità porta ad isolare e ad analizzare separatamente; la relazione che permette di superare gli ostacoli- saltare un fosso che si spalanca davanti all’improvviso- senza neppure pensarci su.

In questa poesia la Jamie riconosce e rispetta le forme primitive, meglio sarebbe dire primordiali, quelle forme cioè anteriori all’egemonia razionale, al pensiero analitico e salvate da questo strapotere per preservare integra una cosmovisione magica (lo stupore) e lasciare che le cose si manifestino senza interferenza da parte del poeta che ne sente l’ardore e se ne lascia impregnare: questi sono i princìpi estetici della tradizione poetica che discende per così dire dall’incanto magico e quindi dal potere della parola. Dal potere della Natura.

È noto che quando un bardo voleva punire un re per non aver rispettato i patti - per esempio non compensando a dovere i suoi servigi - poteva ricorrere ad un terribile rito incantatorio: dopo aver digiunato sulla terra del re, accompagnato da altri sei bardi, al sorgere del sole si sistemava insieme agli altri sotto un biancospino con un suo ramoscello e una pietra da fionda tra le mani. Insieme i 7 bardi intonavano un incantesimo sulla spina e sulla pietra. Se erano in torto la collina li inghiottiva. Ma se il loro potere magico era più forte, la terra ingoiava il re, la regina, i loro figli e i cavalli, i cani da caccia, le armi e le vesti. [3]

Se tutti noi oggi, dopo aver letto la sua Poesia, non concedessimo il giusto tributo a Kathleen Jamie, comportandoci da insolventi o indifferenti alla sua opera, potremmo rischiare di precipitare dalla casa sull’albero e sprofondare nel baratro che si aprirebbe inevitabile sotto i nostri piedi al canto di un incantesimo della makar [4] scozzese.

Prima del vento (pg.77)

Dovessi capitare su quel colle
dove crescono le ciliege selvatiche
sarà meglio sia presto, o verranno
ad attaccar briga gli uccelli dagli occhi gialli,

rivendicando i frutti per se.
Selvatiche significa noccioli a malapena
rivestiti di polpa, ma è buffo
detto da me. Una bocca

contiene una ciliegia, una ciliegia
un nocciolo, un nocciolo
il ramo in fiore
che devo trovare prima che il vento

sparpagli ogni traccia di fioritura,
e venga il frutto, e gli uccelli dagli occhi gialli.


[1] – K. Jamie, La casa sull’albero a cura di G. Sensi, Giuliano Landolfi Editore (2016)
[2] – R. Daumal, Poesia nera e poesia bianca, Castelvecchi (2014)
[3] – J. Brosse, Storie e leggende degli alberi, Edizione Studio tesi (1989)
[4] - Termine che indica poeti o bardi che spesso lavoravano alla corte dei re scozzesi.

lunedì 24 ottobre 2016

La Poesia ai tempi di Twitter

Nel romanzo di G. G. Marquez, L’amore ai tempi del colera, il protagonista ASPETTA per mezzo secolo l'unica donna che ha amato. Florentino è un impiegato telegrafista, un uomo malinconico e tranquillo appassionato di Poesia. È innamorato di Fermina, ma il padre di lei non approva l’unione e predispone il matrimonio della giovane con il ricco medico della città.
Il matrimonio di Fermina, nato senza amore, diventerà con il tempo e le avversità un rapporto solido e felice.
Florentino si butterà a capofitto nel lavoro per poter essere degno dell’amore di Fermina e inizierà una brillante carriera all’interno dell’azienda dello zio, la Compagnia Fluviale dei Caraibi.
Nonostante la folla di amanti che accumulerà negli anni, Florentino si sentirà legato solo a Fermina. E aspetterà decenni per vedere realizzato il suo amore: alla morte del medico, Florentino dichiarerà ancora una volta il suo amore a Fermina e lei, dopo tanti anni di indifferenza, accetterà le sue attenzioni.
Insieme faranno un viaggio in uno dei battelli della Compagnia Fluviale e, per la prima volta dopo 50 anni d’amore, faranno l’amore.

Poiché ho sempre creduto che la Poesia sia una incontro che viene fatto a tempo e luogo debito , ho sempre ravvisato, da lettore di questo romanzo, un significato riposto diverso da quello letterale: a Florentino ho voluto associare la figura del Poeta, a Fermina quella della Poesia e al ricco medico quella del mondo caotico che li circonda.
Ora immaginare che il Poeta ASPETTI per tanto tempo l’unica donna che ha amato, la Poesia, mi permette di introdurre l’argomento di questo Post.

Le forme brevi di poesia ci sono sempre state e probabilmente, oggi più che mai, riprenderanno vita e vigore (come già ho avuto modo di dire nel Post dedicato a Valentino Zeichen). Quello che però oggi, ai tempi di twitter, viene a mancare è questa dimensione insostituibile e indispensabile dell’attesa: il Poeta è colui che resta in attesa di incontrare la sua Visione. Non solo. Incontrandosi Poeta e Visione, nel luogo e nel tempo debito, si riconoscono e si amano; non è assolutamente detto che altri, nello stesso tempo e luogo, possano ugualmente riconoscerli nel loro amore o che potranno dettare tempi e luoghi diversi per il loro amore. Questo è tanto più vero quanto più gli altri dimenticano, un po' alla volta, cosa sia l’ATTESA per la Parola giusta. Per il giusto verso.

Già ma quale è, quali sono le parole giuste della Poesia? Quale è il giusto verso della Poesia, se esiste, ai tempi di twitter? Sicuramente non sono parole distratte e veloci che sfrecciano via, che si scrivono, si copiano-incollano e vengono rapidamente tagliate e sostituite da altre senza il tempo necessario per riempirle. Già perché le parole, in Poesia, non sono suoni che si scrivono ma silenzi che si riempiono.

Detto in un altro modo, la Poesia non vomita parole perche la Poesia non mangia -oltre al fatto risaputo che non dà da mangiare- le parole; lei, cioè non fa uso di parole. La Poesia si ciba di silenzio.

Quando dico silenzio, voglio dire qualcosa di più che tacere, smettere di parlare. Così come quando un poeta dice giorno per intendere non solo che il sole è sorto ma anche l’assenza della notte. Per silenzio quindi intendo quell’attesa necessaria per imparare nuovamente a parlare con l’unico scopo di nominare, senza nessun altro fine; senza alcuna strumentalizzazione. Si pensi ai linguaggi di oggi usati in pubblicità, nella scienza, nell’economia, nella psicoanalisi, nel giornalismo e anche in tanta poesia: non sono forse vere e proprie invenzioni per un fine diverso da quello di nominare le cose con il loro nome?

Sono linguaggi che usano le parole, che creano le parole, per fini di potere, linguaggi alla periferia di quello naturale; parole come fragole fuori stagione, che non sanno di niente non perché senza sapore ma perché non “accadono” nel tempo debito.

E oggi il destino di twitter o il suo torto è questo: parlare o troppo tardi o troppo presto; parlare cioè senza lasciare un margine per attendere un prima o un dopo; quando sarebbe proprio necessario riflettere del ritardo o sull’anticipo.

E così, ai tempi di twitter, può accadere che una notizia venga data prima che sia accaduta o troppo tardi: Bob Dylan ha vinto ovvero non ha vinto il premio Nobel per la Letteratura.

Un altro Florentino che più di 50 anni fa incontrò per la prima volta la sua Fermina.
Anche dell’Accademia Svedese il fato o il torto è solo e sempre questo, uguale a quello di twitter. E così una notizia attesa arriva o troppo tardi o troppo presto.

Nel febbraio del 1964, Dylan disse ai propri compagni: Rimbaud aveva capito tutto. Il poeta fa veramente di sé stesso un visionario per mezzo di un lungo, prodigioso e razionale sconvolgimento dei propri sensi...Cerco di raggiungere l'ignoto, e anche se, impazzito, finisco per smarrire il senso delle mie visioni perlomeno, le ho avute. Ecco il genere di roba che significa veramente qualcosa, ed ecco ciò che ho intenzione di scrivere, d'ora in poi.

E oggi mentre Dylan continua a masticare silenzio possiamo quindi leggere questo:

Campane di libertà

Lontano tra la fine del tramonto e lo scampanìo spezzato di mezzanotte
ci riparammo in un androne mentre il tuono esplodeva con fragore
e mentre maestose campane di lampi colpivano ombre negli abissi
come se fossero lampeggianti campane di libertà
lampeggianti per i guerrieri la cui forza è non combattere
lampeggianti per i rifugiati sull' inerme via di fuga
E per ognuno e per tutti i poveri soldati nella notte
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà

Attraverso la fornace disciolta della città inaspettatamente guardammo
con visi nascosti mentre i muri si restringevano
mentre l'eco delle campane nuziali prima della pioggia sferzante
si dissolveva nello scampanare dei fulmini
che suonavano per il ribelle che suonavano per il miserabile
che suonavano per lo sfortunato l'abbandonato e il rifiutato
che suonavano per l'escluso messo costantemente al rogo
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà

Attraverso il folle mistico martellare della selvaggia incessante grandine
il cielo esplodeva i suoi poemi in nuda meraviglia
che il tintinnare delle campane della chiesa soffiava lontano nella brezza
lasciando solo le campane di fulmini ed il loro tuono
che colpiva per il gentile, che colpiva per il mite
che colpiva per i guardiani ed i protettori della mente
ed il poeta ed il pittore lontano oltre questo giusto tempo
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà

Nella deserta cattedrale della sera la pioggia svelava lunghe storie
per le nude forme senza volto nè posizione
e suonava per le lingue con nessun posto in cui portare i propri pensieri
tutte costrette in situazioni scontate
suonava per il sordo ed il cieco e suonava per il muto
per la bistrattata madre senza marito la prostituta ingiuriata
per il delinquente da poco incatenato ed imbrogliato ed inseguito
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà

Sebbene la bianca cortina di una nuvola mandasse bagliori in un angolo lontano
e l'ipnotica nebbia acquiginosa si stava lentamente alzando
lampi elettrici ancora colpivano come dardi lanciati
non per quelli condannati a vagare oppure per quelli impossibilitati a vagare
e suonavano per quelli che cercano sui loro sentieri di ricerca senza parole
per gli amanti con la solitudine nei cuori con una storia troppo personale
e per ogni gentile anima innocua messa ingiustamente dentro una prigione
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà

Con gli occhi splendenti di sorriso ricordo quando fummo presi
in trappola dal non scorrere delle ore perchè stavano sospese
mentre ascoltavamo un'ultima volta e guardavamo con un ultimo sguardo
incantati e sommersi finchè cessò lo scampanìo
che suonava per i malati le cui ferite non possono essere lenite
per le schiere dei confusi, accusati, maltrattati quelli disillusi o peggio
e per ogni uomo imprigionato nell'intero universo
e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà



Forse siamo arrivati troppo tardi o troppo presto: Florentino-Dylan e Fermina-Poesia si sono già incontrati e sul battello della Compagnia Fluviale hanno fatto per la prima volta l’amore dopo essersi rincorsi e attesi per 50 anni.

La poesia ai tempi di twitter è già accaduta.